Sono nata il ventuno a primavera. Diario e nuove poesie di Alda Merini 

 

 

Editoria

 

 

(Roma). “Le prime volte che venivo a trovare Alda, son passati diversi anni, mi guardavo intorno nella stanza di ricevimento tinello libreria deposito di quadri, col televisore e il riscaldamento perennemente accesi e sorridevo del disordine, dell'affastellamento; poi via via ho capito che quella stanza è come la poesia di Alda: vive di accumulo, aggiungendo immagine ad a immagine, oggetto ad oggetto, con una semplicità ed una innocenza che riscattano e sublimano qualunque esperienza come qualunque disordine.

La stanza si costituisce anche per sottrazione: Alda è generosa, non ti lascia andar via senza donarti qualcosa: un libro, una fotografia, un cappello ecuadoregno, oppure una poesia o una esecuzione al pianoforte.  

Sono le parole dell’editore Piero Manni che ha pubblicato Sono nata il ventuno a primavera. Diario e nuove poesie (Collana Pretesti, 2005), quasi monologhi più che conversazioni, e in cui la poeta milanese traccia la sua biografia intellettuale.

Immagini su immagini, attraverso le quali Merini descrive la madre bellissima, ma un po’ “carabiniere, mascolina nello stesso tempo, imperativa…”. Presenza difficile da amare, nonostante l’amore, e di cui si aveva timore.

Ricordi. E ancora ricordi…come quando voleva entrare in convento…”…avevo una grande vocazione e sono andata in un convento a Vercelli; a casa si sono ammalati tutti, perché sostenevano che io avrei potuto essere una buona madre. Io ho fatto una vita esattamente contro la mia volontà, e lì è andata persa tutta la mia spiritualità. E poi, come donna di casa non valevo un tubo, come madre nemmeno, anche se ho sempre sentito la maternità, sono una madre nata, però non una madre che spolvera, che sta attenta che il bambino non sporchi, non si faccia una macchia: sono una madre morale, mentale, custode dei figli”.

E poi la guerra, il bombardamento del ’43, “dove tutta Milano perse la vita…”. Memorie di dolore e morte. I rifugi, gli sfollati, la vita nelle risaie di Vercelli. Inverni tremendi, il lavoro di mondina, a dodici anni appena!. Tutto per sopravvivere. Con accanto una madre “ormai inservibile”, e la responsabilità di dirigere la famiglia. Tempi in cui per un pezzo di pane si sarebbe venduto l’anima al diavolo.

Il primo impatto con la malattia: la cecità curata con il pentotal. La vista ritrovata…”

Più che malattia posso Merini parla di precarietà: “ero una bambina molto emotiva, molto delicata, ero sempre ammalata, piacevo a stento: non ero una gran fiore di bambina”.

E poi un fiore di poeta: l’inizio della frequentazione di alcuni circoli letterari, le prime poesie scritte a soli quindici anni..

Una bambina di quindici anni col Pasolini, il Davide [Turoldo, ndr], il Sereni, Manganelli …che vedono in lei una sorta di piccolo mostro letterario, più maschiaccio che bambina, personaggi che hanno contribuito ad aprirgli le porte del successo. Un successo di anno in anno divenuto sempre più grande, quanto la sua poesia, che ti entra nella pelle, nelle ossa, che sconquassa l’anima.

Delt@ Anno III, n. 83 del 13 aprile 2005