Stone Butch Blues di Leslie Feinberg  

 

 

Editoria

 

 

(Roma). Mentre stavo andando via, mi sono avvicinata a quel grande tavolo dietro il quale c’erano varie persone ed una stava ancora parlando. Lei aveva già parlato. A lungo, catturando la platea. Ora ascoltava. Le ho porto il libro perché me lo firmasse. Lei lo ha preso, ha scritto su una dedica e me lo ha restituito con un sorriso che mi ha folgorata.

Era un sorriso bellissimo, luminoso, pieno di una vita ricca, innocente e disponibile, dolcissimo e, soprattutto, sereno.

Quella donna dalla piccola testa, dagli abiti maschili e con una morbida voce da uomo, comunicava serenità: la trasmetteva. Riusciva a farti star bene in un attimo.

Alla Casa Internazionale delle Donne era arrivata per presentare l’edizione italiana del suo libro Stone butch blues, pubblicato altrove undici anni prima e che solo ora giungeva in Italia edito da Il Dito e la Luna.

Il suo modo di essere mi ha convinto a comprarlo e poi, tornata a casa, ho cominciato a leggerlo avidamente sull’onda dell’emozione che quel pomeriggio mi aveva procurato.

E mentre lo leggevo mi riveniva incontro quel sorriso.

È la storia di Jess, una butch (donna-uomo nella traduzione italiana) narrato in prima persona.

È la storia di una vita che deve pagare per quello che è, una vita che il mondo non vuole riconoscere, cui non è consentito il diritto di esistere.

Jess nasce in una famiglia ebrea e di classe operaia, che, su consiglio di uno psichiatra, la spedisce in una scuola di grazia e portamento dove ogni ragazza che entra, ne esce donna. Ma lei rappresentava l’eccezione.

Quel rifiuto familiare (“si comportano come se mi detestassero”, “secondo me, preferirebbero che non fossi mai nata”), quella violenza familiare, la spingono ad andare via di casa giovanissima, a cercarsi un lavoro (e ne fa di pesantissimi), a trovare gente “come lei”.

È nel Tifka’s bar di Niagara Falls che Jess comincia a sentirsi a casa, accolta e riconosciuta, iniziata alla vita, agli amori. È lì che scopre la potenza del sesso e la meccanicità di una violenza cieca e sorda, che si ripete sempre uguale ogni volta che i poliziotti entrano nel bar. Manganelli, botte, umiliazioni, soprusi indicibili (che talvolta, qui, vengono narrati attraverso gli effetti), che la spingono, per difendersi, a diventare stone: “stavo erigendo un muro di mattoni dentro di me”.

E, con il tempo, la spingono a passare, a tentare di diventare uomo.

Leslie Feinberg, l’autrice, racconta un viaggio attraverso il corpo, il proprio corpo forse, nel personaggio di Jess. Un viaggio durissimo: di andata e ritorno. Perché essere donna si può: anche in altro modo.

E sono questi modi, questa infinità di modi possibili che ci fa esplorare insieme a lei. Accompagnandoci nei luoghi delle umiliazioni, della resistenza, dell’orgoglio: da Stonewall ( “la rivolta del 1969 che diede il via ad un massiccio movimento nelle strade in tutto il continente ed in tutto il mondo”) al Gay Pride di New York.

Nei luoghi della solidarietà e della costruzione di una coscienza comune e della consapevolezza di essere in molti e di potersi fidare l’uno/a degli altri/e.

Fabbriche, bar, case, vie.

E lo fa con tenerezza e rabbia, presentandoci i volti complessi delle compagne e compagni di strada che si modificano insieme al suo, nel tempo, mantenendo intatto il segno della riconoscibilità.

Il mondo, la vita ci possono spingere nei processi più impensati, ma non possono cancellare il nocciolo duro di quello che si è davvero.

È un libro che pone a tema l’identità, il divenire dell’identità; la durezza della costruzione della propria verità; la solitudine e l’essere insieme; il silenzio e le parole; il valore dei nomi: di come possono essere feroci o morbidi, di come siano il segno del riconoscimento o della negazione.

Un libro sulle possibilità: “viviamo nella peggiore delle epoche; viviamo nella migliore. Sarà quello che noi ne faremo”.

Dipende dalla nostra capacità di agire in the spirit of Stonewall: la sua dedica.

(Delt@ Anno II, n. 148 del 5 luglio 2004)                                                                                                       Patrizia Politelli