Elena. Là dove la parola manca

 

 

Editoria

 

 

(Roma). “Nessuna cosa è (sia) laddove la parola manca”. Così recita l’ultimo verso di  “Das Wort”, una poesia di Stefan George del 1919. A partire dall’esplorazione del senso di questo verso, Heidegger costruisce il saggio “L’Essenza del linguaggio” (1959) nel quale viene esposta una tesi profondamente innovativa sul rapporto fra l’essere e il linguaggio: il linguaggio è il luogo in cui appare l’essere (altrove aveva detto: “il linguaggio è la casa dell’essere”). La parola non è solo uno strumento per indicare, descrivere, definire qualcosa che è già, ma è ciò che fa essere la cosa (das Ding). Senza la parola, non c’è neppure la cosa: “Solo là dove per una cosa è stata trovata la parola, la cosa è una cosa. Solo così essa è”.

Là dove la parola manca, allora, non c’è una cosa. E che cosa c’è? Qualcosa, forse, che non è “una cosa”. Qualcosa che si sottrae alla “semplice presenza” ontologica. Qualcosa  di traslucido, di chiaroscuro, di opalescente. Una suggestione, una proiezione, un fantasma.

Patrizia Politelli è musicista, filosofa, ricercatrice curiosa ed eclettica in campi “di confine” come il teatro. E’ stata un’esperienza di ricerca ermeneutica del genere più nobile e profondo, motivata da ben solide ragioni pragmatiche (voleva scrivere un personaggio teatrale)  a condurla sulle tracce della mitica Elena, l’ “argiva” moglie di Menelao che, per essere stata rapita da Paride, fu origine della guerra fra greci e troiani; la donna  nel cui nome i due popoli si inflissero reciprocamente gli “infiniti lutti” di cui narrano i poemi omerici. Dalla ricerca della verità scenica di questo personaggio “anomalo” (tendeva a “rubare la scena” comunque lo si rigirasse)  è iniziata per Politelli una accurata esplorazione filosofica e letteraria, dalla quale è scaturito  un affascinante e profondo saggio dal titolo sintetico ed esaustivo: “Elena: laddove la parola manca” uscito di recente per i tipi di Anicia.

Lasciandosi guidare dalla  suggestione di Heidegger e Stefan George  riguardo alla parola, Politelli parte  alla ricerca della parola appropriata per Elena. Esplora l’Iliade e l’Odissea, l”Encomio di Elena” di Gorgia, varie tragedie di Euripide (tra cui, naturalmente, “Elena”), l’ “Agamennone” di Eschilo, vari testi di Erodoto, Isocrate, Platone, Virgilio,  ma questa parola non c’è:   l’essere di Elena non è mai in una parola appropriata, cioè propria. Esso non è, se non nella parola altrui .

 A cominciare dal nome, parola “appropriata” per eccellenza, atta ad individuare senza mediazioni un ente, Elena si presenta come “ non-cosa”, come luogo dell’assenza di sé e della devastante onnipresenza dell’esterno. Dal suo nome, che reca in sé un presagio, di Elena conosciamo infatti già subito il  destino e la  condanna. “Nomen est omen” dice il proverbio: nel caso di Elena, il nome con cui è chiamata rimanda alla guerra, alla distruzione. “Distruggitrice di uomini” “distruggitrice di navi” “distruggitrice di città”. Colpevole, già a partire dalla parola che la definisce, di “infiniti lutti”. Tuttavia la sua colpa non sta in un atto ma in un non-agire: in un sottrarsi, appunto. In nome di lei, allo stesso tempo vittima  e “oscuro oggetto” del medesimo desiderio, si compiono stragi e inganni. “Io fui- le fa dire Euripide – non io, piuttosto il nome mio- la posta in gioco”. Il nome, nel caso di Elena,  è parola in senso heideggeriano: lungi dall’essere appropriata per indicare la cosa, questa parola costringe la cosa ad appiattirsi tutta sul suo tragico significato, e non le lascia scampo né possibilità di essere “anche” qualcosa.  Il nome  stesso di Elena è territorio di battaglia, regno di altrui conflitto, evocazione di fatti non suoi. Elena, dice Politelli, è un nome senza corpo. Un fantasma.

 L’essere di Elena, potremmo dire, appartiene tutto all’esterno, è un “si dice” che non arriva mai al centro e che dal centro non proviene, è un simulacro di essere, una fenomenicità  pura, senza fondamento ontologico. Elena è il luogo dove la parola (propria) manca.  Politelli si addentra, seguendo la bella, nello spazio muto fra le parole altrui, nella scansione degli aggettivi con cui ella stessa si determina, a partire da idee altrui (“cagna” dice Elena di sè, seguendo l’opinione comune, il “si dice” di lei) e  non rinuncia a viaggiare dietro al “fantoccio” guidata dalla traccia di Heidegger: “La parola fa sì che una cosa appaia”. Ed Elena, trascinata dal suo nome, condannata dalla sua fama, inesorabilmente assente dall’essere in senso ontologico,  appare suo malgrado sulla scena (senza aver niente da dire) e subito diventa il fulcro dell’attenzione generale. Elena (come Paride, del resto) è l’apparenza stessa, il fenomeno che esaurisce in sé la cosa stessa.

Il secondo grande tema della ricerca di Politelli è, di conseguenza,  la bellezza, “motore immobile” dell’agire umano.  Elena, donna bellissima, più bella forse di Afrodite stessa,  è la proiezione dell’aspettativa di bellezza di tutti gli uomini che, nel racconto di Esiodo, accorrono a Sparta da tutta la Grecia per sposarla. Elena è inoltre lo strumento passivo della seduzione di Afrodite su Paride. Non una donna bella, ma la bellezza senza la donna.  In “Premesse a Cassandra” Christa Wolf individua in Goethe l’unico interprete autorevole di Elena : “Idolo, a lui mi congiunsi che era idolo. Fu un sogno…ecco, svanisco, e idolo divento ormai a me stessa” (Faust). Costretta a rappresentare ciò che tutti desiderano, Elena non può esistere se non come promessa o rimpianto, oggetto di disputa o “capro espiatorio” a cui attribuire l’origine di un conflitto. Un essere che si può solo desiderare, mai possedere. Un nome dunque, e una moltitudine di aspetti (uno per ogni uomo che la immagina). Un nome “in sé prospettico”, che fa apparire (ovvero, seguendo Heidegger, venire ad essere) la realtà nel modo in cui lo fa l’arte. Non con il modo di essere, allora, delle cose-cose, ma con il modo di essere delle cose- opere d’arte, delle cose in quanto belle, in quanto oggetto di eros platonico, le cose che sono mentre sfuggono facendosi inseguire, e muovono verso il vero attraverso lo specchio del bello (desiderato) e del bene (intuito e mai posseduto).

“ La bellezza  è l’origine - conclude l’appassionata e appassionante ricerca di Elena condotta da Politelli – l’origine della fama, l’origine del desiderio e delle passioni, l’origine della guerra e l’origine della fine…l’origine, e come tale inesauribile”. Se Elena di qualcosa potrà vivere, sarà della bellezza stessa, del suo sottrarsi e del suo silenzio, del suo non-essere-cosa e della sua fuga prospettica.

 Il dono della parola  per Elena avrà una forma diversa da quella fin qui invano ricercata e negata: essa sarà la musica, di cui “Omero, Stesicoro e gli altri a seguire saranno gli esecutori… quella musica riparatrice che sarà suonata in tutti i luoghi per tutti i tempi”.

Elena sfugge all’essere cosa delle cose, mostra un nome che nel definirla la nega, parla un silenzio che la sottrae. E’, al modo della musica, una cosa che non è se non linguaggio, “una voce venuta da altrove”.  Impossibile evitare di pensare a  Vladimir Jankèlèvitch, ( La musique et l’ineffable):

“Dove la parola manca, là comincia la musica; dove le parole si arrestano, l’uomo non può che cantare” .

(Delt@ Anno II, n. 152-153 del 9-10 luglio 2004)                                                                                                             Nicoletta Bertorelli