Femminismi. (Roma). Sul vocabolario di italiano, al termine Matriarcato corrisponde la seguente dicitura: “Istituto sociale per cui la discendenza è computata secondo la linea materna e a donna, pur senza detenere il potere politico, è a capo della famiglia e gode di estesissimi diritti e privilegi nell’ambito sociale”(De Voto, Oli; Le Monnier). Ma cosa vuol dire matriarcato in ambito antropologico? Esso è inteso come una tradizione, una convenzione e una forma di governo, in cui il potere politico ed/o economico di una comunità, è detenuto dalla madre più anziana della comunità stessa. E’, dunque, una forma di organizzazione sociale contrapposta al patriarcato, in cui i ruoli sono analogamente volti al maschile. Una precisazione va fatta: il matriarcato non va confuso con la matrilinearità, in cui la discendenza segue la via materna, ma il potere e la gestione politica, economica e sociale delle comunità in cui essa è presente, sono sempre di competenza maschile ( in questo caso i fratelli della madre). Verso la metà del XIX secolo, due opere cominciarono a parlare di un primato storico del matriarcato. Si trattava di Das Mutterecht (1861) dello svizzero J. J. Bachofen e di Ancient Society (1877) dell'americano L. H. Morgan: il primo cercò di dimostrare che nella storia più antica l'umanità aveva conosciuto un sistema di parentela e di eredità secondo la linea materna; il secondo affermò che la società primitiva era organizzata come un clan collettivistico e che il clan matrilineare costituiva l'antecedente di quello patrilineare. Negli ultimi decenni, si sono prodotti molti studi sull’argomento e numerosi studiosi e storici hanno ipotizzato che il matriarcato possa essere stata la forma di governo delle comunità umane primitive; teorie alimentate dalle scoperte archeologiche degli ultimi anni. I ritrovamenti archeologici di reperti risalenti al periodo Paleolitico, che sembrano testimonianze di culti religiosi e spirituali, sono costituiti da statuette femminili, le Veneri Preistoriche; centinaia di queste statuette sono state ritrovate su un’area che dall’Europa si estende fino agli Urali, caratterizzate da seni, fianchi e vulva enfatizzati. Salta all’occhio che, in riferimento allo stesso periodo, non ci sono statuette che raffigurino l’uomo o simboli fallici. Che si tratti di un culto della fertilità? Un’ipotesi formulabile, ma forse poco probabile, visto che le statuette non sono mai associate a bambini, non rappresentano mai un parto e, anche se in apparenza sembrano rappresentare una gravidanza, viste di profilo le raffigurazioni hanno, spesso, una pancia piatta. Se non si tratta di un culto della fertilità, allora cosa rappresentano? Forse, nell’era paleolitica, un tale simbolismo del corpo femminile dava forma alla grande importanza data alla specie femminile e al valore che essa rappresentava. La donna, infatti, in quanto raccoglitrice, prima, e artefice della rivoluzione agricola, in seguito, svolgeva un ruolo chiave per la sopravvivenza, poiché era colei che assicurava il cibo sempre (contrariamente a quanto avveniva per la caccia). Lo stesso archeologo Gordon Childe (considerato uno dei massimi del suo tempo) sostenne che le donne, essendo state a contatto con la raccolta, e quindi con la natura, per due milioni di anni, ne avessero scoperto i segreti, e le definì i primi botanici della storia. Julienne Travers, in un articolo che anticipa il suo libro (Il serpente e il dio della tempesta, in stampa), sostiene che, nel passaggio alla vita sedentaria, il primo problema fu quello delle abitazioni; problema che anche gli studi etnografici più recenti suggeriscono sia stato risolto dalle donne: a tal proposito resta famoso l’aneddoto in cui i missionari, tra il XVIII e il XIX sec, prendendo contatto con la cultura pueblo (sud-ovest degli Stati Uniti) vi trovarono un sistema di case a terrazza tecnicamente molto belle e raffinate, e scoprirono non solo che gli architetti erano donne, ma che gli uomini non erano in grado di costruirne alcuna. Contemporaneamente alla capacità di costruire case, si svilupparono: la ceramica, la filatura e la tessitura. Gli scavi di un’archeologa russa, agli inizi degli anni ’80, mettono in crisi anche la data della scoperta dell’irrigazione: questa di solito si fa risalire al 3000 a.C.; questi scavi mostrano tracce di irrigazione, in Asia centrale, risalenti a 6000 anni a.C. Anche per epoche più tarde, tra i reperti risalenti al Neolitico, gli archeologi continuano a ritrovare statuette femminili con un triangolo accentuato sulla parte pubica; mentre sono rarissime quelle rappresentanti l’uomo o simboli fallici. Sempre la Travers sostiene che gli scavi archeologici dimostrano l’esistenza di città preistoriche in Anatolia e in Iran, molto grandi per l’epoca (CatalHuyuk aveva una dimensione due volte maggiore di quella di Troia) e antiche di 6000 – 8000 anni; questi studi ridiscutono le informazioni sulle prime città, che sono datate dopo il 3000 a.C. Queste e altre, numerose, scoperte mettono in crisi le teorie per cui la civiltà nasce contemporaneamente al patriarcato, e mostrano caratteristiche scomode: nella città preistorica non esiste la casa del capo, non esistono le mura di difesa o le fortezze. Per usare le parole della Travers: “…le case hanno più o meno le stesse dimensioni, le stesse comodità e gli stessi manufatti…non c’è evidenza di classe nobile”. Questo assetto della società non si nota solo nella struttura delle città o delle abitazioni, ma anche nelle sepolture: l’unica differenza era quella tra le donne, che venivano sepolte con vestiti molto lavorati e gioielli, e gli uomini, che non venivano sepolti con abiti o gioielli. Gli archeologi hanno dovuto ammettere che nella preistoria non si trovano tracce di gerarchia sociale. Altri ribaltamenti importanti sono stati quelli riguardanti: la produzione, per cui non c’era alcun tipo di artigianato specializzato, ma tutti i membri della collettività erano capaci di produrre oggetti e altri materiali; gli scambi commerciali, contrariamente a quanto sostenuto finora, erano presenti già nel mondo neolitico (a giudicare dalla presenza di gioielli in rame e specchi in ossidiana laddove questi materiali non esistevano). Che cosa è successo, dopo il neolitico, e cosa ha fermato lo sviluppo di questa civiltà? La Travers sostiene che il riscaldamento di alcune aree, come la steppa euro – asiatica, abbia condizionato il tipo di vegetazione e la possibilità di sviluppare un sistema agricolo florido, sviluppandosi, invece, ampie aree per il pascolo, rendendo possibile solo la caccia. In un contesto simile le donne non avrebbero avuto la possibilità di fare il salto dalla raccolta alla coltivazione; in presenza di un’enorme quantità di animali, la caccia è passata da attività marginale a principale, mentre viceversa è accaduto per la raccolta, l’attività delle donne. Forse, con lo sviluppo delle armi per la caccia e dell’uso del cavallo, gli uomini sono passati all’uso di queste per la conquista di territori più grandi, necessari per la caccia stessa; di conseguenza, contro altri uomini. Alcune tracce di queste invasioni dei popoli nomadi e cacciatori, partono dalla Turkmenia e arrivano all’Iran, all’Iraq, alla Grecia e all’Europa dell’Est; e dimostrano, anche, che questi popoli guerrieri si lasciavano dietro secoli bui e di sfruttamento delle popolazioni locali rese schiave. L’antropologa ungherese Marija Gimbutas sostiene questa tesi, e l’antropologa italiana Francesca Giusti, fa di più ipotizzando che forse le donne di questi nomadi-guerrieri affiancavano inizialmente i loro uomini nelle guerre, dando così origine al mito delle Amazzoni. I primi centri creati, dopo le devastazioni, dai nomadi-guerrieri sono quelli risalenti a 3000 anni a.C., cioè il periodo che gli storici definiscono l’inizio della civiltà. Contro la teoria del matriarcato si sono scagliati molti studiosi, sostenendo che non ci sono tracce, di questa struttura nelle civiltà esistite negli ultimi 3000 anni o nelle comunità cosiddette “primitive” contemporanee, che dimostrino la sopravvivenza minima di una società “ancestrale” fondata sul matriarcato. In realtà molti studi e documenti dimostrano il contrario. Innanzitutto, molti storici latini e greci, da Plutarco a Ippocrate, da Diodoro siculo a Strabone, parlano di donne guerriere: che si creda o meno al mito delle Amazzoni, tutti gli storici parlano, con tono più o meno dispregiativo, di queste donne che cavalcano e tirano con l’arco, e (poiché all’epoca la disparità fisica non era così marcata) che erano temute anche nel corpo a corpo. Gli Sciti le chiamavano oiorpata (assassine di uomini), Ippocrate le legava al popolo dei Sarmati (una stirpe scita), stanziato nella parte settentrionale del Mar Nero. Molti archeologi russi, che scavano nella steppa del Ponto dal 1950, hanno rinvenuto molti scheletri di guerrieri donne: le tombe ospitano donne, a volte sepolte in gruppo, con archi, frecce, spade, gioielli e monili, cinture da battaglia. La parità dei sessi tra i Sarmati non era solo politica ed economica, ma anche militare. L’archeologa J.Davis-Kimball, tra il 1992 e il ’95, nei kurgan nei pressi di Pokrovka, in Kirghizistan, scoprì donne guerriere di 2500 anni fa, con spade, pugnali, archi e faretre con frecce, le cui ossa delle gambe dimostravano la tipica forma arcuata, di chi trascorre molto tempo a cavallo. Dunque, donne e uomini vivevano alla pari. Ancora, in alcune zone della Grecia, come Creta, il nome delle popolazioni ne indicava l’origine matriarcale, come la stirpe greca dei Molionidi derivava ad esempio da Moliona, gli abitanti di Locri venivano detti Epizefiri, da “Zefiritide”, uno dei nomi di Afrodite; e al tempo di Sesostri l’Egitto governava diverse tribù di donne guerriere. Anche nella società Egizia, per quanto non si possa definire matriarcale, le donne godevano di notevoli diritti e privilegi, e la discendenza reale era trasmessa solo dalla donna: per poter essere Faraone bisognava sposare la propria figlia o sorella, colei che portava la discendenza. Così come la regina Candace, in India, senza marito sono anche la regina di Saba (Bilquis), Semiramide, una vera e propria amazzone, e Hatshepsut, l’unica donna-faraone mai esistita in Egitto e volutamente cancellata dalla storia alla sua morte. Guardando alle culture contemporanee e successive all’impero romano, anche quella dei Celti, notoriamente bellicosi e guerreschi, era fondamentalmente una società matriarcale, che adorava la Dea Madre, figura talmente pregnante che un guerriero, così come in Egitto, non poteva diventare re se non sposando una donna che potesse rappresentare la dea stessa, conferendogli dunque il potere sulla Terra e sugli uomini. Le donne dei Celti, inoltre, avevano un grande potere decisionale in seno alla famiglia, potevano cacciare il marito di casa e tenere con sé i figli. Per quanto riguarda la sopravvivenza di un retaggio matriarcale nelle società contemporanee sono ancora molte le società che si possono designare tali. Fra queste i Moso (Cina), la cui regione è detta anche il Paese delle Figlie, e in cui il matrimonio è ritenuto una pratica arcaica e contro natura, dove l’amore e la sessualità sono vissuti liberamente e dove, da sempre, la società affida le proprie sorti alle donne, lasciando agli uomini il compito degli scambi commerciali con i paesi confinanti e l’aspetto religioso della vita della comunità. Qui le donne vivono in una stessa casa con i figli, le figlie e i fratelli, senza la presenza di mariti o amanti sotto lo stesso tetto. Questo la caratterizza come forma di comunità abbastanza rara, rispetto alle altre in cui comunque il matrimonio è contemplato in qualche forma. Ci sono, poi, gli Irochesi (USA): una comunità matriarcale tra le ultime rimaste degli indiani d’America. Le donne legate da parentela vivono insieme, e i mariti con loro, in lunghe case: la loro autorità è notevole, dal poter allontanare l’uomo che fa loro obiezioni alla ripartizione del cibo, alla selezione dei capi religiosi (tra i quali vi è una rappresentanza femminile del 50%) e dei consiglieri e alla possibilità di istituire misure punitive. Tra le società di religione Islamica, due sono particolari proprio a causa della loro organizzazione matriarcale. I Minangkebau (Sumatra) sono una società matriarcale, in cui l’albero genealogico scende di madre in figlia, come la proprietà e la terra; come per i Moso, agli uomini spetta il compito di occuparsi degli scambi commerciali con i paesi confinanti e l’aspetto religioso della vita della comunità. Similmente agli Irochesi, le donne legate da parentela vivono tutte insieme, con i loro mariti, nella grande casa, la rumah gadang. I Tuareg hanno mantenuto intatte credenze premusulmane: le donne tuareg propugnano da secoli la parità tra i sessi e si dice che “una sola donna del deserto sia il massimo che un beduino medio riesca a governare”. Diversamente dalle altre musulmane, vanno a volto scoperto, godono di molte libertà e prendono parte alle decisioni che guidano le comunità. Esse, inoltre, sono le depositarie principali della scrittura e quindi responsabili dell'educazione dei figli. La tradizione vuole che siano state proprio loro a introdurre tra gli uomini l'uso del "taguelmust", il turbante impregnato di indaco che lascia scoperti solo gli occhi e che colora la pelle (oggi non viene quasi più usato, se non nei giorni di festa). Pare infatti che in seguito a una battaglia in cui i cavalieri Tuareg non eccelsero per il coraggio, le donne, vergognatesi, imposero ai mariti l'uso del velo. La Conferenza organizzata dal Filippino Women’s Council, Women for Women International, che si terrà alla Casa Internazionale delle Donne oggi, martedì 6 giugno alle ore 18.30 , dal titolo: “Società Matriarcali, società di pace”, ha come oggetto proprio la sopravvivenza di queste società, in cui: “Il Matriarcato non è sperimentato come un'immagine speculare del Patriarcato, ma come un’organizzazione sociale egualitaria”. Intervengono: Heide Gottner-Abendroth, filosofa tedesca, Peggy Reeves Sanday, antropologa all’Università di Pennsylvania, Barbara Mann professoressa nella Università di Toledo (Delt@ Anno IV, n. 123 del 6 giugno 2006) Alessandra Forteschi
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