L’evoluzione dell’eros femminile nella tragedia greca

Un’altra simposiaca serata giovedì 7 aprile da Maria Racioppi, presidente dell’Associazione L’Espressione Latina. Questa volta il tema del cenacolo letterario è stato “L’eros nella tragedia greca”, egregiamente svolto dal Professor Francesco Dell’Apa, che ha fornito una critica illuminata sui contesti storico-sociali di cornice alle opere di maggiore pregnanza nella letteratura antica, imprescindibile premessa alla comprensione dell’atteggiamento tenuto dai tre tragici più grandi nei confronti delle specificità psicologiche-erotiche dei generi.

All’interno di una società comunque innegabilmente patriarcale, l’evoluzione nella considerazione dell’autonoma e indipendente sessualità della donna da parte degl’autori più presenti ai nostri studi può essere assunta quale emblematico esempio dei mutamenti nei rapporti sociali di una comunità profondamente scossa dagli eventi politici. Tale dato, in congiunzione alla modificazione della più elementare tra le istituzioni, la famiglia, cartina tornasole del cambiamento etico e morale di ogni civiltà, ha vegetato costantemente sotteso al percorso ragionativo del professore.

La letteratura arcaica, che aprì la strada alle formulazioni poetiche e all’immaginario artistico della tragedia classica specificandone la composizione chimica del terreno, sembra aver contemplato un modello molto naturale della sessualità, basato sulla comune vivibilità di un sistema sociale patriarcale che proponeva fortemente l’istituzione familiare ma, poiché pur sempre modello semplice e rudimentale (quindi più vicino nella minor complessità alle necessità biologiche ed istintive), equanime nel riservare una pari libertà sessuale a ciascuno (almeno attenendosi a quel poco che si riesce ad evincere dalla scarsità delle fonti). L’esempio più lontano nel tempo di letteratura greca che possediamo, i poemi omerici (VIII a.C.), non indugia di frequente sull’elemento erotico (la scarsa attenzione può esser intesa quale assenza di disagio sull’elemento): si reiterano rare scene familiari-coniugali (nell’Iliade fondamentale è il commovente episodio dell’affetto che si scambiano Ettore, Andromaca e il neonato Astianatte, mentre nell’Odissea assume rilievo la fedeltà amorosa di una Penelope convinta della sua perenne passione per il consorte lontano) in cui s’assapora una piana e dolce  “philìa”, scevra di veri slanci passionali  e violenti che invece si riscontrano nel cruciale “menàge a trois” che animò secondo l’interpretazione mitologica la stessa guerra di Troia (quello tra Menelao, Paride ed Elena) e nel rapporto quasi simbiotico tra Achille e Patroclo, ovviamente omoerotico. Questo sistema sociale non è vincolato ad alcuna “pruderìe” che renda inaccettabile le possibilità naturali di amori omosessuali o adulterini condannandone duramente i protagonisti (nei confronti della “rea confessa” Elena Omero non s’esprime apertamente con biechi commenti morali, ma sospende il personale giudizio lasciando semmai al “lettore” possibilità di scelta). Tale atteggiamento, seppur in un abito che dedica una maggiore attenzione al motivo amoroso, il genere lirico (VII-VI a.C.), si ripete meravigliosamente dando i suoi migliori frutti nell’aulicissimo modulo stilistico della più famosa poeta di Lesbo, Saffo, che vive fanciullescamente “l’eros come forza elementare e paurosa” (secondo le parole del Prof. Dell’Apa), in un esasperato sensismo che giunge ad una quasi scientifica analisi dei sintomi alimentandosi di continuo di un vivacissimo edonismo che si pasce di un’estetica esaltazione della bellezza e della grazia degli anni più verdi. L’omoerotismo è espresso inaspettatamente in forme poetiche da una donna, stimata per i suoi versi da tutti gli autori maschi contemporanei e successivi. Anche se le ragazze del tiaso lesbico sono chiaramente istruite alla loro futura collocazione in una famiglia che le vorrà amministratrici della casa, chiuse nell’angusto spazio domestico, sorprende come  il sistema politico patriarcale, che accettava solo la presenza maschile sulla scena pubblica, non sia servito o bastato a defraudare la donna della libera espressione della sua purpurea sessualità.

Paradigma antropologico di matematica infallibilità, con il trascorrere del tempo ogni comunità si complica e proporzionalmente il sistema sociale s’elettrizza. Aristofane, il maggior commediografo dell’Atene del V secolo, porta in scena due commedie che dalla critica degli ultimi tempi sono state intese come le prime opere d’incidenza “femminista” nella storia letteraria: la Lisitrata e le Tesmoforiazuse. Nella prima opera, la protagonista indice uno sciopero sessuale delle donne ateniesi e spartane per convincere i loro mariti a sospendere la guerra peloponnesiaca (Lisistrata equivale a “colei che scioglie gli eserciti); nelle Tesmoforiazuse (donne partecipanti alle Tesmoforie, festa femminile in onore di Demetra Legislatrice) le donne ateniesi riunite tramano e decretano la rovina di Euripide, considerato a quei tempi un autore fortemente “misogino”: in entrambi i casi si registra una forte opposizione tra i sessi, vera rarità nelle opere arcaiche, indice di una crescente tensione sociale che in questo caso stimola assai efficacemente l’erotismo e l’attrazione. Nonostante Aristofane assuma le donne quali simbolo di senno e lungimiranza (soprattutto nella Lisistrata), facendone delle “eroine”, non riesce a mascherare la sua virilità nel ritrarre le stesse quali presenza conturbante e violentemente irresistibile. Aristofane poco ha saputo parlare con voce genuinamente femminile: come risultato le donne presenti nelle sue commedie non riescono ad avere plasticità di “soggetti”, ma rimangono “oggetti” pur nella qualifica di protagoniste.

Eschilo, il tragediografo favorito di Aristofane, fonda di frequente lo scandalo, motore della vicenda, sulla disobbedienza della donna agli ordini naturali (il rispetto del destino familiare, della “realizzazione” della femminilità consacrata ad un uomo solo e l’osservanza delle funzioni biologiche sessuali da assolvere…). Nelle Supplici le danaidi, nel rifiuto del matrimonio con i figli di Egitto, contravvengono “all’ordine e alla pulsione naturale dell’eros”, secondo un’espressione del Prof. Dell’Apa: il loro diniego si carica di un valore di gravità assoluta, che le trascende. Emblematica è la Clitemnestra di Eschilo, che dà prova di una smisurata capacità passionale di amore erotico (nei confronti dell’amante Egisto) e di odio (verso il marito Agamennone che le ha sottratto alla vita la figlia Ifigenia): nell’Orestea dimostra una passionalità affettiva forsennata e vagamente erotica anche nei confronti del figlio Oreste (Coefore), al quale mostra il proprio seno di madre, da cui lo nutrì nei primi anni di vita, per dissuaderlo dal proposito di vendicare il padre assassinandola, provocandogli un moto di disperato e violentissimo affetto (o pulsione edipica). Inizia qui a sciogliersi il vincolo dell’istituzione familiare, che si sgretola progressivamente. “I personaggi delle tragedie eschilee”-ha affermato il professore-“posseggono personalità nette e definite”, che non ammettono penombre e confini sfumati e incerti: si tratta in effetti di una letteratura dal sapore ancora arcaico, alla quale l’immaginario comune chiede ancora la conservazione di personalità facili perché immediatamente individuabili.

In Sofocle, il secondo dei tre incliti tragediografi ateniesi, si inizia a ravvisare un parziale ammorbidimento nei confronti della figura femminile e della nettezza delle indoli dei personaggi, anche l’autore continua a coprirli di una magniloquente dimensione eroica: gli attori delle sue tragedie sono pronti a “vivere o a morire con onore”, ha incalzato il professore. I personaggi femminili pagano spesso la loro ingenuità e debolezza: l’errore della sposa di Eracle Deianira (le Trachinie) è quella di aver avuto fiducia nei confronti delle parole del centauro Nesso che, morendo per mano di Eracle (che lo punì per aver tentato di violentare la giovane sposa), le consigliò il suo sangue come antidoto ad un futuro disinnamoramento del marito; il fluido nervino sarà filtro di morte per l’eroe, nel momento in cui Deianira, preda di una lacerante ed umanissima gelosia nei confronti della nuova più giovane sposa di Eracle (Iole), deciderà di sottoporlo al sortilegio per cui auspicava più rosei esiti. Dopo aver lucidamente inteso il devastante e inaspettato effetto al quale la gelosia per la bellezza della nuova, innocente consorte l’aveva condotta ( in uno slancio struggente riflette sul fiore dei suoi anni che sta lentamente appassendo, mentre la giovinezza dell’altra fiorisce rigogliosa, rendendola suo malgrado assai appetibile agli occhi del suo amore), orgogliosa e disperata sceglie la dignità di un suicidio (nella tragedia greca sembra costante una “libidine” verso la morte, che da, nella catarsi, un tagliente piacere sublime). Anche Antigone dimostra tutta la sua meravigliosa debolezza nel voler seguire “le leggi non scritte” del cuore, piuttosto che le rigide, talvolta inumane, perentorie imposizioni della legge statale, rappresentate da Cleone, che nella sua virilità ammette ben poche debolezze e smancerie.

Con la definitiva disfatta ateniese  nelle guerre peloponnesiache muore l’imperativo “atenocentrismo” che aveva specificato le opere drammatiche precedenti. Ci si apre alla concezione e all’ammissione all’”alterità” e finalmente, con Euripide, è definitivamente segnato l’approdo e la conquista della moderna visione della relatività dell’esistenza umana: i personaggi “smettono di essere eroi e diventano persone comuni”, uomini e donne sono parimenti investiti dall’imprevedibile “irrazionalità umana”, che si sottrae a qualsiasi schema prefissato e ad ogni caratterizzazione netta. In questa illuministica apertura all’alterità, i primi ad essere colpiti dall’analitica curiosità ateniese sono i “bàrbaroi” e le donne. Queste ultime vengono descritte dal grande tragediografo in “galleria, in tutti i diversi modi di vivere l’eros”. Ormai lontano dalle leggi arcaiche di Eschilo e Sofocle, Euripide rappresenta la donna (l’altro per eccellenza) debole quanto l’uomo: in “un’analisi psicologica che libera le pulsioni” egli rappresenta una femminilità “dalla passione istintiva, d’immediatezza di sentimenti”, che si applica diversamente, a seconda dell’indole individuale, ai ruoli di moglie e madre. Fedra, che si innamora del figliastro colpevole quanto lei di umane manchevolezze (Ippolito, per esempio, nella sua virtù disprezza i dolci frutti dell’eros, contravvenendo come le manaidi ad un’ordine naturale), la rettissima Alcesti, che si sacrifica in luogo delle persone amate pretende di non esser sostituita con una nuova moglie e madre dopo la morte e Medea, che, mossa da follia vendicativa, fa a pezzi i figli pur di non riconsegnarli al loro padre (Giasone) che per ragioni d’interesse ha sposato una nuova principessa: tutte esprimono con verosimiglianza l’ampiezza dell’animo femminile. Euripide si fa voce veramente della psicologia erotica delle donne, in tutto il suo polimorfismo: egli fu davvero capace di lacerare definitivamente in un’analisi più profonda l’istituzione familiare e gli schemi morali patriarcali, digerita una certa pariteticità nell’analisi psicologica di entrambi i sessi.