NOTICIAS DE AMERICA LATINA Y EL MUNDO
La
scoperta dell'America (latina)
GIANNI MINA'
La notizia che il nuovo
governo brasiliano di Lula da Silva ha rinviato (per ora di un anno) l'acquisto
di 12 aerei da caccia supersonici per destinare i miliardi di dollari previsti
dalla spesa alla lotta alla fame nel paese, sesto produttore di alimenti nel
mondo, ma dove i bambini randagi sono 10 milioni, rappresenta da sola una novità
tale nel mondo moderno che meriterebbe l'apertura dei Tg e la prima pagina non
solo dell'Unità
e del manifesto.
La coerenza di Lula, ex operaio metallurgico che, oltre a dar corpo alla riforma
agraria attesa dal paese da oltre un secolo, rispedirà agli Stati uniti l'idea
dell'Alca (Associazione per il libero commercio delle Americhe), un progetto
capace solo atterrare definitivamente le speranze economiche dell'America
Latina, era nota ma considerata fuori moda dalla cosiddetta sinistra riformista
europea e italiana. Adesso è probabile che anche qualche progressista di casa
nostra ammalato di opportunismo ammetta che il nuovo a sinistra è Lula e non il
presunto riformismo di Tony Blair, e sappia quindi resistere alla tentazione di
cambiare idea quando, fra un paio d'anni, la grande finanza speculativa o gli
interessi degli Stati uniti tenteranno magari di mettere Lula con le spalle al
muro come stanno facendo con Hugo Chavez in Venezuela. «Allora, se siete
sinceramente democratici dovrete essere al nostro fianco - mi ha detto
recentemente il teologo della liberazione Frei Betto - però in America Latina ci
stiamo difendendo da soli, con uno spirito nuovo».
E' vero: c'è una vitalità nuova, una febbre fino all'anno
scorso inattesa nelle vene ancora aperte dell'America Latina. Una febbre che
deve far riflettere anche l'Europa, specie quella che si autodefinisce
progressista, sulla convenienza a seguire gli Stati uniti nell'inquietante
politica che il governo di George Bush junior sta portando avanti nel continente
che fu di Simon Bolivar e José Marti.
L'enorme folla festante che ha accompagnato l'insediamento
di Lula da Silva è un segnale chiaro di questo vento di riscatto. Così come il
comportamento di Lucio Gutierrez, ex colonnello e neo-presidente dell'Equador
che, scegliendo i due rappresentanti indigeni Luis Macas e Nina Porcari Vera
(una donna bella e severa di etnia quechua) come ministri rispettivamente
dell'agricoltura e degli esteri, ha iniziato a pagare un debito vecchio di 500
anni alle popolazioni autoctone del suo paese.
L'America latina della lotta zapatista e del Forum
social mondial di Porto Alegre non è più rappresentabile, quindi, solo con
la tragedia sociale e politica imposta dal neoliberismo all'Argentina,
all'Uruguay o alla Colombia dove gli Stati uniti, con la scusa della lotta al
narcotraffico, hanno già introdotto più marines che in Afganistan.
Lula
e Gutierrez vincono, Chavez resiste, tornano gli zapatisti a San Cristobal.
Spira un altro vento nel «continente desaparecido», e la sinistra europea deve
riuscire a capirlo
In pochi mesi l'America
Latina, con le vittorie elettorali di Lula e Gutierrez, la tenuta democratica di
Chavez in Venezuela e la riapparizione il 1° gennaio del 2003 della resistenza
zapatista in Chiapas, ha imposto un freno inatteso nella macchina economica
neoliberale che si prefiggeva, come ha spiegato Noam Chomsky, più che
l'integrazione una vera e propria annessione del continente da parte degli Stati
uniti, e ha segnato una precisa volontà di riscatto. Un sentimento che
meriterebbe un'informazione più attenta, più corretta a storie come quella di
Hugo Chavez, presidente venezuelano eletto solo due anni fa, con il 60 per cento
dei voti, che resiste contro ogni previsione al golpe strisciante nuovamente
tentato, ormai da più di un mese, dalla Federcameras (la Confindustria del suo
paese) con l'appoggio delle solite sette sorelle del petrolio Usa e purtroppo
anche della Confederazione dei lavoratori venezuelani, il Ctv, un sindacato che
rappresenta solo il 7 per cento della popolazione attiva ma ha molto denaro a
sua disposizione per tentare di bloccare il paese.
Una strategia infame che, come hanno ribadito i documenti
declassificati della Cia, fu già sperimentata trent'anni fa in Cile quando il
segretario di stato americano Henry Kissinger e un'altra multinazionale come
l'Anaconda (leader nell'estrazione del rame) decretarono la fine del governo
democraticamente eletto di Salvator Allende e la sua esecuzione, malgrado - come
Hugo Chavez adesso - non avesse mai violato la Costituzione. Allora furono
«comprati» i sindacati dei camionisti che, in un paese estesissimo, lungo e
stretto come il Cile, con una rete ferroviaria modesta, erano gli unici a
assicurare ogni giorno la distribuzione delle derrate ai cittadini.
Ma queste pratiche eversive in America latina non hanno più
evidentemente un successo sicuro, automatico, così come la «guerra di bassa
intensità» attuata anche se non dichiarata dal governo messicano di Vicente Fox
contro le popolazioni maya in resistenza nel Chiapas. L'amico fraterno di Bush
junior, ex presidente della Coca Cola del suo paese, dopo essere stato incapace
di firmare come aveva promesso la pace con gli indigeni dello stato più ricco e
nello stesso tempo più medievale del paese, è attualmente prigioniero della
stessa potenza politica che caratterizzò il mandato del suo predecessore Ernesto
Zedillo (da lui sconfitto proprio promettendo un cambiamento chiaro, che non c'è
stato). Fox è ora costretto ad accettare che l'apparato poliziesco del paese
montato dal Partido revolucionario istitutional (Pri) in 80 anni ed
evidentemente mai smantellato spinga ancora una volta per una scelta repressiva.
Così, dopo due anni di silenzio, con una lettera aperta al
quotidiano La Jornada del subcomandante Marcos e con una inattesa
mobilitazione di 20 mila indigeni in passamontagna a San Cristobal de las Casas
(per ricordare l'insurrezione di nove anni fa) l'umanità zapatista ha deciso di
uscire dalla selva, dalle viscere della storia e di riproporre al mondo le
ragioni di una lotta che non è solo tesa al riconoscimento delle autonomie
politiche, sociali e culturali negate ai maya del Chiapas, ma al rispetto dei
diritti di tutti gli indigeni ed esclusi del mondo. Una lotta che, per queste
motivazioni morali, è stata ed è ancora la base di molte idee dello stesso
movimento no-global. «Siamo venuti qui - hanno detto gli zapatisti il giorno di
capodanno a San Cristobal - per dirvi che siamo ancora vivi, non ci siamo
arresi, non ci siamo divisi».
Marcos, nella lettera a La Jornada ha spiegato
questa insistenza sull'unità del movimento non scalfita dalle difficoltà: «Il
governo messicano ha messo la sua zampa nuovamente sulla nostra testa ed ora
pretende di sgombrare diversi villaggi che, spinti dalla guerra e dalla miseria,
sono stati costretti a rifugiarsi nei cosiddetti Montes Azules». E il centro per
i diritti umani Fray Bartolomé de las Casas ha chiarito: «E' cresciuta la
presenza militare e politica nella riserva della biosfera dei Montes Azules
mentre il governo sta cercando di dividere i vari gruppi indigeni».
Una situazione delicata che potrebbe diventare esplosiva in
molti stati del Messico. Proprio per questo la comandante Esther che
tanto aveva commosso il mondo quando nel febbraio 2001 aveva parlato a nome di
tutto il popolo zapatista nel parlamento messicano sognando la pace e il
rispetto dei trattati di San Andres, disattesi dal governo Zedillo e ora anche
da Fox, ha ammonito il presidente: «Ti dico soltanto che il popolo è
disincantato a causa dei tuoi inganni. Dove sta la pace? Non ti importa che
tutti gli sforzi di coloro che ti hanno eletto si siano rivelati vani?»
Credo che il mondo occidentale che si autodefinisce civile
e democratico faccia male ad ignorare, a eludere questi segnali, queste istanze
che rivelano un disagio ormai incontenibile. E credo anche che la sinistra
europea farebbe bene a battere un colpo non tanto perché i Lula e i Gutierrez
segnalano magari che il riformismo sincero consiste nel frantumare i tabù della
politica moderna e non nel credere che basta attenuare i disastri e le
ingiustizie dell'economia neoliberale per rimarginare le ferite della maggior
parte degli esseri umani. La sinistra europea deve capire che realtà come quelle
dell'America latina richiedono un cambiamento totale nell'approccio dei problemi
del mondo.
E' ipocrita far finta di non accorgersi, per esempio, che
in Venezuela la democrazia è rappresentata da chi come Chavez, pur con tutti i
suoi limiti ed errori, espropria i latifondi incoltivati per darli ai poveri o
decreta che l'estrazione e la prima lavorazione del petrolio nazionale possa
essere realizzata solo da società in cui lo Stato abbia almeno il 51 per cento
del capitale. La democrazia invece non è rappresentata da chi, come la maggior
parte dei mezzi di comunicazione nazionali, appoggia il famigerato trio dei tre
Carlos (Ortega, Andrès Perez e Hernandez), uno dei quali, l'ex presidente Andrès
Perez, presunto socialista, con il democristiano Caldera è il responsabile del
fallimento del paese e durante i suoi mandati è diventato uno dei tre uomini più
ricchi del continente.
Ma sul Venezuela, come sull'Afghanistan, sull'Iraq, sulla
Cecenia, sulla Colombia si elude, si tergiversa, si censura come avviene con
tutte le notizie che riguardano il possesso, il mercato e le guerre dichiarate
in nome del controllo mondiale del petrolio.
g.mina@giannimina.it
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