Azione globale
Intervista di Michelle Chihara, Alternet, Stati Uniti
Come portavoce
ufficiosa del movimento noglobal, Naomi Klein vuole che si smetta di chiamarlo
noglobal: "L'ironia dell'etichetta imposta dai mass media è che il movimento sta
facendo diventare la globalizzazione una realtà concreta, forse anche più di
quanto fanno le multinazionali". Gli attivisti di tutto il mondo stanno
costruendo una rete di contatti globale: "Dai senza terra in Brasile agli
insegnanti in Argentina, dai lavoratori dei fast food in Italia agli immigrati
che raccolgono i pomodori in Florida".
A dire il vero,
a Naomi Klein non piace neanche l'idea di essere definita una portavoce. "Questo
movimento non ha leader nel senso tradizionale, ma solo persone decise a
imparare e a condividere". Comunque sia, Naomi Klein è tra gli interpreti più
lucidi della storia e delle motivazioni del movimento.
Per il movimento
sono tempi duri. Tu parli di criminalizzazione del dissenso dovuta
all'imperativo della guerra al terrorismo. Ma d'altra parte è anche un buon
momento per la lotta alle multinazionali, visto che l'opinione pubblica si è
schierata contro l'avidità della classe dirigente
. Dunque: sono tempi
felici, infelici, o entrambe le cose?
Direi che stiamo
vincendo la battaglia delle idee ma stiamo perdendo la guerra. Certamente molte
tesi che appartenevano solo al movimento oggi stanno diventando opinioni
condivise da tutti.
Per
esempio quelle sulla deregolamentazione?
Sulla
deregolamentazione e sull'autoregolamentazione delle aziende. È stato evidente
al vertice della terra di Johannesburg. Negli ultimi dieci anni l'idea di
cambiamento politico che circolava negli ambienti di governo e delle Nazioni
Unite era: niente bastone, solo carota. Fornire incentivi, fare pubbliche
relazioni e dare premi di buona condotta, ma senza cercare di regolamentare i
comportamenti peggiori. Questo presuppone una dose straordinaria di credulità da
parte dell'opinione pubblica. E sappiamo che ce n'è stata in abbondanza
nell'ultimo decennio. Ma decisamente la situazione sta cambiando.
Detto ciò, anche
se oggi l'idea che le imprese si possano dare delle regole da sole è
un'assurdità, la presa di coscienza non si sta traducendo in regole create
nell'interesse dei cittadini e nella definizione di standard vincolanti. A
Johannesburg si è continuato a parlare solo di "obiettivi volontari" e di
"collaborazione". Le uniche regole stabilite sono quelle che proteggono gli
azionisti, nessuna serve a proteggere i lavoratori o l'ambiente. Dunque stiamo
vincendo la battaglia delle idee ma stiamo perdendo la guerra, forse perché non
abbiamo saputo riflettere seriamente sul potere e su come avviene il cambiamento
politico.
Per molti di
noi, di sinistra, la questione è ancora trovare ragioni vincenti, mettere ordine
nei fatti, mostrare l'evidenza dei torti, o semplicemente verificare le prove. E
forse non pensiamo al fatto che non cambierà niente finché non cominceremo
davvero a organizzare contropoteri in grado di bilanciare l'impunità diffusa
nelle grandi aziende o nello stato.
Modelli forti
Da dove bisogna
cominciare? Con quali modelli?
Esempi di
movimenti forti ce ne sono. Quelli che stanno avendo gli effetti più importanti
sul potere sono in America Latina. Negli ultimi sei mesi hanno cominciato a
parlarne anche il New York Times e il Washington Post: in America Latina c'è una
fortissima reazione contro il neoliberismo. Spesso se ne parla in modo
superficiale, come di un aumento dell'antiamericanismo. Ma in realtà si tratta
di una sfiducia totale nelle politiche neoliberiste, dovuta a ciò che hanno
prodotto.
L'Argentina è
l'esempio migliore. Per tutti gli anni novanta il paese è stato un allievo
modello, con una forte crescita economica ed enormi investimenti privati. Ma
quello che non si è detto è che dietro queste belle storie le disparità
aumentavano. Si facevano soldi con privatizzazioni che comportavano
licenziamenti di massa. Era un falso boom, come gli altri falsi boom degli anni
novanta, la new economy e il caso Enron.
L'America Latina
ha risposto con modelli organizzativi nuovi e interessanti, capaci di
contrastare gli effetti di queste politiche economiche, ma senza ricadere
nell'abusata retorica marxista. Non si tratta di dire "lavoratori di tutto il
mondo unitevi": che senso ha quando la disoccupazione è al 40 per cento e
un'intera generazione di persone non ha mai avuto un lavoro o un contratto?
Dove i cittadini
ragionano in base al nuovo contesto, senza usare vecchi contenuti per una
vecchia struttura, i contropoteri sono interessanti ed entusiasmanti. In
Uruguay, Paraguay, Ecuador e Bolivia intere comunità, dai nonni ai bambini, sono
impegnate nelle campagne che hanno fermato le privatizzazioni. Ecco cosa c'è di
diverso oggi. Nel nord del mondo abbiamo molto da imparare da questa idea di
organizzazione, di sindacalismo sociale.
Qual è
l'esempio più riuscito?
Negli ultimi sei
mesi ci sono stati movimenti vincenti per bloccare le privatizzazioni in tutta
l'America Latina. Hanno cominciato in Bolivia quando hanno cacciato la Betchel.
Era il 2000. Ma la notizia di questo successo si è diffusa lentamente.
Negli Stati
Uniti è arrivata dopo un secolo.
Anche in America
Latina: è stata come isolata. Negli ultimi due anni il movimento di movimenti ha
semplicemente diffuso storie di successi. Siamo isolati dai nostri stessi
successi. E allora siamo più propensi a credere che non esista nessuna
narrazione alternativa. Ma il movimento di resistenza in Argentina, gli
esperimenti di democrazia partecipativa in Brasile e perfino la resistenza di
Chávez in Venezuela hanno dato coraggio ai cittadini.
Storicamente la
sinistra ha commesso l'errore di scegliere un certo settore della popolazione
come una sorta di avanguardia, tenendo separati i lavoratori, privandoli delle
loro radici, allontanandoli dalle loro famiglie e comunità dicendo: "Queste sono
le persone che guideranno la rivoluzione e ci porteranno al cambiamento
politico".
In Argentina i
piqueteros hanno formato dei sindacati di disoccupati. Non potevano fermare le
fabbriche perché erano già stati licenziati, così hanno occupato le strade dove
si trasportavano le merci. Per settimane e mesi di fila, intere famiglie hanno
trasformato le strade in baraccopoli ambulanti. È stato il loro modo
d'organizzarsi a guidare l'esplosione popolare del 20 dicembre scorso, quando
hanno fatto cadere il governo argentino e in due settimane hanno visto passare
cinque presidenti. Dopodiché sono praticamente scomparsi dai giornali e nessuno
sa davvero cosa succede oggi in Argentina. Ma è stata un'esplosione di
democrazia partecipativa: c'è stato di tutto, dalle fabbriche occupate agli
ospedali chiusi che sono stati riaperti dai medici licenziati. È un contropotere
incredibile, alternativo a uno stato che è fallito.
Opportunità mancate
Questa versione della
storia, questa narrazione, non è certo quello che sentiamo raccontare nel ricco
nord. Abbiamo storie simili?
In Canada c'è un rinnovato interesse per la politica
locale. Negli ultimi anni il peso maggiore della globalizzazione economica, si
tratti di tagli al welfare, all'edilizia popolare, all'istruzione o
all'assistenza sanitaria, è finito sulle città piccole e grandi. Per qualche
anno ci sono state amministrazioni comunali depoliticizzate e pronte ad attuare
questi tagli. Oggi mi sembra che nelle città stia emergendo un atteggiamento
molto più conflittuale. Ci sono molti giovani che per buoni motivi non credono
nella politica dei partiti, ma cominciano a interessarsi alla politica locale
con l'idea che se puoi controllare l'amministrazione scolastica, se puoi
controllare il consiglio comunale, allora puoi trasformare la città in un luogo
di resistenza, puoi opporti ai tagli di spesa.
Negli Stati
Uniti c'è un esempio di attivisti che hanno saputo usare il tracollo di aziende
come Enron e WorldCom per produrre dei cambiamenti?
Ci sono un
mucchio di iniziative positive, ma la mia impressione (e lo dico come qualcuno
che non ha trascorso molto tempo negli Stati Uniti) è che ci sia troppa
frammentazione. Dobbiamo ammettere di aver perso molte opportunità negli ultimi
mesi, dopo il fallimento della Enron e la crisi di credibilità delle imprese, e
penso che ci sia ancora troppa esitazione. Dopo l'11 settembre teniamo tutto
dentro, e non siamo abbastanza coraggiosi, proprio ora che l'opinione pubblica
condivide molte posizioni sostenute fino a poco tempo fa solo da qualche sito
web contro le multinazionali.
Cosa
dovrebbe cambiare?
Dovremmo essere
molto più arrabbiati. C'è stata troppa moderazione nella nostra risposta al
furto generalizzato e alla politica mafiosa.
Cambiamenti concreti
Cosa dici a chi è di nuovo in fermento – per la guerra al terrorismo o la
crisi delle multinazionali – ma non sa come impegnarsi? Ai cittadini che non
vanno alle manifestazioni perché gli sembrano stereotipate e che non votano
perché gli sembra inutile?
Negli ultimi
anni c'è stata una crescita esponenziale dell'impegno politico, è emersa una
nuova generazione di militanti. Centinaia di migliaia di persone hanno
partecipato alle manifestazioni. La paralisi di cui parli è legata in parte
all'essere schiacciati dall'ampiezza del problema.
Non bastano una
manifestazione e un boicottaggio. La strada per colmare i divari sociali passa
attraverso l'azione diretta. Dobbiamo far assaggiare ai cittadini un altro modo
di essere che spezzi la passività; dobbiamo chiedere un cambiamento e
realizzarlo concretamente. Per esempio ridare energia elettrica al Sudafrica,
usare il proprio corpo per fermare uno sfratto in Canada, occupare la terra. È
questo che ha galvanizzato persone di tutto il mondo.
L'attivismo
locale spesso non è considerato abbastanza serio. Io credo che sia una forma di
azione diretta autenticamente di base. Non un'azione simbolica all'esterno di un
summit, in cui decidi di farti arrestare e di scontrarti con la polizia, ma
un'azione diretta che avrà un effetto reale, si tratti di dare un tetto a
qualcuno o fermare un'espulsione, dare acqua o elettricità o terra. E questi
movimenti di base sono sempre più collegati in una rete globale. A Seattle
c'erano collegamenti tra organizzazioni non governative, studenti, anarchici; ma
mancavano proprio tra le persone più direttamente colpite da queste politiche.
Per ovvi motivi, chi ha difficoltà d'accesso alle tecnologie e ha l'urgenza di
lottare per un tetto non sarà necessariamente disposto a compiere azioni di
portata internazionale.
Si è sviluppata
così una tensione tra attivismo globale e locale. Le proteste globali stavano
diventando sempre più astratte. Era sempre più difficile spiegarne i contenuti.
E cresceva il risentimento tra le persone di tutto il mondo che subivano sul
campo gli effetti di queste politiche e contestavano tutte le risorse investite
per saltellare ai vari summit, mobilitare i manifestanti, pagare gli autobus e
anche le spese legali. Ma penso che attraverso momenti di scambio come il forum
sociale mondiale o le campagne di Via Campesina cominciamo a vedere un
cambiamento.
L'ho avvertito
molto chiaramente a Johannesburg. Oltre ai vari incontri tra le ong ci sono
state varie iniziative dedicate ai senza terra. È stata la prima volta che ho
visto una cosa del genere: il Movimento dei lavoratori senza terra e la Via
Campesina da El Salvador, dall'India, da ogni parte dell'Africa, tutti impegnati
a scambiarsi racconti su riforme agrarie e rivendicazioni di terre, a discutere
all'infinito di Mugabe e così via. Questo probabilmente è uno degli sviluppi più
incoraggianti.
Alternative realizzabili
Nel tuo
nuovo libro, Fences and windows, dici di aver cercato di documentare una fase
della storia di questo movimento di movimenti, senza prevedere cosa potrà
succedere in seguito. Ma… cosa potrà succedere? Nascerà una rete globale a
partire da questi movimenti locali?
Penso che in
gran parte sarà così. Siamo riusciti a definire che cosa c'è davanti a noi: una
doppia crisi. Da una parte c'è la crisi economica del neoliberismo. Il suo
modello sta fallendo in tutto il mondo. La promessa della globalizzazione è di
portare i paesi sottosviluppati nell'economia globale. La realizzazione di
queste politiche ha aggravato le diseguaglianze in tutto il mondo. Ha prodotto
una serie di crisi nell'economia delle tigri asiatiche, in Europa orientale, in
America Latina. L'unico successo che economisti come Jeffrey Sachs possono
ancora indicare è la Cina. E non vedono l'ironia del fatto che si tratta di un
paese comunista!
E
protezionista…
Assolutamente, estremamente interventista: lo sviluppo
della Cina non è in alcun modo il risultato di una formula strettamente
neoliberista. Nei paesi ricchi il modello neoliberista ha creato enorme
ricchezza per un'élite, mentre per la maggioranza della popolazione ha
comportato la stagnazione o un peggioramento della situazione. Perciò non c'è
nulla di cui vantarsi. Siamo riusciti a individuare il problema, ma c'è voluto
un bel po' di tempo. Nella traiettoria triennale che racconto nel libro si passa
dalla critica di alcune mele marce alla critica delle privatizzazioni, poi alla
critica del neoliberismo come viene applicato, fino a capire meglio che è una
fase del capitalismo. In buona parte è questo l'obiettivo delle proteste:
stabilire un nesso tra casi apparentemente isolati per denunciare un sistema
globale.
E il rovescio
della medaglia delle politiche economiche neoliberiste è la crisi globale delle
democrazie rappresentative. Ecco perché i cittadini di tutto il mondo hanno
cominciato a bersagliare le grandi aziende: perché capivano di non essere più
ascoltati dai politici che avevano eletto.
Se prendiamo
atto di queste due crisi gemelle, allora troveremo delle alternative. Se
facciamo politica locale non è solo perché abbiamo rinunciato alla politica
statale, ma anche per timore del potere centralizzato. È il timore di ciò che
succede ogni volta che il potere è centralizzato, si tratti di un governo
statalista socialista, di un governo neoliberista o di un regime fondamentalista
religioso.
Ci siamo
limitati a indicare ciò contro cui ci battiamo perché la maggior parte di noi
sente di non avere la possibilità di andare oltre. Non siamo abbastanza forti
per agire. C'è l'idea che si debba elaborare un piano di azione e poi
realizzarlo, un po' come succede con i piani aziendali. Ma penso che i
cambiamenti politici avvengano attraverso grandi sconvolgimenti. Ci devono
essere le condizioni giuste per arrivare a una vera innovazione; cioè, non
cominceremo a costruire realmente delle alternative finché non sapremo e potremo
credere davvero di essere in grado di realizzarle. Altrimenti è una
masturbazione, no?
È per questo che
sono ossessionata dall'Argentina, ossessionata sul serio. Stiamo facendo un
documentario sull'Argentina, ci trasferiremo lì per sei mesi, da novembre ad
aprile. L'idea è vedere come le due crisi gemelle abbiano raggiunto il loro
apice in Argentina. Lo studente modello del Fondo monetario internazionale va
completamente allo sbando, un fallimento oltre ogni immaginazione. Dopodiché
arriva un rigetto della classe politica, superiore, credo, a qualsiasi altra
cosa mai vista nella storia. È talmente intenso, che cambia l'intera narrazione
della politica.
Lo slogan che si
sente ripetere in tutte le strade dell'Argentina è: "Que se vayan todos!". Via
tutti! È diretto a ogni livello di governo, alle grandi aziende, alle aziende
elettriche privatizzate, alla corte suprema, a tutto ciò che rappresenta una
qualche forma di potere istituzionalizzato. Una perdita di fiducia totale nella
delega politica.
Credo che per
l'ampiezza di questa crisi i movimenti di base – i piqueteros, le assemblee di
quartiere – produrranno una specie di modello per il cambiamento attraverso
l'impegno in una campagna elettorale. Non dico che vinceranno le elezioni e che
il paese sarà governato dalle assemblee di quartiere, anche se sarebbe
bellissimo. Ma il livello di mobilitazione in Argentina è qualcosa che non ho
mai visto. Farà avanzare il dibattito di anni luce. E disegnerà un altro sistema
possibile per il resto del mondo.
Traduzione di
Nazzareno Mataldi
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