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Cento fabbriche vivono. Anche senza industriali

Raúl Zibechi da Buenos Aires

“FABRICA CERRADA, fabrica tomada” [fabbrica chiusa, fabbrica occupata], è una delle parole d’ordine divenute popolari in Argentina dopo l’insurrezione del 20 dicembre del 2001. Con quattro anni di recessione alle spalle e livelli di disoccupazione e sottoccupazione che raggiungono la metà della popolazione attiva, sono sempre di più i lavoratori che si rendono conto che quando perdono il lavoro vengono espulsi definitivamente dall’economia formale e sono condannati a vagare nel limbo del lavoro precario e malpagato, ad arrangiarsi o a far qualcosa per proprio conto. Per questo, afferrarsi al lavoro come a una ciambella di salvataggio è stata la via che migliaia di persone hanno cominciato a percorrere quando i padroni hanno deciso di abbandonare la barca della produzione per scommettere sulla speculazione.
In Argentina sono ormai più di cento le fabbriche occupate e che producono: sommate alle 200 del Brasile costituiscono un vero e proprio movimento che comincia a coordinarsi con altri settori già alla ricerca di vie alternative. Il movimento di recupero delle imprese si è messo in moto lentamente agli inizi degli anni ‘90, quando l’apertura dell’economia nazionale ha messo sul lastrico molte imprese che di colpo sono state considerate improduttive, malgrado molte di esse avessero beneficiato del sostegno statale sia diretto, tramite prestiti agevolati e investimenti, che indiretto, attraverso il protezionismo sull’industria nazionale che aveva garantito loro un mercato esclusivo.

Tessile Brukman

I primi tempi sono in genere i più difficili. Le poco più di cento operaie della fabbrica tessile Brukman, un’impresa che produceva vestiti da uomo nel quartiere Once di Buenos Aires, rimasero perplesse quando il padrone sparì alla fine di dicembre mentre il paese si incendiava. Da mesi il padrone pagava solamente una minima parte dello stipendio, appena un dollaro al giorno, ma aveva accumulato un debito salariale già da cinque anni. Passavano i giorni, e nella fabbrica non si vedeva nessun dirigente, così alcune operaie decisero di rimanere dentro. Celia è una di loro: non aveva la minima esperienza sindacale, aspettava un miracolo che le permettesse di continuare a lavorare e percepire anche solo una minima parte dello stipendio.
In diversi casi, i padroni hanno pianificato con tutto il tempo necessario lo svuotamento delle imprese, indebitate per cifre milionarie con lo stato e con i fornitori, e in questa strategia furono aiutati anche dalla mafia sindacale della Cgt ufficiale.
Nella gran maggioranza dei casi, la decisione di mettersi a produrre è maturata dopo un lungo processo del collettivo dei lavoratori. Non è mai stata una decisione automatica, ma è sempre stata attraversata da molteplici dubbi, insicurezze e paure. A volte, c’è voluto più di un anno per rimettere in moto la fabbrica. Alcune imprese possono contare sulle materie prime abbandonate dal padrone, altre se le sono dovute cercare o se le sono procurate tramite donazioni o con l’appoggio popolare senza poter contare quasi mai su prestiti, almeno nei primi tempi.
Nonostante molti punti in comune, la battaglia giudiziaria è uno di essi, le esperienze sono molto diverse tra loro. Da una miniera del sud, Yacimientos carboniferos Rio Turbio, con più di mille lavoratori, che è stata nuovamente statalizzata dopo tre anni di lotta, fino alla piccola e moderna tipografia Chilavert, situata in un quartiere di Buenos Aires. In quest’ultima, gli operai hanno impedito il trasloco delle macchine proprio mentre il padrone svuotava l’impresa, l’hanno occupata e hanno incominciato a lavorare stampando volantini e manifesti per le organizzazioni sociali.

Il panificio Cinco

La solidarietà è un elemento chiave, soprattutto nella prima fase dell’autogestione, quando bisogna “aguantar” [tenere duro], una parola che sintetizza la volontà di lotta e resistenza di fronte all’accerchiamento della polizia e del padrone. È emblematico un caso avvenuto quest’anno nella zona nord di Buenos Aires. Il panificio Cinco aveva chiuso nell’ottobre del 2001, licenziando 80 lavoratori senza pagar loro la liquidazione. Nell’aprile scorso, l’assemblea del quartiere, nata dopo le giornate di dicembre, per ottenere pane a miglior prezzo s’è unita a un gruppo di 20 operai del panificio Cinco. Insieme, abitanti del quartiere ed ex-operai, hanno occupato il panificio e hanno resistito 50 giorni ai tentativi di sgombero.
La solidarietà del quartiere è stata impressionante: assemblee, piqueteros e militanti della sinistra hanno montato una tenda all’entrata della fabbrica per garantire la sicurezza, hanno fatto tre feste, un corteo di quartiere, un escrache [protesta ad personam] all’impresario, una manifestazione per il primo maggio, e poi incontri, dibattiti e attività culturali.
Poi si è deciso di formare una cooperativa [i partiti di sinistra proponevano invece la statalizzazione della fabbrica con il controllo operaio] e ora sono riusciti a ottenere dal parlamento provinciale l’esproprio e la “donazione” alla cooperativa dei locali, delle macchine e del marchio della fabbrica. Adesso producono e vendono pane a prezzi più bassi di quelli di mercato agli ospedali, alle mense popolari e agli abitanti del quartiere.

Stato o cooperative?

Un dibattito profondo attraversa il movimento fin dalla nascita: quale statuto dare alle fabbriche recuperate? Due le proposte: la proprietà statale con il controllo operaio o la formazione di cooperative autogestite. La prima viene dalla sinistra, soprattutto dal Partito operaio [Po] e dal Movimento socialista dei lavoratori [Mst] ma anche da settori del Partito comunista e dei socialisti. L’idea è parte dell’immaginario del movimento comunista e rivoluzionario internazionale e viene adottata senza la minima modifica né autocritica: consiste nella statalizzazione dell’impresa che, da quel momento, potrà contare su sovvenzioni statali, ma rimarrà alla mercé della politica dei diversi governi, mentre i lavoratori controllano e fiscalizzano la gestione.
La proposta cooperativa non prevede la delega della direzione a istanze esterne al collettivo operaio, il quale assume così ogni responsabilità e rischio, compresi quelli della commercializzazione dei prodotti. Chi è favorevole alle cooperative autogestite in molti casi si propone di modificare la classica organizzazione fordista del lavoro sostituendo i capi e, a volte, mettendo in discussione la stessa figura del capo officina.
Fino ad oggi, la maggioranza delle imprese autogestite ha scelto la creazione di cooperative.
Nel 2001 è nato il Movimento nazionale di imprese recuperate [Mner] in cui confluiscono più di 60 imprese autogestite. Jorge Abellí, dirigente del settore, sostiene che “consegnare le imprese che abbiamo recuperato e rimesso in funzione con molta fatica a questo stato mafioso non sembra la cosa più opportuna”. Abellí è membro di una cooperativa avicola di Rosario che è stata chiusa nel 1998 mettendo cento operai sulla strada. Dopo aver occupato gli impianti e resistito agli sgomberi e alle pressioni [”Abbiamo passato l’inverno chiusi nella fabbrica dormendo sulle scatole di cartone”, dice], gli operai hanno vinto la causa e, dalla fine del 1999, hanno ripreso la produzione.
Le imprese recuperate appartengono a ogni settore: le più grandi sono quelle metalmeccaniche e siderurgiche. Ci sono giornali e tipografie, ma la maggior parte è nel settore alimentare. Hanno in media 70 lavoratori e sono diffuse in tutta l’Argentina. “Non è la stessa cosa gestire una piccola impresa di 15 lavoratori o la più grande fabbrica di trattori del paese”, commenta Abellí.
Si riferisce a un caso emblematico, quello della Zanello di Cordoba, una grande fabbrica di trattori, l’unica del paese, con 400 operai. Una sentenza giudiziaria l’ha assegnata ai lavoratori il 28 dicembre. A febbraio hanno lanciato sul mercato un nuovo modello progettato dagli operai e dai tecnici in base a un ingegnoso accordo. Hanno organizzato un’”alleanza strategica” che li ha portati alla creazione di una società anonima, la cui proprietà è divisa in parti uguali tra gli operai della cooperativa, ora circa 280, i dirigenti e i tecnici [che in questo modo possono ottener maggiori benefici che non entrando a far parte della cooperativa], e i concessionari, che hanno messo il capitale per far riprendere la produzione.
In marzo sono riusciti a fabbricare e a vendere due trattori e oggi, malgrado la crisi, ne producono e vendono uno al giorno a un costo inferiore del 30 per cento a quello dei trattori della John Deere. È certamente una soluzione eterodossa, ma quando si tratta di grandi imprese che producono in settori di tecnologia avanzata che hanno bisogno di grandi investimenti in macchinari non sembrano esserci soluzioni semplici.
Oltre alla mancanza di capitale e di materie prime, un grave problema per le fabbriche autogestite è quello dell’amministrazione. Quando chiudono gli impianti, infatti, i primi a sparire sono gli amministratori. “La nostra gestione è precaria ma trasparente e democratica”, dice Abellí. Molte delle imprese autogestite pagano gli stipendi ogni venerdì e lo stesso giorno mettono in bacheca un rapporto sulle entrate e le spese in modo che ogni socio della cooperativa sia al corrente della situazione economica. Il Mner ha fatto un accordo con l’associazione delle piccole e medie aziende e con l’Università tecnologica per ricevere un appoggio nella formazione di personale amministrativo e dirigenti d’impresa.

Economia solidale

Per quanto riguarda la commercializzazione, il consumatore viene considerato l’alleato principale, per questo ci si rivolge alle assemblee di quartiere e agli altri settori del movimento sociale che lavorano per un “consumo consapevole”. Ma ci si appoggia anche ai municipi e si tende a rifornire soprattutto ospedali e scuole. I lavoratori della Brukman, per esempio, hanno fatto una riconversione dalla produzione di abiti a quella di grembiuli per le scuole e di camici per ospedali, l’obiettivo era quello di dare un contenuto sociale alla produzione e avere un mercato più sicuro.

Il bar Alameda

Ma gli esempi di produzione autogestita vanno molto al di là delle fabbriche e tendono a generalizzarsi in tutto il movimento popolare. Un buon esempio è quello dell’assemblea di Parque Avellaneda, un quartiere relativamente centrale di Buenos Aires. Agli inizi di giugno, gli abitanti organizzati hanno occupato un bar abbandonato, l’Alameda, l’hanno restaurato e, con l’appoggio di altre assemblee, hanno attrezzato un locale bar e un ristorante popolare cui partecipano ora più di 120 persone. Fanno il pane e cucinano e hanno creato una cooperativa che produce e vende pane a mense popolari e agli abitanti del quartiere, ora iniziano a produrre anche articoli per l’igiene domestica.
Nel bar recuperato funzionano oltre 20 laboratori che vanno dall’aiuto scolastico per i bambini fino agli orti biologici, e poi danza, ceramica, yoga, comunicazione alternativa, autostima e falegnameria. Gli abitanti del quartiere sono organizzati in otto commissioni per gestire tutte le attività di un vero e proprio centro culturale e produttivo. È stato creato così uno spazio-assemblea in cui confluiscono una trentina di assemblee della città e della provincia che hanno obiettivi simili. In alcuni casi, molte assemblee di quartiere sono passate dagli acquisti comuni e dalle prime esperienze di baratto [Trueque] all’autoproduzione di alimenti, in altri a quella di farmaci di base e in altri ancora all’autocostruzione di case.
Lo spazio-assemblea ha già promosso due incontri di economia solidale a luglio e agosto nell’ex bar Alameda. Hanno partecipato assemblee, piqueteros, fabbriche autogestite e gruppi di studenti. Quaranta delegazioni hanno discusso quale definizione usare. C’è chi propone “economia di resistenza” e chi pensa a una rete di appoggio agli abitanti minacciati di sgombero. Nelle conclusioni, riportate dal giornale “Alameda”, si propone di “difendersi reciprocamente dagli attacchi di chi comanda e di cominciare ad aprire prospettive di lavoro e di dignità attraverso l’utilizzo delle fabbriche abbandonate, delle terre non coltivate e delle case vuote”. Quelli di Alameda pensano che “il vento inizia a soffiare dalla parte dei piccoli” e rivolgono un appello per “articolare gli sforzi e non essere dispersi dai potenti”.
Un dato particolarmente interessante dell’attuale realtà argentina è l’intreccio delle diverse iniziative. Le assemblee entrano nella produzione così come i piqueteros del quartiere di Solano in quello di Quilmes; gli uni e gli altri si coordinano con le fabbriche autogestite nella speranza di scambiare prodotti; uniscono gli sforzi per imparare dai successi e dalle sconfitte di ciascuno; condividono la solidarietà nei confronti della fabbrica di ceramiche Zanon, nel lontano sud, che ha lanciato sul mercato un modello di piastrelle disegnato dai mapuche, e così via. La rete, giorno dopo giorno, si fa sempre più complessa, va e viene, si allaccia e crea nodi, si separa e unisce di nuovo.

La storia della Impa

Un altro caso esemplare è quello delle Industrie metallurgiche e plastiche di Argentina [Impa], che sorge nel cuore di Almagro, un quartiere popolare di Buenos Aires. L’impresa è stata fondata da alcuni tedeschi nel 1918, era una fonderia di rame. Nel 1935 fu la prima a fondere l’alluminio e, alla fine della seconda guerra mondiale, fu nazionalizzata dal governo di Juan Domingo Peron. Nell’Impa si fabbricarono gli unici aerei a reazione prodotti in America latina e le biciclette con le quali giocavano i bambini argentini. Nel 1961, il governo chiuse alcuni impianti e decise di convertirla in una cooperativa ma in realtà fu sempre gestita come un’impresa dai suoi dirigenti.
A metà degli anni novanta, l’impresa di alluminio Aluar iniziò a fare concorrenza in forma sleale all’Impa producendo i lingotti necessari alla fabbricazione della carta di alluminio, il prodotto principale dell’impresa negli ultimi anni. Così, alla fine del 1997 nella fabbrica rimaneva solo un pugno dei 500 operai che vi avaevano lavorato. La chiusura era imminente, era già stata tagliata la luce, ma con l’aiuto di alcuni sindacalisti gli operai occuparono gli impianti, organizzarono una mensa popolare con l’appoggio degli abitanti e dei commercianti del quartiere e cacciarono la vecchia direzione per nominare un nuovo consiglio di amministrazione. Decisero così di tornare a produrre. Erano appena 15 operai [oggi sono 136]. Riuscirono a procurarsi un po’ di materia prima, la riciclarono, ottennero un prestito per riallacciare la luce e iniziare i primi passi di un lungo percorso che li ha portati a essere punto di riferimento di tutto il movimento.
Ci sono state due decisioni drastiche. La prima fu l’acquisto di rottami di alluminio per abbassare i costi ed eludere la concorrenza della Aluar vincendo i dubbi di tutti i lavoratori che pensavano di non essere in grado di produrre con materia prima riciclata. Misero in funzione l’altoforno sotto gli sguardi scettici di tutti. Il successo del processo di fusione e la qualità del materiale ottenuto rivelò invece che la vecchia divisione del lavoro tra tecnici e operai, tra quelli che sanno e comandano e quelli che non sanno e obbediscono, non è che una forma di sottomissione e di controllo dei lavoratori.
La seconda riguardava i lavoratori più anziani. “Abbiamo avuto sempre lavoro per 80 o 90 persone ma ne impieghiamo 136, molti di noi non sono potuti andare in pensione perché sono stati derubati. Così stanno qui e ci aiutano, spazzano, puliscono, collaborano come possono. È stata una decisione dell’assemblea, che ha pensato fosse più giusto e dignitoso farli restare nella fabbrica dove lavoravano da più di 30 o 40 anni invece di dare loro un sussidio e lasciarli a casa”, dice il presidente della cooperativa Oracio Campos, un 65enne dai tratti somatici indigeni. Lo dice così, con una semplicità che commuove, senza rendersi conto che sta ribaltando tutta la teoria economica, e forse anche la continuità del loro progetto, a causa di un testardo umanesimo che chiamano “solidarietà di classe”.

Il capitale?”I compagni”

Le assemblee informative sono alla base del funzionamento della fabbrica. “Bisogna muoversi con molta democrazia e trattare bene i compagni perché è l’unico capitale che abbiamo”, dicono. Hanno sostituito i capi con i coordinatori di area o di officina, che si incaricano di dividere il lavoro, e sono riusciti a creare alcuni gruppi di lavoro per democratizzare l’attività lavorativa. Ma non sono ingenui: “In alcune sezioni funzioniamo in modo verticale, perché il mercato esige decisioni molto rapide e non c’è tempo per niente”, assicura Eduardo Murúa, ex sindacalista di 41 anni che lavora come direttore. Ora la principale produzione dell’Impa è fatta di stoviglie usa e getta, tappi per dentifrici, involucri per dolci e vassoi per il catering.
Sull’organizzazione del lavoro, intanto, si producono cambiamenti incredibili, dovuti più al buon senso che alle posizioni ideologiche. Un’operaia della Brukman dice risoluta: “Ora abbiamo più libertà nel lavoro e più solidarietà tra di noi, prima eravamo divisi tra il primo e il secondo piano, adesso stiamo tutti insieme e ci autorganizziamo”. Le operaie avevano deciso di cambiare la distribuzione dei macchinari e, in questo modo, hanno cambiato il sistema di controllo. Abellí, un uomo sempre molto con i piedi per terra, è d’accordo con la necessità di combattere i “vizi del capitalismo”, ma sostiene che “la produzione non può essere un processo decisionale permanente”.
L’iniziativa più importante dell’Impa, quella che la distingue da tutte le altre imprese recuperate e che farebbe invidia perfino a Dario Fo, è la creazione della Fabrica ciudad cultural [Fabbrica città culturale]. Quasi quattro anni fa è stato messo su un centro culturale autogestito diretto da un gruppo di 40 giovani in cui funzionano 35 laboratori e si fanno corsi, feste, cinema, teatro e molte altre cose.
In realtà, il progetto è nato come una specie di ombrello, si cercava la solidarietà degli abitanti del quartiere e del movimento sociale per risolvere il problema del debito contratto con la Banca Nacion, che supera i due milioni di dollari e che potrebbe portare alla messa all’asta degli impianti. “Soltanto dopo abbiamo capito che era una forma per ricambiare la società per la solidarietà che riceviamo”, dice Murua. Campos ride e ricorda quando sono spuntati i punk, “i pelati con orecchini”. Gli operai non ne volevano sapere. Ora mangiano tutti assieme nella mensa che hanno battezzato con il nome di Azucena Villaflor de Devicenti, la scomparsa fondatrice delle Madres de Plaza e Mayo, un’operaia metalmeccanica.
Chi va in fabbrica all’imbrunire, quando la produzione rallenta e arrivano i giovani, passa da un’officina rumorosa in cui operai sporchi di grasso armeggiano con le macchine che sputano rotoli di alluminio a uno spazio contiguo separato da un piccolo corridoio nel quale, nel silenzio più assoluto, un gruppo di studenti, riuniti intorno a una modella, disegna un nudo. Le attività culturali sono molte: per esempio si pubblica una rivista che si chiama IMPActo e tutti sono molto fieri.

Fabrica ciudad cultural

Nel 2001 all’Impa è stato realizzato il Festival internazionale di cinema di Buenos Aires, e nel 1998 hanno ricevuto la visita di Orlando Borrego, il compagno del Che nella Sierra Maestra che ha inaugurato un ciclo di conferenze. Mentre la fabbrica continua a funzionare, tutti sono orgogliosi del fatto che non ci sono mai stati incidenti tra gli universitari, gli anarcopunk, le giovani che posano nude, gli omosessuali e i vecchi operai e le operaie che hanno frequentato la scuola solo per due o tre anni. Conoscere l’Impa, vedere quelle persone che producono e creano, è come toccare il cielo con un dito.

In Brasile

La prima esperienza di recupero di imprese fallite in Brasile iniziò nel 1991. La fabbrica Calzature Makerli aveva chiuso l’impianto mettendo sul lastrico 482 lavoratori, così alcuni tecnici del Dipartimento intersindacale di studi e statistiche, con l’appoggio del sindacato dei lavoratori dell’industria di San Paolo e del movimento popolare, misero in piedi la prima impresa di autogestione produttiva.
Nel 1994 nacque l’Associazione nazionale dei lavoratori delle imprese autogestite [Anteag] con l’obiettivo di coordinare le diverse imprese che nascevano all’ombra della crisi industriale. Attualmente, Anteag ha uffici in sei stati e segue i progetti di autogestione cercando di integrarli con le iniziative delle Ong, i governi statali e i municipi.
Contribuire a risolvere il gravissimo problema del finanziamento è uno dei compiti più importanti dell’associazione. Oggi Anteag lavora con 160 progetti di autogestione che coinvolgono 30 mila lavoratori. Esistono imprese autogestite in ogni settore dell’industria, dall’estrazione mineraria [Cooperminas, per esempio, ha 381 lavoratori] al tessile [decine di piccole imprese, quasi tutte di donne], fino ai servizi turistici e alberghieri.
Per Anteag, l’autogestione è un modello di organizzazione che combina la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e la partecipazione democratica nella gestione. Ma implica soprattutto l’autonomia: le decisioni e il controllo delle imprese appartengono ai loro membri. Queste definizioni inducono Anteag a considerare che l’assunzione di professionisti per la gestione dell’amministrazione delle imprese deve costituire un’eccezione e che queste dovrebbero invece essere controllate dal collettivo.
Per i lavoratori delle imprese autogestite, una delle principali difficoltà è quella di “ricominciare a pensare”. Anteag sostiene che “la cultura paternalista ha fatto sì che i lavoratori aspettino che qualcuno faccia le cose al loro posto”. Alcuni sono convinti di dover delegare tutto ai padroni, altri al sindacato e altri al governo. Naturalmente, molti timori spuntano al momento in cui bisogna assumersi le responsabilità e i rischi e farsi carico delle difficoltà derivanti da una gestione democratica e trasparente. Grandi difficoltà ci sono anche per comprendere che il consolidamento del collettivo umano è l’obiettivo fondamentale dal quale dipende la continuità dell’impresa.
Ma l’autogestione è anche un progetto di vita, può diventare un punto di riferimento sociale per ampi gruppi di lavoratori e far parte delle possibili alternative al sistema che sorgono dalla base sociale. Per concretizzare queste aspirazioni, Anteag giudica un passo determinante “la rieducazione del lavoratore finalizzata alla ricerca di un nuovo significato del lavoro, della fiducia nelle proprie capacità e, soprattutto, in quella di guidare il processo di autogestione spezzando il percorso storico della propria sottomissione”.

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