

L’ITIS J.C.
MAXWELL di Nichelino partecipa
alla mostra interattiva promossa dalla Provincia di Torino
“Il bello della
scoperta”
- Progetto Science Center
dedicata alle più belle scoperte scientifiche nel campo della fisica
La mostra si terrà a Nichelino nel salone incontri dell’ ITIS
MAXWELL
dal 17-29 ottobre 2005
Referente per la scuola del progetto e della mostra Prof. Bardi Francesco
E’ data la possibilità di proporre agli allievi la realizzazione un nuovo exhibit,
relativo ad un esperimento non ancora presente, con la quale arricchire la mostra
stessa. Tra gli esperimenti ideati dalle scuole, che avranno riscosso il maggior
gradimento del pubblico nel corso della esposizione ad aprile al Lingotto ,
verrà istituito un premio.
Sono dieci gli esperimenti più
votati e attorno ai quali lo Science Center della Provincia di Torino ha costruito la sua
mostra.
La top ten copre più di 2000
anni di storia della fisica e comprende scienziati noti e meno noti al grande pubblico:
1. L'esperimento della doppia fenditura di Young applicato all'interferenza da elettrone singolo
2. Galileo e la caduta dei gravi
3. Millikan
e l'esperimento per la misura della carica dell'elettrone
4. Newton e la decomposizione
dei colori della luce solare con il prisma
5. Young
e l'esperimento dell'interferenza della luce
6. Cavendish
e l'esperimento per la misura della costante di
gravitazione con la bilancia di torsione
7. Eratostene
e la misura della circonferenza della Terra
8. Galileo e l'esperimento del
piano inclinato
9. Rutherford
e la scoperta del nucleo
10. Il pendolo di Foucault
La mostra si articola in tre sezioni:
-Divulgativa
illustrativa – pannelli illustranti gli esperimenti
-Sperimentale –
riproduzione di alcuni esperimenti
-Didattica – laboratori
didattici di approfondimento dei dieci esperimenti
Gli esperimenti che possono
essere attivati direttamente dai visitatori sono:
-La caduta dei gravi di Galileo. Il famoso esperimento viene riproposto attraverso un exhibit
composto da una struttura contenente due tubi in plexiglass
contenenti all’interno una sfera metallica e una piuma. In un tubo si è creato
il vuoto, con assenza d’aria. Il visitatore può capovolgere i tubi e osservare
che nel tubo con il vuoto i due oggetti, pur con pesi
enormemente diversi, cadono contemporaneamente.
-Accelerazione sul piano inclinato di Galileo. Per dimostrare questa
scoperta, l’exhibit è composto da
uno scivolo da parco giochi. Nei fianchi dello scivolo sono sistemati dei
sensori a raggi infrarossi che inviano via radio ad una centralina di elaborazione i dati dell’accelerazione del passaggio
delle persone che utilizzano lo scivolo. Su un display
a led compaiono i relativi dati.
-Scomposizione della luce di Newton. Questo
exhibit è allestito con un classico banco ottico con
pareti che tendono ad oscurare lo spazio dell’esperimento. Sul piano è
sistemata una fonte luminosa di luce bianca che colpisce un prisma in plexiglass, e sulla parete opposta si forma la famosa
scomposizione nei colori componenti l’iride.
-Il fenomeno della interferenza della luce di Young. Anche per questo esperimento
si utilizza un banco ottico sul quale è collocato un interferometro
con il quale è evidenziata la natura ondulatoria della luce ed il fenomeno
della diffrazione.
-La costante gravitazionale di Cavendish. Viene riproposta la bilancia di torsione che registra il
moto gravitazionale tramite l’accelerazione di due sfere registrate con un
indice luminoso, il cui movimento è rilevato su una parete opposta.
-Scoperta del nucleo dell’atomo di Rutherford. E’ allestito un modello composto da una scatola oscurata con pareti mobili di diversa
conformazione. Sulle diverse pareti con superfici riflettenti viene “sparato”
un raggio laser, che riflette la sua luce diversamente in ragione delle diverse
superfici.
01 L'esperimento
della doppia fenditura applicato all'interferenza da elettrone singolo
E' italiano l'esperimento più
bello
A differenza di tutti gli altri
esperimenti in classifica, “l’interferenza da doppia fenditura di singolo
elettrone” non ha un “papà” unico e riconosciuto: alla sua realizzazione non è associato il nome di nessuno scienziato
famoso.
Questa esperienza dimostra un
concetto chiave della meccanica quantistica, cioè che
a livello microscopico particelle materiali come gli elettroni si comportano
anche come onde. Fu ideato e pensato nel dettaglio ben prima
che fosse tecnicamente possibile realizzarlo. Era considerato un Gedankenexperiment, un esperimento concettuale, uno di
quelli importanti nella storia della fisica dei
quanti. Ancora nelle sue lezioni tenute all’inizio degli anni ’60, il premio
Nobel Richard Feynman
affermava che era impossibile svolgerlo ad una scala sufficientemente piccola
da essere interessante. Proprio nel 1961, Claus Jönsson dell’Università di Tubinga, aveva realizzato l’esperimento con alcuni
elettroni, senza però destare particolare attenzione.
La prova decisiva però doveva
mostrare che il fenomeno dell’interferenza si verifica
anche con un solo elettrone. Physics World, nel riportare i risultati del sondaggio, attribuisce
il merito del primo esperimento di questo tipo al giapponese Akira Tonomura, che lo realizzò
con il suo gruppo nel 1989. La rivista nel maggio 2003 è stata
però costretta a pubblicare alcune lettere di smentita, in cui viene
chiarito che furono tre italiani, Pier Giorgio Merli, GianFranco
Missiroli e Giulio Pozzi, a portare a termine per
primi l’esperimento con un singolo elettrone, nel 1974.

I tre ricercatori, che ancora
oggi lavorano a Bologna, studiavano all’epoca le applicazioni pratiche dell’interferometria, usata per misurare lunghezze sfruttando il
fenomeno dell’interferenza. Non trascurarono però l’aspetto didattico e storico
delle loro ricerche. Solo oggi il loro merito viene
giustamente riconosciuto.
L'esperimento: l'elettrone sulla cresta dell'onda
L’interferenza è un fenomeno
caratteristico di tutti i tipi di onde, da quelle
sonore a quelle del mare. È quello che succede ad esempio
quando lanciate due sassi in uno stagno. Le piccole onde che si formano
nell’acqua si sommano in altezza in alcuni punti e si annullano a vicenda in
altri.
Un effetto analogo avviene per
un raggio di luce che passa attraverso due fenditure affiancate, come dimostrò Thomas Young: oltre le aperture
non compaiono due strisce luminose verticali, ma una serie di frange
alternativamente chiare e scure. E la stessa cosa
succede agli elettroni.
Nell’esperimento il fascio di elettroni viene fatto passare attraverso due fenditure e
raccolto su uno schermo sensibile. Sullo stesso non si osservano solo due
chiazze in corrispondenza delle due fenditure ma
compaiono striscie alternativamente chiare e scure
caratteristiche della figura di interferenza. Questo fenomeno era già stato
dimostrato da Claus Jönsson
nel 1961. Ciò che mancava era mostrare che il fenomeno veniva
prodotto anche dal passaggio di un solo elettrone per volta e che quindi il
comportamento ondulatorio non era da associarsi al fascio ma al singolo
elettrone.
Merli, Missiroli
e Pozzi, per portare a termine l’esperimento, avevano a disposizione un potente
microscopio elettronico che per la prima volta poteva rilevare il passaggio di
un singolo elettrone. Consapevoli dell’importanza concettuale che rivestiva la
realizzazione dell’interferenza di singolo elettrone
tentarono di mettere in atto il famoso esperimento ideale della fisica
quantistica. Non solo. Filmarono la formazione delle frange di
interferenza e, partendo da questo materiale, realizzarono un premiato
documentario scientifico.
Quelle immagini mostrano che le
frange si formano allo stesso modo se si aumenta costantemente il numero di elettroni che passano o se viene registrato in tempi
successivi l’effetto di un singolo elettrone: è la conferma che un elettrone ha
qualcosa in comune con un’onda.
Per vedere l'animazione
dell'esperimento dal sito dei ricercatori bolognesi, cliccare
qui
02 Galileo e la caduta dei
gravi
Sulla Torre di Pisa
Galileo comincia a studiare il
moto di caduta dei corpi all’inizio della sua
carriera, quando fra il 1589 e il 1592 tiene a Pisa la cattedra di matematica,
e perfeziona la sua spiegazione del fenomeno durante il resto della sua vita,
fino agli ultimi anni trascorsi in isolamento. L’episodio di Galileo che
sperimenta le sue ipotesi lasciando cadere corpi diversi dalla cima della Torre
di Pisa è riportato dal suo allievo Vincenzo Viviani, ma gli storici mettono in dubbio che sia realmente
accaduto, anche perché avrebbe probabilmente mostrato conclusioni opposte a
quelle che Galileo voleva.

Da Aristotele in
poi si riteneva che la velocità di caduta di un corpo dipendesse dal suo peso.
In pratica che, lasciando cadere una biglia di piombo e una uguale
di sughero, la prima sarebbe arrivata a terra più presto. Se fate
la prova, verificherete che succede proprio così! Galileo però si era accorto
che nella realtà è determinante il mezzo in cui cadono
i corpi, cioè che ad esempio in acqua il distacco fra le due biglie è maggiore
che nell’aria. Nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove
scienze concluderà che: “(...) se si levasse
totalmente la resistenza del mezzo, tutte le materie discenderebbero con eguali
velocità”.
Oggi sappiamo che
l’attrito dell’aria modifica la velocità di caduta dei corpi, a seconda della loro forma e del loro peso. In effetti Galileo non ha modo di verificare direttamente la
sua ipotesi perché non può realizzare una situazione in cui l’attrito dell’aria
sia trascurabile. Dimostra però con un ragionamento
per assurdo che la teoria aristotelica è contraddittoria e studia invece la
parte iniziale del moto, in cui si passa dalla velocità nulla a quella di
regime, mettendo in evidenza il ruolo dell’accelerazione, fino ad allora
completamente trascurato.
La luna fornisce la
prova
Per confutare la
teoria aristotelica secondo cui la velocità di caduta di un corpo dipende dal
suo peso, Galileo propone un ragionamento di questo tipo: “Se abbiamo due pesi,
uno da 10 e uno da 5 chilogrammi, secondo Aristotele quello da 10 kg cadrà il
doppio più veloce dell’altro. Ma sempre secondo Aristotele, se uniamo i due
corpi, quello da 10 kg, dato che di natura va più veloce, tenderà a velocizzare
quello da 5 kg; quest’ultimo,
invece, farà rallentare quello da 10 kg, e si raggiungerà quindi una velocità
intermedia. D’altra parte si può anche pensare che, se uniamo i due corpi, il
peso totale sarà 15 kg e quindi di natura l’unione di
questi corpi andrà ad una velocità superiore alla velocità del peso di 10 kg e
non ad una velocità intermedia”. Le due conclusioni, logicamente corrette,
portano a verità contrastanti. Se ne deve concludere
che l’ipotesi iniziale è errata.
Ma la bellezza del risultato di Galileo non sta tanto
nell’esperimento mentale, quanto nella capacità dello scienziato di studiare il
fenomeno della caduta isolandolo da tutti gli elementi “di disturbo” che non
sono necessari alla sua comprensione, per estrapolare i risultati in una
condizione ideale. Questo modo di operare è caratteristico del metodo
scientifico moderno.
La
verifica della legge di caduta dei gravi fu riprodotta durante la missione
Apollo 15 sulla Luna nel 1971, in assenza di atmosfera
e quindi di attrito con l’aria. La piuma e il martello, lasciati cadere nello
stesso istante dall’astronauta, giungevano al suolo contemporaneamente,
confermando così l’intuizione avuta da Galileo quasi quattro secoli prima.
03 Millikan e l'esperimento per la misura della carica
dell'elettrone
Un piccolo cielo
stellato
Per misurare la
carica di un elettrone, Millikan essenzialmente
studia il modo in cui si muovono piccole cariche elettriche fra due piastre
metalliche parallele caricate una positivamente e l’altra negativamente tramite
una batteria. Per permettere l’osservazione, Millikan
perfeziona una tecnica già usata da altri. Mette le due piastre orizzontalmente
in un contenitore isolato e ionizza l’aria fra di esse
con dei raggi X, in modo da staccare elettroni dagli atomi di aria. Sopra le
piastre, inserisce un nebulizzatore, con cui introduce nel contenitore delle
goccioline di olio. Queste cadono per gravità e alcune
di esse passano attraverso un foro nella piastra
superiore. Le cariche elettriche liberate per ionizzazione si attaccano a
queste goccioline. Una luce permette di illuminare le gocce e farle apparire
allo scienziato, che le osserva attraverso un microscopio, come stelle luminose
nel cielo.

Inizialmente le
piastre non sono caricate, così Millikan,
misurando il tempo impiegato a percorrere un certo spazio, può calcolare
la loro velocità in caduta libera. Poi le piastre vengono
caricate con tensioni variabili e, a seconda della carica negativa che hanno
acquistato, le gocce vengono più o meno attirate dalla piastra superiore
positiva e quindi rallentano la loro caduta fino a rimanere sospese a
mezz’aria. Questo succede quando la forza elettrica è
uguale a quella di gravità che agisce in verso opposto. Dalla tensione
necessaria a fermare la goccia, Millikan può risalire
alla sua carica elettrica.
Variando
la tensione Millikan fa salire e scendere più volte
una singola goccia, che aumenta la sua carica catturando altri elettroni. Millikan osserva che la differenza fra le varie cariche
misurate è una costante o un multiplo di essa. Questa costante è proprio il valore dell’unità di carica elettrica
elementare, ossia la carica dell’elettrone.
Una scoperta
elettrizzante
L’esperimento di Millikan aveva lo scopo di stabilire che la carica
elettrica è quantizzata, cioè che è costituita da
un’unità elementare e che questa unità è collegata alla natura atomica della
materia. Per fare questo era necessario mostrare che la carica elementare non è il risultato di una media calcolata su un grande numero di
casi, come è ad esempio per il peso atomico di un elemento. La precisione della
misura doveva essere tale da dimostrare che il valore della carica più piccola è sempre costante. La bellezza dell’esperimento di Millikan va quindi oltre il semplice miglioramento di una
misura.
Il valore di
carica trovato da Millikan era in realtà leggermente
inferiore a quello oggi calcolato, perché Millikan
utilizzava per la viscosità dell’aria un valore non corretto. Tuttavia, questo
numero, inserito nella formula proposta da Niels Bohr per calcolare lo spettro di radiazioni emesse
dall’idrogeno, diede la prima conferma sperimentale della teoria dell’atomo
quantizzato.

L’esame postumo
dei quaderni di laboratorio di Millikan ha però
evidenziato che dalla mole dei dati furono eliminati
tutti quelli che si discostavano troppo dal valore centrale e che non avrebbero
permesso di dire con certezza che c’era un un’unità elementare di carica. Millikan cedette quindi alla tentazione di mostrare solo i
risultati che soddisfacevano la sua ipotesi.
La tipologia di esperimento però si è consolidata e non solo è diventata
un classico dei laboratori per gli studenti di fisica, particolarmente negli
Stati Uniti, ma una versione adattata è stata utilizzata, senza successo, per
verificare l’esistenza dei quark, i componenti di protoni e neutroni, che
avrebbero carica pari ad un terzo di quella dell’elettrone. Le teorie attuali
però ritengono che i quark siano indissolubilmente legati fra loro e che sia
impossibile osservarli singolarmente.
04 Newton e la
decomposizione dei colori della luce solare con il prisma
Scomporre la luce
Newton comincia gli
esperimenti sui colori e la luce nel periodo in cui, per sfuggire alla peste,
si ritira nella casa di famiglia in campagna. A quell’epoca
si pensa che i colori siano un misto di luce e di ombra
e che i prismi in qualche modo colorino la luce.
Newton si procura un
prisma triangolare e lo mette attraverso un raggio di sole. Nei loro
esperimenti Cartesio, Hooke e Boyle
avevano posto uno schermo vicino alla faccia del prisma da cui usciva la luce e
avevano osservato un miscuglio di colori. Newton realizza
che per ottenere uno spettro ben visibile, deve allontanare notevolmente lo
schermo. Sfrutta tutta l’ampiezza del suo studio, dalla finestra al muro, per
vedere proiettati tutti i colori separati. Ma per provare che non è il prisma a
colorare la luce, Newton mette a punto un Experimentum crucis, l’esperimento decisivo. Sul percorso
del suo spettro mette uno schermo in cui ha tagliato un
fessura sottile, in modo da far passare solo il raggio verde. Quindi fa passare questo raggio in un secondo prisma. Se il
prisma colora la luce, allora il raggio verde deve uscirne di
colore diverso. Il raggio invece rimane verde, non modificato dal prisma.
Newton così dimostra che i colori sono le varie componenti
della luce che il prisma semplicemente separa. Facendo passare tutto lo spettro
attraverso il secondo prisma messo in modo opportuno, Newton riesce infatti a ricomporre il fascio di luce bianca.
Applicando
rigorosamente il metodo scientifico Newton raccoglie
una gran quantità di dati, ottenuti combinando in vari modi i prismi. Ne conclude che i raggi vengono rifratti,
ossia piegati, nel passaggio dall’aria al vetro e viceversa, in modo diverso a
seconda del loro colore e che “l’indice di rifrazione è sì costante per due
determinati mezzi, qualunque sia l’angolo d’incidenza, ma cambia col cambiare
del colore della luce”.
Tutti i colori
dell'arcobaleno
Un arcobaleno è il
risultato di un prisma naturale in grande scala. Le gocce d’acqua sospese in
aria possono comportarsi in modo simile ad un prisma, separando i colori della
luce per produrre lo spettro che è appunto l’arcobaleno. La luce viene piegata, o meglio rifratta,
nel passaggio da un materiale ad un altro, come ad esempio fra l’aria e il
vetro o l’aria e l’acqua. I differenti colori della luce, che oggi sappiamo corrispondere a diverse frequenze dell’onda
luminosa, vengono rifratti in modo diverso. Il
violetto, che ha la frequenza più alta, viene piegato
di più, mentre il rosso è la componente che viene deviata di meno. A causa di
questa differente rifrazione, i raggi di colori diversi escono separati. E se ci troviamo nella posizione giusta, riusciamo a vedere
la luce rifratta dalle gocce d’acqua formare
l’arcobaleno.

Newton mostrò che
anche una cosa in apparenza semplice come un raggio di luce, può
rivelarsi meravigliosamente complessa.
Fu Newton stesso ad identificare nello spettro i sette colori.
Si tratta in realtà di una divisione artificiosa, perché all’interno dello
spettro i colori cambiano in modo continuo e non netto.
Newton rimandò la
trattazione completa di tutti i risultati riguardanti l’ottica
e la luce per evitare polemiche con altri scienziati. Nel 1704, ormai alla fine
della carriera, pubblicò l’Opticks, in cui fra
l’altro si mostrava favorevole alla ipotesi che la
luce sia fatta di corpuscoli piuttosto che di onde. La sua posizione influenzerà
decisamente il dibattito sulla natura della luce che
si concluderà solo agli inizi del XX secolo, quando la teoria dei quanti
mostrerà che la luce è contemporaneamente onda e particella.
05 Young e l'esperimento dell'interferenza della luce
La luce è fatta di onde
“L’esperimento di
cui sto per parlare (…) può essere ripetuto con grande
facilità, purché splenda il sole e con una strumentazione che è alla portata di
tutti”. Così Thomas Young,
parlando il 24 novembre 1803 alla Royal Society di
Londra, comincia la sua descrizione dello storico esperimento di interferenza della luce.
Ecco come lo aveva
realizzato: un raggio di sole veniva deviato con uno
specchio in modo da entrare orizzontale nella stanza. Successivamente
era reso molto sottile facendolo passare per un piccolo foro creato in una
superficie opaca. Quindi il raggio veniva diviso
attraversando due fenditure strette e vicine. Nelle sue prime prove Young in realtà non usò una “doppia fenditura”
ma un foglietto che con il suo spigolo sottile separava in due il
raggio. Dalle fenditure la luce infine colpiva uno schermo. Young
osservò che sullo schermo non comparivano due immagini luminose corrispondenti
alla forma delle fenditure, ma che i raggi si allargavano, si sovrapponevano e
nell’area di sovrapposizione formavano delle bande luminose alternate a zone
d’ombra. Come le onde nate in due punti diversi di un lago, incontrandosi,
sommano la loro altezza in alcuni punti e si annullano a vicenda in altri.

“Neanche i più
prevenuti negheranno” osservò Young nel suo discorso
tenuto davanti ad un’assemblea di scettici, “che le frange osservate sono
prodotte dall’interferenza di due frazioni della luce”. La conferenza,
pubblicata l’anno successivo nelle Philosophical
Transactions of the Royal Society e destinata a diventare un classico, propone,
con un linguaggio brillante, la prima prova chiara e decisiva delle proprietà
ondulatorie della luce.
Dato che la
distanza fra le frange di interferenza dipende dalla
lunghezza d’onda, l’esperimento di Young offrì anche
la prima misura diretta della lunghezza d’onda della luce.
Gli ologrammi e la
relatività di Einstein
La natura della
luce, ossia se la luce sia fatta di particelle o se
sia un’onda, è stata una delle più affascinanti questioni scientifiche dei
secoli XVII e XVIII. Young, con le sue figure di interferenza, alla lunga aveva convinto molti scienziati
della validità dell’ipotesi ondulatoria. Ma agli inizi del
XX secolo furono osservati fenomeni che non erano in accordo con questo schema.
Il più noto è l’effetto fotoelettrico, che si manifesta
quando una sostanza colpita dalla luce emette elettroni. Einstein lo spiegò ipotizzando che la luce sia fatta di quantità elementari non divisibili: “quanti” di
luce, battezzati fotoni. La meccanica quantistica negli anni ’20 e ’30
stabilirà che la natura materiale dei fotoni convive con quella di onda.
Oggi per mostrare
l’interferenza della luce si usa il laser, che permette di ottenere facilmente
il tipo di luce adatta. L’interferenza realizzata con i laser
viene usata per produrre gli ologrammi, come quelli che compaiono sulle carte
di credito e che danno l’immagine tridimensionale di un oggetto.

Si basano
sull’interferenza della luce anche gli interferometri,
strumenti che misurano con precisione lunghezze o variazioni di lunghezza. Se il percorso del raggio luminoso cambia, l’interferometro lo rileva, anche su grandi distanze, perché
si modificano le figure di interferenza. Dispositivi
basati su questo principio vengono utilizzati per
seguire i movimenti delle placche geologiche sulla superficie terrestre.
L’interferometro di Michelson e Morley è stato utilizzato nel 1887 per dimostrare che
l’etere, il “supporto materiale” in cui avrebbe dovuto viaggiare la luce, non
esiste. Questo esperimento ha avuto un’influenza
capitale sulla teoria della relatività di Einstein,
in particolare sull’ipotesi che la velocità della luce nel vuoto sia costante.
06
Cavendish e la misura della costante di gravitazione
con la bilancia di torsione
Una bilancia per
la Terra
Questo è
l’esperimento con cui Henry Cavendish
calcolò la densità media della Terra. È ricordato però
come la misura della costante di gravitazione universale G, quel numero che
compare nella legge di Newton in cui è stabilita la forza con cui si attraggono
due masse.
L’esperimento si basa su uno strumento
chiamato bilancia di torsione. Si tratta di un’asta rigida di legno con alle estremità due piccole sfere di piombo. Questo
“manubrio” è appeso in posizione orizzontale tramite un filo sottile. Per impedire che le correnti d’aria muovessero l’asta, Cavendish chiuse la sua bilancia in una cassa di legno.
Dall’esterno avvicinò alle estremità del manubrio due sfere più grandi e
pesanti, ponendole da parti opposte rispetto all’asta. Per limitare i fattori
che disturbavano la misura, Cavendish tenne chiusa la stanza con gli strumenti, muovendo le sfere
grandi dall’esterno e osservando da fuori con un cannocchiale. Come aveva
stabilito Newton, due corpi qualsiasi si attraggono con una forza che aumenta
in proporzione alle loro masse e quanto più essi sono
vicini. Le sfere grandi, fissate, attiravano quindi le sfere
piccole e facevano ruotare leggermente il manubrio. Il filo, messo in torsione,
si opponeva a questa rotazione. Cavendish ripetè l’operazione mettendo le sfere
grandi dall’altro lato della cassa in modo che attirassero il manubrio in senso
opposto. Dalle oscillazioni dell’asta ricavò la posizione di equilibrio in cui la forza di attrazione gravitazionale
fra le sfere uguagliava quella che si opponeva alla torsione del filo.
Misurando l’angolo di cui l’asta ruotava spostando le sfere da un lato
all’altro, Cavendish fu in grado di calcolare G. Da
questo valore ricavò la massa della Terra e dividendola per il suo volume ne ottenne la densità media. Questa risultò
5,448 volte quella dell’acqua, un valore che è solo dell’1,3% più basso di
quello oggi accettato.
Una costante può
cambiare?
Perché è importante
misurare quanto vale la costante di gravitazione universale G? Innanzitutto il valore di G ci ha permesso di calcolare la
massa della Terra, della Luna e degli altri pianeti. La forza gravitazionale,
poi, è fondamentale nelle teorie sull’origine e la struttura dell’Universo. Per
questo sarebbe importante sapere se G è realmente una costante o se cambia con
il tempo, se dipende dallo stato fisico e chimico delle masse o dalla loro
temperatura. Finora le misure sperimentali non hanno dato nessuna certezza,
anche perché è difficile misurare G con grande
precisione. Rispetto ad altre costanti fisiche, la precisione di cui disponiamo
non è eccezionale perché G ha un valore molto piccolo e di conseguenza la forza
che si esercita fra le masse in laboratorio è molto debole. La ricerca
sperimentale in questo campo quindi prosegue migliorando i risultati
ma continua ad utilizzare, con qualche correzione, lo stesso metodo
messo in pratica da Cavendish.
Di
Cavendish si dice che sia
stato il primo a “pesare” la Terra, perché sapendo il valore di G aveva potuto
ottenere dalla legge di Newton la massa del pianeta. Dividendo poi questa massa
per il volume corrispondente, aveva calcolato la sua densità media. Il raggio
terrestre necessario a calcolare il volume era stato ottenuto per la prima
volta duemila anni prima da Eratostene. La densità
media delle rocce della superficie terrestre è molto inferiore al valore di
densità ottenuto da Cavendish, quindi questo ci
permette di concludere che la parte interna della
Terra deve contenere materiali di densità maggiore: l’esperimento di Cavendish in definitiva ci dà informazioni anche sul nucleo
interno della Terra!
07 Eratostene e la misura della circonferenza della Terra
Al tempo di Eratostene era noto che a Siene – l’odierna Assuan nel sud dell’Egitto – a
mezzogiorno del solstizio d’estate il Sole si trova circa allo zenit, il punto
più alto del cielo. In quel momento il Sole era così a picco che poteva essere
visto anche dall’interno di un pozzo molto profondo. Partendo da questa
conoscenza, Eratostene ha un’idea: ad Alessandria
pianta un bastone, di cui conosce l’altezza, e misura l’ombra che proietta a
terra. Con questi dati e usando un po’ di trigonometria,
calcola l’angolo che i raggi del Sole formano con la superficie terrestre.
Per confrontare la
sua misura, Eratostene sa che deve effettuarla
alla stessa ora del giorno di solstizio: quello stesso istante in cui a Siene il bastone non proietta alcuna ombra. Quindi, per
semplicità, considera Alessandria esattamente a Nord di Siene,
cosa per altro non lontana dal vero. Eratostene fa altre due ipotesi: che la Terra sia
perfettamente sferica e che i raggi del Sole arrivino a noi tutti paralleli fra
loro.

La sua deduzione è
questa: l’angolo che l’ombra forma con il bastone è uguale all’angolo al centro
della Terra in corrispondenza dello “spicchio” compreso fra
Alessandria e Siene. A questi dati empirici
aggiunge la conoscenza della distanza fra le due città, riportata da
viaggiatori e commercianti.
Ora Eratostene ha tutti i dati per calcolare la circonferenza
terrestre. Gli basta risolvere questa proporzione:
DISTANZA
SIENE-ALESSANDRIA : CIRCONFERENZA DELLA TERRA = ANGOLO
TRA BASTONE E OMBRA : 360°
Il risultato della
misura, riportato nell’opera Sulla misurazione della Terra purtroppo
andata perduta, è di 250.000 stadi. Per quanto non ci sia un parere univoco su
quanto valesse esattamente lo stadio, unità di lunghezza dell’epoca, il valore
ottenuto da Eratostene è comunque
buono, se non sorprendente, rispetto ai 40.075 chilometri misurati oggi.
La misura di tutte
le cose
Un uomo che, senza
muoversi da casa, avendo a disposizione semplici strumenti e utilizzando il suo
ingegno, più di 2200 anni fa calcola la dimensione della Terra con uno scarto
dell’1% rispetto al valore reale: ecco la potenza e l’eleganza dell’esperienza di Eratostene. Altro che Terra
piatta: i greci del terzo secolo avanti Cristo erano convinti della sfericità
del nostro pianeta ed erano arrivati a misurare la lunghezza della sua
circonferenza.
Ed Eratostene aveva calcolato anche la distanza del Sole e
della Luna, utilizzando dati ricavati durante le eclissi lunari.
Il metodo
utilizzato da Eratostene per arrivare alla lunghezza
del meridiano terrestre consisteva nel calcolare a quale parte della
circonferenza terrestre corrispondesse la distanza fra
Siene e Alessandria e ricavarne, in proporzione,
l’intero meridiano. Lo stesso metodo “proporzionale” fu utilizzato duemila anni
dopo per stabilire la lunghezza del metro.
Alla fine del
XVIII secolo fu deciso in Francia che l’unità di misura della lunghezza sarebbe
stata equivalente alla milionesima parte del quarto di meridiano passante per
Parigi. Per ottenere la massima precisione possibile, fu organizzata una
spedizione scientifica a capo degli astronomi Delambre
e Méchain, con il compito di estrapolare dalla misura
della distanza delle città di Barcellona e Dunkerque la lunghezza del meridiano prescelto. Le peripezie della spedizione, durata ben sette anni, si
conclusero con una conferenza internazionale di scienziati che sancì l’entrata
in vigore del sistema metrico decimale.
08 Galileo e l'esperimento
del piano inclinato
Un quarto della
lunghezza in metà tempo
Con l’esperimento
del piano inclinato Galileo modifica radicalmente l’idea aristotelica del moto,
concentrando l’attenzione sull’accelerazione, un livello del moto ignorato da
Aristotele e dalla maggior parte dei suoi successori.

Ecco come Galileo
stesso lo descrive nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due
nuove scienze: “In un regolo, o vogliàn dir
corrente, di legno, lungo circa 12 braccia, e largo per un verso mezzo braccio
e per l’altro 3 dita, si era in questa minor larghezza incavato
un canaletto, poco più largo d’un dito; tiratolo
drittissimo, e, per averlo ben pulito e liscio, incollatovi dentro una carta
pecora zannata e lustrata al possibile, si faceva in esso scendere una palla di
bronzo durissimo, ben rotondata e pulita”. Con questi
accorgimenti Galileo vuole rendere trascurabili gli effetti dell’attrito.
“Elevando sopra il piano orizzontale una delle estremità (del regolo) un
braccio o due ad arbitrio, si lasciava (…) scendere per il detto canale la
palla, notando (…) il tempo che consumava nello scorrerlo tutto, replicando il
medesimo atto molte volte per assicurarsi bene della quantità del tempo (…).
Fatta e stabilita precisamente tale operazione, facemmo scender la medesima
palla solamente per la quarta parte della lunghezza di esso
canale; e misurato il tempo della sua scesa, si trovava sempre
puntualissimamente esser la metà dell’altro”. Ripetendo la misura per distanze
diverse, Galileo deduce che lo spazio percorso è sempre proporzionale al
quadrato del tempo impiegato a percorrerlo. In altri termini, se i tempi sono
rappresentati da 1, 2, 3, 4, 5… gli spazi percorsi
sono rispettivamente rappresentati da 1, 4, 9, 16, 25… Questa è la prima
descrizione del tipo di moto definito, da Galileo in poi, “uniformemente
accelerato”.
Misurare il tempo
senza orologi
I risultati
dell’esperimento con il piano inclinato sono eccezionali nonostante la
semplicità dell’apparato sperimentale. Bisogna sottolineare
il fatto che all’epoca di Galileo non esistevano orologi né cronometri e che i
metodi disponibili non avevano la precisione necessaria a calcolare il tempo di
caduta della sfera.
Per risolvere questo problema, Galileo
progetta e realizza un orologio ad acqua, che presenta in questo modo nei suoi Discorsi
e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze: “Quanto poi alla
misura del tempo, si teneva una gran secchia piena d’acqua, attaccata in alto,
la quale per un sottil cannellino, saldatogli nel
fondo, versava un sottil filo d’acqua, che s’andava
ricevendo con un piccol bicchiero
per tutto ‘l tempo che la palla scendeva nel canale e
nelle sue parti: le particelle poi dell’acqua, in tal guisa raccolte,
s’andavano di volta in volta con esattissima bilancia pesando, dandoci le
differenze e proporzioni de i pesi loro le differenze e proporzioni de i tempi;
e questo con tal giustezza, che, come ho detto, tali operazioni, molte e molte
volte replicate, già mai non differivano d’un notabil
momento”.
Con questo
strumento Galileo riesce a rivelare che lo spazio percorso dalla sfera di
metallo non è proporzionale al tempo impiegato a percorrerlo, come avrebbe
detto Aristotele, ma al quadrato del tempo. Gli strumenti di misura di Galileo
ricostruiti fedelmente ai giorni nostri hanno mostrato che Galileo aveva potuto
ottenere l’accuratezza che dichiara.
Poiché Galileo capisce
che lo stesso tipo di moto caratterizza la sfera sul piano inclinato e in
caduta libera, con il suo strumento riesce a “vedere a rallentatore” il moto
accelerato, studiandolo in una situazione in cui l’accelerazione è inferiore a
quella di gravità.
09 Rutherford e la scoperta del nucleo
Un modello ancora
attuale
Gli ultimi anni del XIX secolo sono quelli della scoperta e dello studio
pionieristico della radioattività, dapprima con Bequerel,
poi con i coniugi Curie. Ernest Rutherford
si inserisce in questo filone, con l’intenzione di
capire che cosa succeda esattamente nei decadimenti, quelle reazioni che
avvengono nei nuclei delle sostanze radioattive. Scopre che, fra le diverse
radiazioni, quelle con più energia sono di tipo a e
che queste sono costituite da atomi di elio con carica elettrica positiva.
Inventa allora insieme al suo assistente Hans Geiger
un “contatore” in grado di rivelare il passaggio di una singola particella a. Con l’intenzione di studiare il modo in cui questa
radiazione interagisce con la materia, chiede a Geiger di contare, per ogni angolazione, il numero di particelle a che viene deviato da
un sottile strato di materiale. Geiger, che insegna agli studenti le tecniche
sperimentali, si fa aiutare dal laureando Ernest Mardsen per misurare le deviazioni prodotte dalle superfici
metalliche. Marsden osserva che, mentre molte
particelle passano, alcune vengono rimbalzate
completamente all’indietro, anche soltanto con un sottile strato d’oro. Dirà Rutherford: “E’ come se una palla di cannone sparata contro
un foglio di carta velina tornasse indietro”.

Nel
1911 Rutherford deduce da queste osservazioni che,
al contrario di quanto si riteneva allora in base al modello di J. J. Thompson, la massa di un atomo è concentrata in un nucleo
migliaia di volte più piccolo dell’atomo stesso.
Il giovane fisico
danese Niels Bohr,
interessato a questi risultati, darà la necessaria completezza al modello
atomico che sarà chiamato con i nomi dei due
scienziati. Un modello ancora valido oggi, eccezion fatta per
alcune correzioni legate alla meccanica quantistica.
L'atomo non è un
"panettone"
Qualcuno ha detto che Rutherford sta all’atomo
come Darwin all’evoluzione, Newton alla meccanica, Faraday
all’elettricità e Einstein alla relatività. La sua
teoria sulla struttura atomica ha dato una svolta alla nostra concezione della
realtà a livello microscopico. Da allora è chiaro che l’atomo non è un
“panettone” caricato positivamente, in cui qua e là, si trovano, sparsi come uvette, gli elettroni con la loro carica
elettrica negativa. Al contrario, sappiamo che la materia è costituita in gran
parte di vuoto. Se tutti gli elettroni dei nostri atomi
cadessero improvvisamente sul nucleo, noi ci ridurremmo alle dimensioni di un
granello di sabbia!
Rutherford, misurando un
decadimento radioattivo, si rese conto però che nel minuscolo nucleo c’era
un’energia sorprendente: milioni di volte superiore a quella dei legami chimici
che tengono insieme le molecole. Nel 1916, durante la Prima Guerra Mondiale, Rutherford disse: “Spero che l’uomo non riesca a estrarre questa energia finché non avrà imparato a vivere
in pace con i suoi simili”. Hiroshima e Nagasaki avrebbero
mostrato quanto fossero fondati i suoi timori.
Da Rutherford in poi, la tecnica del “bombardamento”, chiamato
dai fisici “scattering”, è molto utilizzata per
l’esplorazione del mondo subatomico. Gli acceleratori sono costruiti proprio
per portare particelle come elettrone e protone a
energie elevate e farle scontrare fra di loro o contro un bersaglio fisso di
atomi di un certo elemento. In questo modo si possono creare nuove particelle e
ricavare informazioni preziose sulla forma del “bersaglio” e sul tipo di interazione, a partire dalla traiettoria e dall’energia
dei prodotti della collisione.
10 Il pendolo di Foucault
L’esperimento con
cui Leon Foucault dimostra
la rotazione della Terra è stato realizzato dal fisico
francese circa centocinquant’anni fa. Egli, volendo
studiare la proprietà dei pendoli di oscillare sempre nello stesso piano, ne
costruisce uno lungo un paio di metri nella sua casa di Parigi. La notte dell’8
gennaio 1851 osserva che il piano di oscillazione
ruota lentamente in senso orario. Ripetendo più volte la prova nei giorni
successivi con fili più lunghi e masse maggiori, lo scienziato si convince che
non è il pendolo a ruotare, ma la Terra sotto di lui!
A marzo Foucault esegue l’esperimento in pubblico nel Pantheon con un pendolo lungo 67 metri e una massa di 28
chilogrammi, suscitando un’enorme impressione.

Ma come si può
spiegare il moto del pendolo? Immaginate di farne oscillare uno esattamente
sopra il Polo Nord. Lo spostate
un po’ dalla sua posizione di equilibrio e poi lo lasciate andare da fermo.
Come Foucault sapeva, il suo piano di
oscillazione non varierà nel tempo, mentre la Terra continua il suo moto
di rotazione da Ovest verso Est passando per il Sud. A voi che vi muovete insieme alla Terra, sembrerà invece che sia il
pendolo a ruotare nel verso opposto, in senso orario. Per fare un giro completo
impiegherà esattamente un giorno. Spostandovi più a Sud, potreste verificare
che il periodo di rotazione (il tempo impiegato a fare un giro) aumenta.
Arrivando all’Equatore, a parte temperature più miti, troverete
che il pendolo non ruota affatto! Gli abitanti dell’emisfero australe vedono
invece ruotare il pendolo in senso antiorario.
Il pendolo di Foucault, reso celebre dall’omonimo romanzo di Umberto Eco, nel Pantheon di Parigi impiegava circa 31
ore e 45 minuti per compiere una rotazione completa, mentre a Torino gira in 34
ore circa.
Una dimostrazione
facile. In teoria
Tutti sanno che la
Terra ruota su se stessa. Ma se vi chiedessero di
dimostrarlo, sareste in grado di farlo? Non è poi così semplice. Pensate che
poco più di centocinquant’anni fa, tre secoli dopo
che Copernico aveva smentito
Aristotele riguardo alla fissità della Terra nell’Universo, nessuno aveva
ancora saputo mostrare in modo convincente la rotazione terrestre.
Foucault ci riuscì
sfruttando la sua curiosità e la sua ingegnosità. La bellezza dell’esperienza del pendolo sta proprio nell’aver
svelato in modo plateale e comprensibile ciò che molti avevano cercato per anni.
Circa due secoli
prima un allievo di Galileo, Vincenzo Viviani, aveva
osservato lo stesso fenomeno ed era arrivato alla conclusione opposta, che cioè ci dovesse essere una forza che faceva ruotare il piano
di oscillazione del pendolo.
In realtà la causa
che lo fa variare, la rotazione terrestre, è la stessa che nel nostro emisfero
devia verso destra i venti e le correnti oceaniche mentre li fa
girare verso sinistra nell’emisfero Sud, influenzando così il clima. L’effetto
deve essere tenuto in considerazione anche dai piloti di aereo
per non atterrare a Ovest del punto previsto.
La proprietà di
mantenere invariato il proprio piano di rotazione fu sfruttata
da Foucault anche per ideare il giroscopio, strumento
che sta alla base della girobussola, il principale sistema di navigazione
marittima e aerea usato fino ai giorni nostri, sostituito solo parzialmente dal
GPS. Si tratta essenzialmente di una trottola in rapida rotazione, che, proprio
come il giocattolo, tende a resistere a cambiamenti del
proprio asse. Il giroscopio, attraverso un quadrante graduato, può
quindi indicare le deviazioni, rispetto alla posizione iniziale, del mezzo su
cui è installato.
Dove
sta "il bello della scoperta"?
I lettori di Physics World che hanno risposto
al sondaggio, hanno offerto una varietà di ragioni per le loro scelte.
Una di queste
indicava come aspetto della bellezza il “potere di
trasformazione” di un esperimento: la sua capacità di cambiare il modo di
pensare ed il comportamento di chi lo realizza per la prima volta e di chi lo
riproduce, anche se è già preparato al risultato.
Qualcun altro ha
parlato di bellezza di un esperimento in termini di “economia”, ossia con
quanta efficacia e immediatezza la prova renda
esplicito un risultato. L’economicità si può riferire
sia alla semplicità dell’apparato sperimentale sia al modo in cui presenta un
risultato significativo, oppure ad entrambi.
Altri criteri
menzionavano la bellezza di alcuni strumenti
scientifici che, basati su un’idea molto semplice, aprono nuovi ampi spazi
all’esplorazione; oppure evidenziavano il ruolo dello sperimentatore, che è
attivamente implicato nella realizzazione di qualcosa che non accade
spontaneamente.
Nel valutare
l’apparente semplicità degli esperimenti qui riportati, non bisogna ricavarne
un’idea distorta. Spesso le dimostrazioni che riproducono un esperimento
possono enormemente semplificare il processo sperimentale utilizzando moderni
equipaggiamenti che hanno già in vista la “risposta giusta”. A questo proposito
il professor Robert Crease,
ideatore del sondaggio, scrive: “Anche quando un esperimento scientifico punta
ad un fatto o ad una relazione semplice, normalmente è stato estratto da una
‘matrice di complessità’ e introduce nuove
complessità nella scienza. L’esperimento scientifico non è la semplice
illustrazione di una lezione già preparata, ma un processo tramite il quale una
verità fino ad allora sconosciuta viene svelata per la
prima volta”. Allora emerge il bello della scoperta.