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Elementi di scenario sull’andamento del mercato finanziario italiano |
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1.
Il quadro
internazionale |
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2.
Lo scenario
europeo |
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3.
Le specificità
del sistema creditizio italiano |
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4.
Costi, margini e
andamento dell’occupazione nelle banche italiane |
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5.
Stato e
prospettive del settore assicurativo |
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6.
Stato e
prospettive del settore della riscossione |
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Il rinnovo contrattuale
nel settore bancario |
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Il rinnovo contrattuale
nel settore assicurativo |
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Le Pari Opportunità |
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La previdenza
complementare |
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Il progetto di formazione nazionale
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Elementi
di scenario sull’andamento del mercato finanziario italiano
Favoriti dal moltiplicarsi degli strumenti finanziari, dalla sempre maggiore diffusione dei prodotti derivati, dalla quasi completa liberalizzazione dei movimenti di capitale, gli stock di attività finanziarie sono ormai divenuti, in particolare nei paesi maggiormente industrializzati, un multiplo del prodotto interno lordo ed è ormai noto che le fluttuazioni della componente di questo aggregato rappresentata dalla ricchezza delle famiglie incidono significativamente, nel bene come nel male, sul reddito e sull’occupazione attraverso la leva dei consumi, giungendo a spiegare - secondo un recente studio della Federal Reserve - tra il 22 e il 45 per cento del rilevante incremento dei consumi intervenuto tra il 1995 e il 1999 negli USA.
Non è superfluo, d’altro canto, sottolineare che l’effetto ricchezza (o l’effetto povertà nel caso dei crolli del valore di azioni e/o obbligazioni) è legato non alla realizzazione della plusvalenza, ma solo al crescere delle quotazioni e che, quindi, all’impatto appena citato sui consumi e sull’acquisto di beni durevoli va sommato quello derivante dalla “monetizzazione” degli investimenti finanziari, evento che, pur neutro a livello sistemico, tende a modificare la propensione al consumo dell’individuo.
Per fornire un’idea delle dimensioni raggiunte dall’aggregato rappresentativo delle attività finanziarie, è utile fare riferimento al caso dell’Italia, che evidenzia, nel 2000, uno stock complessivo di attività finanziarie pari a 15,8 milioni di miliardi di lire, valore che è pari a 7 volte il prodotto interno lordo nazionale riferito allo stesso anno (nel 1980 tale valore era pari a 1,3 milioni di miliardi ed era pari a 4 volte il PIL), contro un valore derivante da analogo rapporto negli Stati Uniti pari a 5,9 (da 6,3 nel primo trimestre 2000 quando gli indici azionari USA erano ai massimi).
Sempre con riferimento al nostro Paese, il totale delle attività finanziarie delle famiglie ha superato la soglia dei 5 milioni di miliardi (392 mila miliardi nel 1980, valore sostanzialmente pari al PIL), mentre la ricchezza netta (detratte le passività delle famiglie per 677 mila miliardi) è pari a 4,4 milioni di miliardi.
Per buona parte del ventennio considerato, la crescita delle ricchezza delle famiglie è stata legata ai rendimenti dei titoli di Stato a breve e a medio e lungo termine, rendimenti spesso a due cifre, mentre, a partire dal processo di convergenza dei tassi italiani verso quelli dell’area euro, predominante è stato il ruolo dei capital gain sui titoli azionari italiani ed esteri e i risultati dell’investimento in fondi o in altri strumenti finanziari, con il conseguente aumento del grado di rischiosità medio del portafoglio.
Sintomatico della crescente finanziarizzazione è il volume degli scambi sul mercato dei cambi, giunto ad un controvalore quotidiano di milioni di miliardi di lire, mentre le transazioni valutarie legate allo scambio di materie prime, beni e servizi rappresentano meno del 5 per cento del totale.
Il crescente divario tra lo stock di ricchezza finanziaria e il flusso annuo di merci e servizi, la continua crescita della componente puramente speculativa, l’assenza di vere regole a tutela dei paesi emergenti rispetto a flussi di capitale di grande violenza e rapidità sia in entrata che in uscita, la crescita esponenziale dei capitali ospitati nei paradisi fiscali, sono elementi che costituiscono la principale preoccupazione dei banchieri centrali, preoccupazione condivisibile alla luce degli effetti nefasti che l’esplodere di quelle che spesso si sono rivelate come pure bolle speculative può esercitare sull’economia reale, sui redditi e sull’occupazione.
Ovunque
nel mondo, la parte del leone nella gestione dei flussi finanziari legati
all’acquisto per conto degli investitori di valute, azioni, obbligazioni e
derivati, è svolta dalle banche, in particolare da un ristretto numero di
colossi statunitensi e svizzeri che hanno tutti raggiunto una massa
patrimoniale gestita di entità non lontana dal prodotto interno lordo di un
paese come l’Italia.
Il
discorso cambia sensibilmente se si prende in esame il sotto insieme
rappresentato dal risparmio gestito (o, come sembra più corretto definirlo,
delegato), in quanto in Francia, Germania e Gran Bretagna la quota di mercato
di pertinenza delle compagnie di assicurazione oscillava, nel 1998, tra il 49 e
il 57 per cento, mentre la quota di mercato delle compagnie di assicurazione
operanti in Italia era pari l’anno successivo al 17 per cento, percentuale
nettamente inferiore a quella relativa al mercato finanziario spagnolo (36 per
cento del risparmio delegato appannaggio delle assicurazioni).
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2. Lo scenario europeo
Il processo di concentrazione in corso nel settore
creditizio nell’ambito dei paesi dell’Unione europea, processo che aveva già
determinato la riduzione del 30 per cento del numero delle banche tra il 1990 e
il 1998, è proseguito, anche se ad un ritmo più blando, nel triennio
successivo.
La riduzione del numero dei soggetti bancari fornisce una
rappresentazione solo parziale del processo di concentrazione in atto, che è
certo meglio rappresentato dalla costante crescita delle quote di mercato dei
primi cinque (o dieci) gruppi bancari.
E’
esemplare, sotto questo profilo, il caso italiano, con una riduzione del numero
delle aziende di credito del 22,5 per cento tra il 1989 e il 2000, ma che vede
due terzi circa delle banche pesare per appena il 16 per cento del totale del
mercato, mentre, nel frattempo, la quota di pertinenza dei cinque maggiori
gruppi è passata dal 25 al 54 per cento, quota che passa al 67 per cento se si
prendono in esame i primi dieci gruppi.
Tuttavia, pur in presenza della realizzazione dell’Unione monetaria,
solo una piccola parte delle operazioni di fusione ha avuto caratteristiche
transfrontaliere, così come rimane relativamente modesta l’operatività delle
banche dell’area al di fuori dei rispettivi confini nazionali.
Si conferma così la contraddizione tra il grado di
concentrazione esistente nei paesi
dell’Unione e la bassa propensione a
realizzare, attraverso acquisizioni e/o aperture, banche caratterizzate da quote
significative di mercato almeno in un certo numero di paesi dell’area euro.
D’altro canto, gli avvenimenti recenti in altri settori
produttivi, nel nostro come in altri paesi, stanno a dimostrare
inconfutabilmente l’esistenza di una barriera rappresentata dall’esistenza di
meccanismi difensivi forti a livello nazionale, barriera appena scalfita da
sporadici interventi della Commissione UE.
Sembra quasi esistere una sorta di accordo tra gentiluomini
che limita l’intervento delle grandi banche europee all’acquisizione di quote
di minoranza in grandi banche di altri paesi membri, acquisizione spesso intesa
come mossa transitoria in attesa della caduta delle barriere attualmente
esistenti.
Se spostiamo lo sguardo dall’attività al dettaglio a quelle
relative alla gestione del risparmio, all’insieme delle attività svolte in
favore delle imprese medio-grandi e alla consulenza nel campo delle fusioni e
delle acquisizioni, tale scenario idilliaco scompare ed è facile osservare come
sia in corso un’aspra contesa che vede
come protagoniste e concorrenti sul ricco mercato europeo le principali banche
dell’area euro e le banche globali svizzere e statunitensi.
Le conseguenze derivanti dagli impedimenti alla nascita di
grandissimi gruppi bancari europei sono particolarmente evidenti
nell’operatività sui mercati finanziari, che, fatte salve pochissime eccezioni,
è basata su volumi assolutamente insufficienti a giocare un ruolo di primo
piano a livello mondiale o almeno continentale, mentre i prezzi dei servizi
resi a tale scopo restano elevati e la trasparenza e l’informativa alla
clientela continuano ad essere molto scarse.
Sono molti, tuttavia, gli elementi che fanno ritenere come
solo temporanea la tregua armata in atto tra i grandi gruppi bancari europei e,
ad esempio in Italia, esistente anche tra banche e gruppi appartenenti allo
stesso paese, inducendoci a
ritenere che la fase successiva del processo
di concentrazione non potrà che prevedere la nascita di gruppi bancari
in grado di essere presenti a tutti i livelli almeno nei principali paesi
dell’area euro.
Così come siamo convinti che, a meno di un salto di qualità
difficilmente prevedibile sulla base dello scenario attuale, neanche la
prossima fase del processo di concentrazione nell’area dell’euro dovrebbe
portare alla nascita di soggetti bancari a carattere veramente globale.
Come si è visto a proposito delle commissioni e delle
condizioni previste per i risparmiatori che decidono di far gestire i propri
patrimoni, a volte i propri risparmi, alle banche europee, così si pone a livello continentale il
problema dello scarso livello di concorrenza esistente nei singoli mercati
nazionali e della correlazione diretta che esiste tra tale fenomeno e la forte
crescita del grado di concentrazione registrata nel corso dell’ultimo decennio.
Tratteremo più diffusamente questo argomento parlando dell’Italia,
ma è evidente che la tendenza a non porre in essere, a partire dalle differenti
strutture di costo esistenti a livello della singola azienda, pratiche di vera
concorrenza su prezzi, tassi e condizioni non è prerogativa italiana,
trattandosi altresì di un comportamento
alquanto diffuso in diversi paesi europei, in particolar modo in
Germania.
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3. Le specificità del sistema creditizio
italiano
Una vera e propria raffica di provvedimenti emanati nel
corso degli anni Novanta hanno radicalmente mutato il volto del sistema
bancario italiano, creando una cornice regolamentare non dissimile da quelle
esistenti nei principali paesi industrializzati e smantellando in buona parte
quella rete di protezione e di sicurezza ideata da Alberto Beneduce e Donato
Menichella all’indomani della crisi bancaria degli anni Trenta.
In un suo recente libro, Pierluigi Ciocca, membro del
Direttorio della Banca d’Italia,
ricorda e commenta questi provvedimenti, in particolare il Testo unico
bancario e il Testo unico della finanza, giungendo a sostenere che, non solo
sotto il profilo innegabile della morfologia, ma anche sotto quello della
concreta operatività, “l’industria finanziaria ha progredito quanto a volume,
produttività, prezzi dei servizi offerti dalle banche. Ha progredito quanto ad
articolazione, spessore, efficienza dei mercati”.
Sull’efficienza della nuova forma di mercato e sulla non
secondaria questione del grado effettivo di concorrenza ci soffermeremo più
avanti, ma su un punto non si può non convenire e cioè che non esistono, almeno
in Italia, precedenti di una deregolamentazione così radicale e realizzatasi in
un arco di tempo così breve, un processo connotato da caratteristiche
assolutamente rivoluzionarie.
In un breve volgere di tempo, da una presenza pubblica nel
capitale delle banche prossima al 70 per cento circa si è scesi, nel 2000, al 12
per cento ed è utile ricordare che la privatizzazione del settore è stata una
libera scelta nazionale e non un percorso obbligato, basti pensare, al
proposito, alla permanenza in mani pubbliche di gran parte del sistema bancario
tedesco.
La questione diverrebbe più complessa, e i toni meno
trionfalistici, se si tenesse conto del peso effettivo che le Fondazioni
continuano ad esercitare sulle rispettive aziende bancarie o sui gruppi bancari
ai quali hanno conferito le banche
stesse, il che, all’approssimarsi della scadenza per la vendita dei pacchetti
azionari prevista dal decreto legislativo sulle Fondazioni, è questione di non
poco momento.
Altra questione al momento irrisolta è quella degli
intrecci azionari che hanno visto anche la presenza negli organi collegiali di
una banca di esponenti di un’azienda di credito non solo fisiologicamente
concorrente, ma anche in gara, a colpi di serrati rilanci, per un’importante acquisizione nel settore.
Ma le peculiarità italiane non si fermano a questi retaggi
del passato, riguardando anche aspetti più strettamente produttivi, quali la
netta preponderanza - rispetto agli standards europei - del credito alle
imprese rispetto ai finanziamenti alle famiglie, la prevalenza assoluta della
provvista a breve rispetto a quella a medio e lungo termine, per giungere alla
ridottissima operatività in valuta e al numero esiguo di filiali e affiliate
estere.
Il processo di concentrazione in corso nel settore, in
particolare quello che sta avvenendo attorno ai cinque principali poli
attrattivi (Intesa, Unicredito italiano, San Paolo-IMI, Banca di Roma e Monte
dei Paschi), si caratterizza ormai da lunghi anni come un convivere, a volte
schizofrenico, tra la normale operatività e una sorta di fabbrica di San Pietro affollata di gruppi di lavoro impegnati in
progetti forse non casualmente denominati cantieri.
A tal proposito va ricordato che il settore bancario ha rappresentato, in
particolare a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, e continua tuttora
a rappresentare una sorta di Eldorado
per le società di consulenza italiane e straniere, società
che spesso hanno svolto un ruolo di supplenza nei confronti
dei banchieri, trovandosi a redigere, per un fatturato complessivo ormai cifrabile
nelle migliaia di miliardi, progetti di ristrutturazione e riorganizzazione,
piani industriali, piani strategici, valutazione del personale, rivisitazione
dei sistemi informatici e dei sistemi di reportistica.
La presenza abnorme della consulenza ha giocato un ruolo,
seppur assolutamente non determinante, nel travagliato processo decisionale che
ha portato all’abbandono del modello federale da parte di Intesa, all’indomani
dell’ingresso nel gruppo di una entità complessa come la Banca commerciale
italiana, ingresso che ha messo in risalto l’ingestibilità insita nel modello
stesso, un modello che, lo si è capito meglio solo ex post, aveva come scopo
prevalente quello di rassicurare gli enti conferenti e i gruppi dirigenti delle
singole banche sulla gradualità dell’integrazione, la difesa dei marchi e la
tutela delle posizioni individuali.
Pur
permanendo in importanti realtà come Unicredito italiano, Cardine e, seppur con
notevoli differenze, Monte dei Paschi, il
modello federale sembra inevitabilmente
destinato a cedere il passo alla fusione per incorporazione, processo che
sarà però caratterizzato da maggiore gradualità, in particolare con riferimento
alle banche meridionali di rilevanti dimensioni, che pur facendo ormai capo al
San Paolo e alla Banca di Roma rappresentano gli ultimi grandi centri
decisionali del settore con sede nel Mezzogiorno.
Pur,
almeno al momento, in presenza di tale approccio graduale e formalmente
rispettoso dell’autonomia societaria del Banco di Napoli e del Banco di
Sicilia, non si possono sottovalutare i rischi connessi ad un percorso che
sembra indirizzato verso la fusione per incorporazione dei due istituti nelle
aziende bancarie acquirenti.
Così come sarebbe errato non
valutare l’obiettiva gravità del fatto che una grande area del Paese esprima,
come entità locali del settore del credito, solo piccole banche private,
qualche banca popolare ed una pletora di banche di credito cooperativo e questo
proprio nel momento in cui si scorgono segnali interessanti di ripresa in più
regioni dell’area meridionale.
Ma il vero protagonista, nel
bene come nel male, del processo di ristrutturazione e concentrazione del
settore creditizio italiano è stato indubbiamente il Governatore della Banca
d’Italia, Antonio Fazio.
Andando
molto al di là delle sue prerogative, il Governatore ha, infatti, imposto,
all’indomani di due OPA ostili e anche in presenza di un’aggregazione
transnazionale del tutto amichevole, alle banche e ai gruppi bancari coinvolti un’interpretazione dell’autorizzazione
preventiva che giungeva a scavalcare l’esame preventivo degli organi collegiali
delle banche in procinto di proporre l’iniziativa di acquisto.
Le
preoccupazioni del Governatore per la gestibilità delle operazioni proposte
sono in molti casi venute meno quando a proporre la medesima operazione erano
gruppi bancari diversi e che presentavano progetti di integrazione e piani
industriali talmente labili da dover essere riformulati più volte, sino, come
si è già ricordato, a determinare l’abbandono da parte del gruppo acquirente
del modello federale.
L’approccio conservativo
appare in genere rassicurante anche ai lavoratori coinvolti, o che rischiano di
essere coinvolti nelle operazioni, mentre meno rassicurante appare l’utilizzo
discrezionale del potere di veto o di autorizzazione delle singole operazioni,
in quanto è facile avere memoria di situazioni nelle quali i rischi per
l’occupazione, gli inquadramenti e la mobilità legati ad un’operazione bocciata
si sono poi ripresentati, a volte in misura molto maggiore, nel caso di
un’acquisizione approvata a tambur battente dal Governatore.
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4. Costi, margini e andamento dell’occupazione nelle banche italiane
Il
percorso già citato che dal protocollo di Palazzo Chigi del 1997 ha portato
all’intesa del luglio ’99 prese le mosse all’indomani della crisi di una parte
rilevante delle banche meridionali e mentre erano in corso pulizie di bilancio in Banca di Roma e, l’anno successivo, in BNL,
in entrambi i casi si giunse ad un risultato netto negativo per migliaia di
miliardi.
Ma,
al di là dei singoli casi aziendali, era l’intero settore del credito italiano
a segnalare una situazione di difficoltà, spingendo alcuni osservatori a
parlare del settore come della siderurgia degli anni Novanta e a prevedere
terapie non diverse da quelle adottate in Gran Bretagna: espulsione massicce di
manodopera ed un sensibile peggioramento delle condizioni di lavoro per i non professional.
Sempre
nel ’97, le banche costituite sotto forma di S.p.A. perdevano 552 miliardi, il
ROE del sistema, al netto delle casse rurali e artigiane, era pari allo 0,71
per cento del patrimonio utile, le sofferenze ufficiali erano al di sopra dei
120 mila miliardi (cifra che lievitava di molto aggiungendo crediti dubbi e
incagli) e il rapporto tra costo del lavoro e margine di intermediazione si
collocava al 43 per cento.
Nel
2000, soltanto tre esercizi dopo, lo scenario è radicalmente cambiato: il
totale dei profitti delle banche italiane è pari a 27.454 miliardi, il ROE – al
netto delle BCC – si è portato all’11,3 per cento, il risultato lordo di
gestione (il cash flow delle banche)
si porta sopra i 55 mila miliardi da poco di più di 30 mila nel ’97, il rapporto
tra costo del lavoro e margine di intermediazione si è portato al 31,4 per
cento.
L’impegno
delle parti nell’ultimo CCNL era quello di ridurre di 3,7 – 4,1 punti
percentuali l’incidenza del costo del lavoro sul margine del 1997 (43 per
cento), è stato sostanzialmente raggiunto nel biennio successivo: nel ’99, ad
esempio, tale rapporto era del 36 per cento in Italia, contro il 39 per cento
della Spagna, il 37 della Germania e della Francia e il 29 del Regno Unito.
Divengono
così più realistiche le previsioni del CER, centro che, al pari di Prometeia,
segue da anni il settore creditizio italiano, che indicano un rapporto tra il
costo del lavoro e il margine di intermediazione posto appena al di sopra del
27 per cento, in linea con quello britannico e largamente inferiore a quelli
degli altri paesi europei confrontabili.
Seppur
per effetto della forte crescita dei dividendi, i ricavi diversi dal margine di
interesse giungono a rappresentare il 47 per cento del totale dei ricavi,
mentre si registra, dopo un calo durato tre anni, una forte crescita del
margine di interesse (+7,6 per cento).
Nel
volgere di pochi anni, la quota di ricchezza finanziaria delle famiglie
italiana direttamente gestita dalle banche o da società specializzate
controllate dalle stesse ha registrato
ritmi di crescita esponenziale, così come sono cresciuti, a ritmi ancor più
sostenuti, i ricavi collegati a questo tipo di attività, in virtù dell’esosità
delle commissioni praticate, per alcune delle quali è stato necessario
l’intervento della Commissione UE.
L’onerosità
delle commissioni e delle condizioni si è accompagnata in non pochi casi a seri
problemi sul piano della corretta informativa al cliente sui rischi connessi al
prodotto offerto e, caso ancor più frequente, su quello di una corretta e
tempestiva rendicontazione dell’investimento effettuato, per non parlare poi
delle eventuali clausole che prevedono penali in caso di richiesta di riscatto
anticipato.
Si
è giunti, nel caso di prodotti caratterizzati da elevati profili di rischio o
gravati da oneri oggettivamente eccessivi ove comparati a succedanei presenti
sul mercato, a creare veri e propri casi di coscienza nei dipendenti e nei
promotori finanziari chiamati a vendere, spesso sotto lo stimolo di generosi
incentivi economici, tali prodotti e in non pochi casi il buon nome
dell’azienda è stato tutelato dal dipendente o dal promotore che ha fatto
prevalere, a suo rischio, considerazioni etiche su quelle di interesse
immediato.
L’assenza
di un grado effettivo di concorrenza nell’operatività bancaria tradizionale,
assenza dimostrata in modo inequivocabile dalla crescita di circa un punto del
differenziale tra tassi attivi e passivi, si sta evidentemente trasferendo
anche al nuovo e lucroso comparto di attività, ma sarebbe utile ricordare che
il risparmiatore ha, come sosteneva Luigi Einaudi, una memoria molto lunga, pur
avendo poco coraggio e molta rapidità.
D’altro
canto, la crescita del grado di concentrazione rende possibile per gli uomini
al vertice di uno dei cinque gruppi che assieme controllano più della metà del
mercato di giungere a scelte da oligopolio collusivo guardando appena quattro
cartelli contenenti le condizioni praticate dai loro quattro maggiori
competitori.
Anche
sul versante occupazionale, dopo un lungo periodo nel quale si sono registrate
oltre ventimila uscite incentivate, si registra per la prima volta un, seppur
modesto, saldo positivo tra uscite ed entrate, ricordando che il saldo di 104
indica che il numero delle assunzioni è stato superiore a quello degli esodi
incentivati (2.800), delle uscite fisiologiche e di quelle per altre ragioni.
La
tenuta occupazionale assume maggiore rilievo ove si consideri che vi è stata
negli ultimi anni una crescita considerevole nelle forme di contatto e/o di
operatività a distanza con la banca sia a favore dei privati che delle imprese.
Si
legge infatti nella Relazione della Banca d’Italia relativa all’anno 2000 che,
a quella data, erano ormai 522 le banche che offrivano servizi attraverso il
telefono o il computer ma anche che “lo sviluppo dell’offerta di servizi a
distanza non sembra sinora essersi realizzato in alternativa a quello della
rete distribuzione tradizionale”.
Tale
non alternatività assoluta tra la rete remota e quella fisica non è solo legata
a diffidenze e resistenze rispetto al rapporto a distanza o a quello virtuale,
ma nasce da una complementarietà dei due approcci che ha indotto anche banche
statunitensi nate volutamente senza sportelli a decidere successivamente di
aprire alcune centinaia di dipendenze tradizionali.
Il
complesso delle cose appena dette rappresenta la prova migliore del fatto che
il sistema creditizio italiano è ormai definitivamente uscito dalla lunga fase
di ristrutturazione e riposizionamento strategico, una fase durata per buona
parte dell’ultimo decennio e che si è conclusa, anche grazie al nostro senso di
responsabilità, senza i danni previsti da molti.
I
dati ufficiali riportati in queste pagine e le previsioni dei centri di ricerca
evidenziano come, anche nel nostro settore, sia in atto un rilevante processo
di redistribuzione del reddito a danno del lavoro dipendente e in favore dei
profitti, fenomeno che sta raggiungendo negli ultimi tempi dimensioni tali da
richiedere l’individuazione di opportuni correttivi nella prossima tornata
contrattuale, in linea con quanto è in molti casi avvenuto a livello aziendale.
Esistono dunque tutti gli
elementi perché si riavvii un confronto volto a garantire una partecipazione
effettiva dei lavoratori al dividendo
del risanamento, partecipazione che dovrà avvenire sia a livello nazionale, che
attraverso strumenti sempre più esigibili e trasparenti volti a garantire una
distribuzione più equa del profitto a livello aziendale.
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5. Stato e prospettive del settore assicurativo
Il settore assicurativo si caratterizza per un
progressivo incremento della raccolta premi in linea con un trend di crescita costante che passa dai 41.430 miliardi di fatturato del 1990 ai 141.000
miliardi nel 2000, con una significativa performance del ramo Vita che nel 2000
si attesta sugli 80.000 miliardi di
raccolta premi superando ampiamente il ramo Danni che, sempre nel 2000, raccoglie
premi per 60.000 miliardi.
La dinamicità del ramo Vita - che vede il 54% dei
premi raccolto attraverso gli sportelli bancari, il 27% attraverso le
agenzie d’assicurazione, il 9,4
attraverso reti di promotori finanziari
– è alla base dell’aumento dell’incidenza globale dei premi assicurativi sul
PIL che, seppure ancora lontana da quella dei principali Paesi europei, è stata
nel 2000 pari al 5,8% (5,6% nel 1999).
L’Italia si colloca al quarto posto nell’Unione
Europea per quanto concerne la raccolta premi diretti dopo la Gran Bretagna, la
Germania e la Francia.
Le prossime frontiere dello sviluppo assicurativo in
tema di previdenza integrativa, assistenza sanitaria e assistenza agli anziani
non autosufficienti (long term care) lasciano presagire ulteriori incrementi di
fatturato, a rafforzamento di un trend che vede, secondo stime prudenziali
dell’Ania, nel 2001, un incremento della raccolta complessiva intorno al 10%.
Il tutto a fronte di una progressiva riduzione
dell’occupazione che nel 2000 si attesta su 41.000 addetti, in calo del 12% rispetto ai 46.500 del 1995.
Il dato assume ancora più significato se si pensa
che, a fronte di ristrutturazioni, fusioni e acquisizioni che da alcuni anni caratterizzano
il nostro settore, non vi è stato ricorso a licenziamenti collettivi ma,
attraverso la normativa contrattuale, si sono realizzati accordi che hanno
consentito la fuoriuscita dei lavoratori in esubero sempre su basi volontarie,
principio riconfermato anche nell’accordo raggiunto con il Gruppo Generali, a
seguito dell’Opa su Ina, accordo che, inoltre, consolida l’area contrattuale.
La flessione del costo del personale dal 6% del 1995 al 3,4% del 1999, la ridotta incidenza delle spese di gestione sui premi e un rapporto premi/dipendenti che colloca l’Italia al secondo posto in Europa per quanto concerne la produttività del personale sono alla base dell’esplosione dei profitti delle compagnie di assicurazione italiane che, nel 2000, hanno realizzato utili netti per 4334 miliardi.
La liberalizzazione del Mercato RCA, fermo l’obbligo
a contrarre copertura adeguata, ha fatto si che le imprese assicurative nel
tentativo di arginare i rovinosi andamenti tecnici del ramo siano ricorse a
soluzioni che, lontane dall’affrontare i mali oscuri del sistema, hanno posto
l’accento su elementi marginali, di facile e sicura redditività, quali:
-
gli aumenti tariffari
-
la
riduzione dei costi di gestione
Inutile soffermarsi sulle
battaglie svolte dalle associazioni dei consumatori in merito al caro polizza se non per sottolineare che
grazie alla loro pressione si sono poste le basi per delle significative
riforme, assicurative e della circolazione stradale.
Sottolineiamo la presenza,
la puntualità, l’apporto dell’ADOC lungo l’arco di questo processo, plaudiamo
alla capacità dimostrata nella tutela ed orientamento del cittadino-assicurato, da essa raccogliamo idealmente quel testimone
che ci impone la massima attenzione e diligenza nel far si che i principi
conquistati trovino la loro corretta applicazione nel mondo imprenditoriale.
Se il caro polizza è un principio attinente la tutela consumeristica, l’erogazione dei servizi è materia
tipica della vocazione sociale del sindacato, il quale, agendo in un contesto
operativo, è in grado di cogliere le disfunzioni derivanti dal contenimento dei
costi a scapito della qualità dei servizi erogati.
Il comparto presenta alla
platea nazionale un’immagine di degrado che penalizza tanto il consumatore
quanto il lavoratore.
Solo nobilitando le funzioni
assicurative, investendo in mezzi e uomini, l’area assicurativa può ritrovare
fiducia e credibilità.
Su questo è forte il nostro
impegno a lottare affinché il mondo assicurativo, complesso quanto delicato,
venga gestito all’interno delle Imprese.
Non neghiamo la necessità di perseguire criteri innovativi, purché comportino una superiore qualità dei servizi e una sempre maggiore professionalità degli addetti, finalizzate alla completa soddisfazione del consumatore.
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6. Stato e prospettive del settore della riscossione
Fra gli elementi che costituiscono lo scenario sull’andamento del mercato finanziario non possiamo non considerare gli effetti prodotti in generale dal sistema di tassazione.
Quando si fa cenno a temi quali “globalizzazione”, “liberalizzazione dei mercati”, “moneta unica per l’intera Europa”, risulta evidente la necessità di armonizzare i sistemi di tassazione dei paesi membri dell’Unione Europea. Le forti differenze esistenti al momento comprometterebbero, soprattutto con l’ingresso dell’euro, la concorrenza interna.
La globalizzazione, peraltro, man mano che abbatte
le frontiere, erode il gettito fiscale su cui possono fare assegnamento i
governi. In particolare inficia la loro capacità di tassare i prodotti della
speculazione finanziaria, i profitti e gli investimenti delle grandi imprese. I
capitali dei paesi industrializzati sono, infatti, in perenne movimento intorno
al pianeta, il che rende estremamente difficile tanto l’accertamento dei
profitti imponibili che l’identificazione degli Stati autorizzati a tassarli.
Secondo lo stesso Commissario europeo Mario Monti,
se non si perverrà tempestivamente all’armonizzazione fiscale, con l’obiettivo
di ridurre gli oneri sul lavoro e ad aumentare i prelievi sui capitali, non si
riuscirà a “mettere fine al paradiso per pochi e a rischiare di trasformare l’Europa
in un inferno fiscale per molti”
I paesi membri dell’Unione Europea hanno raggiunto,
il 27 novembre dell’anno scorso, un faticoso compromesso riguardo
all’armonizzazione delle imposte sui redditi da capitale. Il progetto di
direttiva prevede, intanto, uno scambio d’informazioni generalizzato tra le
amministrazioni fiscali, che però dovrebbe avere inizio soltanto dall’anno
2010. Tempi troppo lunghi, soprattutto per quanto attiene all’allineamento alla
legislazione comunitaria dei cosiddetti paradisi fiscali europei. Fra questi la
Svizzera, considerata la più importante fra tutte le oasi di evasione mondiale.
Da tutto il mondo, ma in particolare da Germania,
Italia e Francia, gli evasori trasferiscono i capitali in Svizzera. Per un
motivo semplice: in quasi tutto il pianeta l’evasione fiscale costituisce un
reato punibile penalmente, contrariamente a quanto avviene in Svizzera, dove,
invece, la falsa dichiarazione d’imposta e la sottrazione internazionale di
redditi imponibili non sono che infrazioni amministrative.
Secondo uno studio dell’Università di Basilea, la
piazza finanziaria elvetica gestirebbe il 35% circa dei patrimoni privati e
assicurerebbe l’11% del PIL.
E’ evidente che anche il sistema fiscale del nostro
Paese dovrà assoggettarsi alla prevista armonizzazione. E non soltanto per non
incorrere nei rischi paventati, ma essenzialmente per correggere le vistose
storture in esso presenti.
In quest’opera assai difficile si è già cimentato il
passato governo di centro sinistra, pressato in ciò anche dal Sindacato e, in
particolare, dalla UIL, che da anni ha fatto del fisco e della giustizia
fiscale la propria bandiera.
L’ex Ministro delle Finanze, l’On. Visco, ha
compreso, innanzitutto, che la crisi della fiscalità italiana non era del
sistema, ma nel sistema, in cui si erano accumulate pesanti incongruenze e
contraddizioni. Egli ha emanato, pertanto, una serie di interventi mirati nei settori
più diversi della fiscalità e li ha posti in essere con grande determinazione e
coraggio.
Fino ad allora, ha prevalso, nell’Amministrazione
Finanziaria, una concezione dell’ordinamento tributario essenzialmente
ristretta al momento impositivo, in quanto tale, con un netto primato
d’importanza per la disciplina dei tributi ed una considerazione marginale per
i fattori organizzativi e strumentali.
L’On. Visco ha “rivisto” questa concezione,
costruendo il nuovo ordinamento tributario attraverso un insieme di norme che
regolano l’attività complessiva dello Stato, come ente impositore, e assegnano
la dovuta importanza all’amministrazione dei tributi, non escludendo le
questioni relative alla titolarità e alle modalità di esercizio dei servizi
della riscossione, che, in questo contesto, assumono necessariamente un forte
rilievo.
Egli si è soprattutto convinto che l’evasione,
stimata fra i 200 ed i 300 mila miliardi, non era da combattere per decreto
legge, né con i comunicati stampa, né vessando con rilievi pretestuosi il
cittadino che finisce nel mirino del fisco, ma tentando di pervenire, seppure
in tempi non certamente brevi, a un cambiamento di mentalità, a partire dalle
piccole cose.
Con questo intento ha innanzitutto “sburocratizzato” l’Amministrazione Finanziaria, suddividendo le competenze del Ministero delle Finanze - oggi accorpato con quello del Tesoro e denominato Ministero dell’Economia e delle Finanze - fra quattro Agenzie, regolate da propri specifici statuti che attribuiscono a ciascuna di esse funzione pubblica ed operatività di tipo privatistico.
L’Agenzia delle Entrate, alla quale sono attribuiti compiti connessi al prelievo tributario, è una delle quattro nuove strutture ritenuta fondamentale per il perseguimento dei menzionati obiettivi ed anche sotto altri profili. La sua anticipata costituzione avrebbe potuto evitare, per esempio, il fenomeno delle “cartelle pazze”, che è stato figlio della rigidità e della paralisi decisionale tipica di un sistema iper regolato, come quello ministeriale.
Il precedente Governo di centro sinistra ha anche avviato il cosiddetto federalismo fiscale, ispirato a principi di responsabilità e di massima trasparenza di chi amministra la cosa pubblica, di sussidiarità e di solidarietà tra livelli di governo.
Negli ultimi mesi di sua attività ha pressoché
concluso la riforma del servizio di riscossione, per la quale mancano ancora
alcuni provvedimenti legislativi applicativi, ma che nel frattempo ha già
consentito, attraverso l’attivazione di taluni particolarissimi “strumenti di
persuasione del contribuente moroso”, di incrementare il recupero dei crediti
vantati dall’erario.
Quando la riforma del sistema di riscossione sarà a
regime potremo senz’altro sostenere che, almeno sul piano delle modalità
procedurali della riscossione coattiva, il nostro Paese è perfettamente allineato
alle realtà presenti nei sistemi di esazione vigenti negli altri Stati Europei.
Unica differenza rimane la titolarità della gestione del servizio, che in
questi Paesi è esercitata da strutture pubbliche, mentre in Italia continua ad
essere affidata in concessione a soggetti privati.
E’ facile rilevare come tale differenza gestionale
fra l’Italia e gli altri paesi europei sia da ricercare pressoché
esclusivamente in ragioni di ordine storico, considerato che per quanto
riguarda il nostro ordinamento la scelta risale all’indomani dell’unità
d’Italia.
Alla stessa epoca risaliva anche la disciplina
procedurale di riscossione, che, marginalmente modificata negli anni, risultava
ormai farraginosa ed obsoleta, tanto da non consentire di provvedere efficacemente
e tempestivamente al recupero dei crediti vantati dagli enti impositori
pubblici, divenendo, per questi ultimi, anche sempre più antieconomica.
Le motivazioni di riformare il settore sono da
ricercare, come si è avuto modo di sottolineare, certamente nella opportunità
di armonizzare il sistema con quelli vigenti negli altri Paesi europei, ma
ancor più nella necessità impellente di eliminare dallo stesso le disfunzioni
che lo caratterizzavano e ne condizionavano l’operatività, in modo da pervenire
alla costruzione di un sistema agile, economico ed efficiente, in grado di
combattere efficacemente il fenomeno della cosiddetta evasione da riscossione e
con la speranza di rendere il concessionario del servizio un moderno
imprenditore, altamente affidabile e specializzato nel recupero dei crediti
degli enti pubblici.
Obiettivi, questi, tutti sicuramente perseguibili,
ma la cui realizzazione, da noi fortemente auspicata e concretamente sostenuta,
viene messa in forse dalla instabilità che continua a pervadere il settore a
causa delle rilevanti semplificazioni procedurali introdotte dalla riforma, le
quali incidono negativamente sulla organizzazione e sulla redditività delle
aziende concessionarie del servizio, e maggiormente dalla mancanza, nei
provvedimenti legislativi di riordino del settore, di un disegno strategico
complessivo che, in termini di prospettive, dia certezza di permanenza del
sistema anche dopo il 2004, anno di scadenza delle attuali concessioni.
La instabilità è determinata soprattutto dagli
effetti prodotti, sul piano dei carichi di lavoro e, conseguentemente, della
redditività delle aziende, dal venir meno del “regime di monopolio” riservato,
in precedenza, ai concessionari ai fini dell’attribuzione ad essi dell’intera
attività di riscossione per conto dell’Erario e di tutti gli altri enti
pubblici.
La riforma
del settore consente, infatti, ai concessionari di mantenere il “monopolio”
soltanto per la riscossione coattiva a favore dell’erario, attività che,
peraltro, considerate le notevoli e rilevanti semplificazioni introdotte nella
sua procedura, sospettiamo possa essere trasferita, seppur nel tempo,
direttamente all’Agenzia delle Entrate, la quale avrebbe sedi sufficientemente
adeguate e attrezzate all’occorrenza su tutto il territorio nazionale.
E’ pur vero che i concessionari possono continuare a
svolgere attività di riscossione spontanea dei crediti vantati dall’Erario e
dagli altri enti pubblici, ma, poiché tale adempimento può essere svolto anche
dagli sportelli bancari e postali, i contribuenti preferiscono, per comodità,
pagare i propri tributi presso questi ultimi punti di esazione, le cui sedi
sono più prossime alla loro abitazione.
Ancora più stravolgente è risultata per il settore
la “liberalizzazione” della gestione della fiscalità locale, un tempo dominio
quasi incontrastato dei concessionari. Sono sempre più frequenti, infatti, i
casi di attività di riscossione delle entrate locali operata direttamente dai
Comuni o attraverso apposite società costituite da questi ultimi con terzi.
Le novità legislative introdotte e, soprattutto, le
conseguenze che ne derivano al sistema non potevano non avere impatti anche sul
numero degli addetti del sistema, oggi pari a circa 13.500 unità. Seppure
consapevoli di ciò, noi della UILCA non abbiamo mai osteggiato le iniziative
che il governo assumeva per il completamento della riforma, ma abbiamo fornito
costantemente, fino alla fine, il nostro contributo, convinti, in particolare,
che, in quel momento, le disastrose condizioni economiche del nostro Paese,
necessitassero assolutamente di una “rivisitazione” dell’intera materia.
I risultati, a quest’ultimo proposito, non sono mancati. La riforma del sistema di riscossione ha fatto parte, infatti, di un complesso mosaico di interventi legislativi che ha consentito al Governo di emanare la successiva legge finanziaria con una manovra economica che, per la prima volta, non ha fatto ricorso ad inasprimenti fiscali per far quadrare i conti dello Stato; anzi, fra l’altro, ha ridotto, proprio sul piano fiscale, di un punto percentuale l’aliquota che riguardava le fasce di reddito comprese tra i 15 e i 30 milioni annui ed ha aumentato le relative detrazioni. Benefici di cui hanno potuto godere in maggioranza pensionati e lavoratori.
Chiaramente, nei propri interventi il Sindacato non
poteva trascurare e non ha trascurato di segnalare al Governo e al Parlamento
le possibili ricadute negative dell’applicazione della riforma sulle
lavoratrici e sui lavoratori esattoriali, per le quali ha chiesto con forza,
anche con una manifestazione nazionale che la categoria ha tenuto a Roma, i
necessari ed adeguati rimedi.
Il legislatore, facendo proprie le istanze dei
lavoratori, ha introdotto nei provvedimenti di riordino del settore, seppure
con le limitazioni imposte dalla legislazione europea, la previsione di una
serie di strumenti di tutela, nonché la possibilità di realizzare misure di
sostegno del reddito e dell’occupazione per i lavoratori delle aziende
concessionarie e del Consorzio nazionale dei concessionari.
Le tutele e le misure previste potrebbero essere
sufficienti all’occorrenza se:
Þ l’attività di riscossione
coattiva a favore dell’erario non venisse trasferita, come da più parti viene paventato,
dai concessionari all’Agenzia delle Entrate del Ministero dell’economia e delle
Finanze;
Þ le aziende di credito,
proprietarie per il 97 % delle gestioni del servizio di riscossione, si
impegnassero realmente nello sviluppare sul piano organizzativo, anche
attraverso opportuni investimenti, l’attività del comparto, anche se non ci
nascondiamo che esse privilegiano la riscossione spontanea operata attraverso
lo sportello bancario, attività, quest’ultima, che non richiede costi mentre
garantisce un’alta redditività, se non per la remunerazione del servizio,
certamente per gli enormi flussi di denaro che da essa provengono;
Þ le aziende concessionarie, dimentiche del loro retaggio di imprese monopoliste, si convincessero della possibilità e, soprattutto, della indispensabile necessità di ripristinare il rapporto con gli enti locali, convincendoli concretamente della loro convenienza di utilizzare le strutture esattoriali. Un utilizzo che non dovrebbe essere limitato al servizio di riscossione, ma ampliato anche agli adempimenti connessi all’accertamento e a quanto possa risultare utile sul piano dell’amministrazione dei tributi locali. Una particolare cura dovrebbe, poi, essere posta per l’attività di recupero dei crediti ordinari, un adempimento nuovo affidato ai concessionari dalla riforma del settore.
E’ ovvio che in caso di sottrazione della
riscossione coattiva erariale ai concessionari da parte dell’Agenzia delle
Entrate, pretenderemo che quest’ultima si faccia carico anche dei lavoratori ad
essa addetti e che analogo concetto vale anche per le aziende di credito,
qualora esse intendessero abbandonare l’attività esattoriale attualmente
detenuta per impegnarsi esclusivamente nell’esercizio, più semplice e
redditizio, di riscossione spontanea attraverso lo sportello bancario.
Fermo quanto sopra, restiamo comunque convinti che
le uniche certezze per il settore devono continuare ad essere ricercate
nell’attività a favore degli enti locali.
E’ noto che, a seguito dell’avvio del federalismo fiscale, si è venuta a delineare, nel corso di questi ultimi anni, una situazione di costante riduzione dei trasferimenti di risorse economiche dallo Stato ai Comuni, una situazione che impone alle amministrazioni locali di compiere uno sforzo eccezionale, al fine di incrementare le entrate proprie, tra le quali figurano, in primo piano, quelle fiscali.
L’avvio del federalismo fiscale ha introdotto, fra
l’altro, un principio di responsabilità che pone i cittadini amministrati in
grado non solo di controllare direttamente i loro amministratori, ma anche di
indirizzarne e giudicarne l’operato per quanto riguarda le decisioni di spesa e
di entrata.
Gli Amministratori locali sono coscienti, a
quest’ultimo proposito, che i propri cittadini - che sono, poi, i propri
elettori - pretendono una qualità sempre migliore dei servizi resi dal comune.
Gli stessi sanno anche che porre mano a tali miglioramenti richiede maggiori
risorse, il cui reperimento attraverso aumenti dei tributi non sarebbe, però,
gradito dai cittadini. Si viene così a determinare per essi il dilemma che non
migliorare i servizi o migliorarli scaricandone i costi sui cittadini fa
perdere il consenso degli elettori.
Non rimane loro che una sola “via d’uscita”:
recuperare le risorse economiche necessarie attraverso una corretta e oculata
gestione delle entrate e delle uscite e, soprattutto, acquisendo una propria
capacità di combattere l’evasione tributaria attraverso il potenziamento delle
attività di accertamento dei tributi locali, in modo da aumentarne la base
imponibile.
Conoscendo l’attuale carenza organizzativa degli
uffici tributi degli enti locali, che non sono opportunamente dimensionati, né
a livello tecnologico né a livello di organici, è facilmente prevedibile quali
sono le conseguenze che si stanno determinando in ciascun ente in assenza di
una struttura valida che assuma alcune importanti e peculiari attività.
Di fatto, in molti comuni la evasione da riscossione
sta subendo una forte incentivazione, determinando per i comuni che ne sono
interessati forti contraccolpi sul piano della gestione economica.
Peraltro, le problematiche accennate non possono,
per una questione di costi, trovare soluzione attraverso la istituzione,
all’interno o all’esterno di ciascun ente locale, di appositi servizi o di innumerevoli
strutture analoghe sparse sul territorio nazionale. Non sembra, fra l’altro,
siano positivi i risultati ottenuti dagli enti che, per risparmiare sulla
remunerazione del servizio, hanno affidato l’attività in appalto a società
private, le quali, essendo compensate con un aggio sulle somme accertate,
avrebbero operato con eccessiva “disinvoltura”, provocando un incremento del
contenzioso tributario, cosa che, anche per motivi elettorali, gli
amministratori locali non gradiscono affatto.
Fatte le dovute considerazioni, l’unica scelta
valida, a nostro avviso, rimane il riferimento all’attuale sistema di
riscossione.
Questo nostro convincimento non è dettato soltanto
dalle opportunità economiche che, in termini di costo del servizio,
deriverebbero agli enti in argomento dalle economie di scala prodotte
dall’utilizzo, sull’intero territorio nazionale, del comparto esattoriale, ma
dalla consapevolezza che, in assenza di una valida, affidabile ed efficiente
struttura di gestione amministrativa coordinata dei tributi, si correrebbe il
rischio tra qualche anno di commentare il fallimento del decentramento fiscale
e di dibattere sul perché gli enti territoriali non siano stati in grado di
dargli concreta attuazione.
Sarebbe opportuno, a tale proposito, che, ferma
restando la titolarità esclusiva dell’imposizione tributaria in capo agli enti
territoriali – come previsto, peraltro, dalle norme che disciplinano il
federalismo fiscale – si consentisse all’attuale sistema di riscossione di
offrire alle regioni ed agli enti locali una sorta di “servizio chiavi in
mano”.
Si tratterebbe, in pratica, di un servizio completo, attrezzato sia per curare le entrate e le uscite per tutti gli enti impositori territoriali, attraverso l’attività di riscossione e l’assunzione, sull’intero territorio nazionale, del servizio di tesoreria, sia per collaborare con gli uffici tributi degli enti medesimi nella lotta alla evasione, fornendo ad essi l’elenco dei cittadini inadempienti ai loro obblighi tributari, individuati attraverso un controllo informatico operato, mediante l’incrocio di dati, dalle strutture del Consorzio nazionale dei concessionari, il quale fa parte integrante del sistema di riscossione ed è presente, con strumenti tecnologici all’avanguardia, in gran parte delle regioni del nostro paese.
Il sistema proposto potrebbe, inoltre, considerata
la sua unicità gestionale su tutto il territorio nazionale, adottare il più
possibile criteri e procedure operative omogenee, semplificando, ove possibile,
gli adempimenti a carico dell’ente e dello stesso cittadino contribuente e dare
vita a un flusso continuo di informazioni, dalla periferia al centro e
viceversa, su tutti i dati fiscali interessanti le basi imponibili o i tributi
oggetto di analisi.
Tale unicità di gestione risulterebbe
particolarmente utile ai fini della comunicazione della sintesi dei dati
tributari di tutti gli enti territoriali, indispensabile, per esempio, al
governo per la elaborazione, di volta in volta, dei documenti di programmazione
economica e per la definizione della legge finanziaria.
Questa nostra proposta non è nuova. L’abbiamo
elaborata nell’anno 1995, affinandola negli anni successivi. Sappiamo, fra
l’altro, che essa è condivisa dai
Concessionari e dalla loro Associazione Nazionale, i
quali, però, ragionando ancora in termini di monopolio e non da veri
imprenditori, non intendono assumere per essa impegni precisi, soprattutto sul
piano degli investimenti, temendo di non riuscire a perseguire i risultati che
si propongono, a causa della forte concorrenza che viene, per l’aspetto
specifico, dalle tante aziende che si sono immesse sul mercato, aziende “nate
dal nulla”, certamente prive della esperienza, delle capacità e
dell’affidabilità proprie del sistema di riscossione, ma abilissime nello ”abbindolare” i comuni con
offerte del servizio a costi talmente contenuti che non potrebbero essere
assolutamente praticati dal settore esattoriale.
Anche in tale contesto il Sindacato è impegnato
fortemente nell’offrire alle aziende concessionarie ulteriori contributi.
La categoria sta rinnovando il proprio contratto
nazionale, per il quale le organizzazioni sindacali, ferma restando la loro
volontà di mantenere la disciplina normativa ed economica acquisita dai
lavoratori bancari, si sono impegnate ad ampliare notevolmente, nel nuovo CCNL,
le flessibilità.
L’intento del Sindacato è di fornire alle aziende
del settore strumenti che possano agevolarle nel superare la paventata
concorrenza e, quindi, di convincerle della opportunità di assumere l’iniziativa
proposta, utile per incrementare le attività e la redditività del settore e,
quindi, per garantire quelle certezze di prospettiva che il settore ricerca
affannosamente e che sono indispensabili soprattutto per garantire
l’occupazione a quanti dei circa 5000 lavoratori del settore, dichiarati in
esubero dalle aziende, non sono in possesso dei requisiti per usufruire del
cosiddetto “Fondo esuberi”, ancora in fase di esame per il comparto
esattoriale.
E’ evidente che in mancanza di risultati sul piano indicato,
torneremo a chiedere e a pretendere - e lo faremo insieme con tutti i
lavoratori e le lavoratrici della categoria - le certezze in termini di
prospettive a tutti quei soggetti che noi consideriamo direttamente
responsabili della situazione.
Torneremo, cioè, a pretendere il tavolo di confronto
- già chiesto da tanto tempo, ma mai ottenuto - con il Governo, titolare del
servizio di riscossione dei tributi erariali, con l’Associazione degli enti
territoriali, destinatari dei tributi locali, con l’ABI, considerato che il 97
per cento delle concessioni è di proprietà di aziende bancarie, con
l’Ascotributi, che è la diretta rappresentante nazionale dei concessionari.
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Il rinnovo contrattuale nel settore bancario
Il
31 Dicembre 2001 scadrà il Contratto collettivo 11 Luglio 1999.
La
stagione congressuale che si apre, coincide pertanto con il rinnovo del CCNL e
il dibattito tra i lavoratori e nelle strutture Uilca ne affronterà i temi
portanti.
Spesso
l’aggettivo “storico” è stato usato a sproposito, ma nel caso del contratto
attualmente in vigore, le novità sono state tante e tali che forse potremmo
utilizzarlo per definirne compiutamente il senso di discontinuità rispetto al
passato.
Le
grandi innovazioni contrattuali hanno investito tutti i temi più rilevanti del
rapporto di lavoro, dall’area contrattuale alle relazioni industriali, dagli
inquadramenti, con la costituzione della categoria dei quadri direttivi, alla
riforma dell’orario di lavoro, dalla riforma della retribuzione alla
formazione, dal part time al telelavoro.
La
novità politica che ha caratterizzato l’attuale CCNL è costituita dalla doppia
unificazione contrattuale: ABI – ACRI e funzionari – impiegati. Questo ha
comportato un lavoro di stesura dei testi contrattuali particolarmente
complesso, sia per l’armonizzazione in sé dei precedenti quattro contratti, sia
per la novità costituita dal nuovo tavolo unitario composto da sette
organizzazioni sindacali. Se a questo aggiungiamo la “tentazione” di spuntare
il meglio di ognuna delle quattro normative, promossa in primis dalla
controparte, con il testo del 28 Febbraio 2000 e rilanciata dal Sindacato con
le sue controproposte, allora comprendiamo meglio perché sono stati necessari
tredici lunghi mesi di trattativa per giungere il 23 Marzo 2001 alla
stipulazione del testo coordinato.
Il
lavoro svolto consente oggi di orientare con chiarezza gli obiettivi e i temi
del rinnovo.
Va
innanzi tutto affrontata un’analisi di scenario economico e sociale del
prossimo quadriennio, con particolare riferimento alle possibili linee di
cambiamento organizzativo e produttivo del sistema bancario italiano. Definito
il contesto, le direttrici della piattaforma potranno trovare un’adeguata
congruità con i processi di cambiamento in corso, correlando così la
valutazione di andamento e prospettive economiche del settore con il
miglioramento delle condizioni sociali ed economiche delle lavoratrici e dei
lavoratori bancari.
Esaminiamo
dunque lo scenario per trarre utili indicazioni per il nostro lavoro.
A
differenza di quanto appariva tra il 1996 e 1997, con aziende quasi sull’orlo
del fallimento e il resto del settore che denunciava crescenti difficoltà, i
bilanci 2000 delle banche si iscrivono di diritto nei migliori della loro
storia e il 2001 appare, salvo qualche eccezione, indirizzato a consolidare e
superare i risultati precedenti.
Possiamo
sicuramente affermare che l’emergenza è ormai alle nostre spalle e ne usciamo
bene, avendo oggi un efficace strumento di tutela sociale quale il fondo di
sostegno al reddito e all’occupazione.
Persistono
ancora circoscritte difficoltà in qualche azienda che non riesce ad uscire da
situazioni endemiche di crisi, per evidenti e consolidate incapacità
manageriali, ma nel suo complesso il sistema bancario ha fornito buona prova di
sé in tutte le sue componenti e a noi piace sottolineare che il risanamento è
avvenuto grazie, in particolare, alle capacità professionali delle lavoratrici
e dei lavoratori.
E’ a loro che si devono i risultati ottenuti,
spesso in condizioni di disorganizzazione, superficialità e improvvisazione. A
maggior ragione ancora più importanti.
Questo
dovrà essere tenuto in debito conto nella articolazione della rivendicazione
salariale nazionale e aziendale.
Quali
sono le prospettive?
I
maggiori centri di ricerca nazionali e internazionali, pur rivedendo alcune
ottimistiche previsioni dei mesi passati, assegnano all’Europa e all’Italia uno
sviluppo crescente, con un progressivo calo dell’inflazione. Questo per il
sistema bancario significa che i prossimi anni potranno continuare ad essere
anni positivi in quanto sia la domanda di credito che le disponibilità
finanziarie seguiranno l’andamento di ciclo positivo e contribuiranno ad
incrementare la redditività di sistema.
Se
poi saranno realizzati i previsti interventi in campo fiscale, che dovrebbero
ridurre la pressione sul sistema, attraverso la modifica dell’IRAP e dell’IRPEG
e gli effetti sperati dalla Tremonti-bis, che questa volta sono destinati anche
alle banche e alle assicurazioni, nuove risorse saranno disponibili per
programmi di investimento sia sul capitale fisso che sul personale, sotto forma
di formazione e sviluppo professionale.
Salvo
accadimenti imprevedibili, la congiuntura favorevole influirà positivamente sui
conti economici del sistema, che potrà così consolidare anche i suoi processi
di riposizionamento e riorganizzazione.
La
vera sfida competitiva, in un mercato in espansione, si giocherà pertanto sulle
scelte di modello organizzativo e produttivo.
Già
da alcuni anni il dibattito teorico si è confrontato su moduli organizzativi
fortemente differenziati. Chi non ricorda il profluvio di parole spese sulla
superiorità del Gruppo Polifunzionale, rispetto alla Banca Universale?
Oggi
possiamo affermare che l’unica certezza consiste nel fatto che, almeno finora,
in Italia e in Europa non si è imposto un modello vincente, ma si confrontano
soluzioni alternative orientate ad una razionalizzazione dei costi ovvero ad
una maggiore efficacia di risultato.
Il
big bang organizzativo, che include anche la nascita di canali differenziali,
quali internet e banca telefonica, non ha ancora dispiegato i suoi effetti in
modo tale da determinare una chiara previsione dei fabbisogni professionali e
formativi (è in corso, a questo proposito, una ricerca di Enbicredito, l’Ente
nazionale bilaterale di promozione della formazione, che si concluderà nel Marzo
2002).
Sono
però già prevedibili diminuzioni di fabbisogno nelle aree tradizionali
amministrative, quali il back office, l’elaborazione dati; anche per quello che
riguarda aree operative a minor valore aggiunto, sono previsti minori occupati.
Allo stato non sembra concluso il processo di diffusione territoriale, che
prosegue a caratterizzare le strategie di presidio fisico del mercato.
Un
sistema bancario che procede con prudenza sulla strada dell’innovazione,
mantenendo o incrementando i suoi punti di forza tradizionali, determinati
dalla “potenza di fuoco” consentita dalla diffusione della rete.
La
recente scoperta dell’apporto significativo che i ricavi da servizi hanno
costituito per le aziende migliori, ha moltiplicato gli sforzi per incrementare
la quota di tali ricavi nel conto economico. Spesso andando a intercettare
gestori con portafoglio annesso. Lo spettacolo un po’ avvilente di vere e
proprie aste dei bancari con portafoglio, testimonia che il livello di
concorrenza quantitativo si sta facendo sempre più aspro; le pratiche di scippo
della clientela (deleterie per chi le subisce, ma non così convenienti per chi
le attua), dovrebbero essere escluse dai codici deontologici delle aziende e
l’ABI dal canto suo dovrebbe promuovere forme di autoregolamentazione del
mercato interno del lavoro tali da scoraggiarle definitivamente.
Indipendentemente
dal modello organizzativo adottato, le necessità formative sono cresciute sia
in termini di qualità che di quantità.
Il
prossimo contratto dovrà tenerne conto, magari introducendo il “credito
formativo personale”, una sorta di conto corrente formativo individuale, in cui
confluiscono le ore di formazione contrattuali non effettuate nell’anno, che
possono essere “spese” anche successivamente, in modo tale da rendere effettiva
la formazione permanente.
E’
stato recentemente costituito da Cgil, Cisl, Uil e Abi, Ania Confcommercio e
Confetra il For.Te, Fondo paritetico interprofessionale del terziario, che,
utilizzando i fondi previsti dalla Legge n.388/2000, promuove e finanzia piani
formativi aziendali, territoriali e settoriali di e tra imprese, concordati tra
le parti.
Al
fine di sviluppare l’azione dell’Ente bilaterale per la formazione, Enbicredito,
nel prossimo contratto occorrerà individuare una specifica forma di
finanziamento, per esempio 1.000 lire al mese per addetto, per consentire
all’Ente di sviluppare programmi di promozione della formazione.
L’andamento
delle relazioni industriali nel settore ha forti elementi di discontinuità e in
molte aziende ancora con aspetti in chiara contraddizione con gli accordi
contrattuali.
Un
sistema di relazioni efficienti, esigibili, concrete e produttive è alla base
del nostro convincimento politico-sindacale.
Il
lavoro di questi ultimi quattro anni con l’ABI è stato obiettivamente
produttivo.
Il
fondo di sostegno al reddito, il contratto collettivo, la costituzione
dell’Enbicredito, l’apertura della CASDIC (la cassa mutua del personale direttivo)
a tutto il personale, il nuovo accordo sullo sciopero in attuazione della legge
83/2000, la stesura del testo contrattuale, il contratto dei dirigenti (firmato
per la prima volta, anche se per adesione, da tutti i sindacati), sono stati
gli elementi portanti dell’attività svolta.
Nelle
aziende si sta procedendo alla stipula dei contratti integrativi, pur tra
qualche difficoltà e inevitabili tensioni.
Quello
che finora non è stato ancora “digerito” nelle aziende è il nuovo sistema di
relazioni sindacali che, al di là degli obblighi formali più o meno rispettati,
non produce quel necessario livello di partecipazione che è fondamentale per
modificare strutturalmente il clima aziendale.
L’applicazione
delle nuove norme, in particolare per quello che riguarda la nuova categoria
dei quadri direttivi, ha esordito nel peggiore dei modi possibili. Le procedure
di consultazione si sono limitate a mera informazione, salvo rare eccezioni in
cui il dialogo tra le parti ha prodotto un accordo.
L’introduzione
della nuova categoria ha risentito anche del clima sindacale dei giorni del
contratto, determinando un risultato non soddisfacente. La duplicazione delle
normative, con un sistema a doppio binario va superata, uniformando le
condizioni per tutti i quadri direttivi.
Anche
l’opzione su quattro livelli retributivi appare insufficiente e
contraddittoria, occorrerà articolare meglio tale struttura.
In
materia di prestazione lavorativa, le soluzioni adottate non appaiono del tutto
gestibili e andrà riformulato tutto il capitolo.
Su
questi temi sarà necessaria una approfondita riflessione.
Il
nuovo assetto dell’orario di lavoro delle aree professionali va ulteriormente
sperimentato, per valutare gli adattamenti necessari.
E’
utile però una riflessione sulla banca ore. Si potrebbe uniformare il primo e
il secondo scaglione, lasciando l’opzione al lavoratore tra retribuzione o
recupero; naturalmente per chi sceglie le 37,30 ore settimanali, la dotazione
di 23 ore rimarrebbe come recupero, mantenendo inalterato il meccanismo.
Potremmo
adottare anche soluzioni di accumulo delle ore, da usare in occasioni
particolari (eventi familiari, interessi formativi, riposo aggiuntivo), senza
ipotizzare cioè una scadenza del credito di ore, oppure un termine per
l’utilizzo, alla scadenza del quale è prevista la retribuzione dello
straordinario.
Certamente
dobbiamo migliorare questo strumento.
La
riforma della retribuzione appare completata, avendo realizzato gli obiettivi
di semplificazione e di trasparenza.
Gli
aumenti salariali dovranno tenere conto del differenziale di inflazione,
recuperando tutto il potere d’acquisto pregresso. Occorrerà intervenire sulla
scala parametrale dei primi due livelli retributivi dei quadri direttivi, per
armonizzarne i trattamenti con quelli superiori.
Il
nuovo contratto dovrà occuparsi anche di nuovi diritti.
In
una recente ricerca scientifica sul mobbing, i bancari, gli assicurativi, gli
addetti alle nuove tecnologie, figurano ai primi posti come vittime di questo
odioso strumento di pressione.
Il
Sindacato è chiamato urgentemente ad occuparsi di questi temi, prevedendo una
apposita disciplina anti-mobbing, che riprenda i contenuti del disegno di legge
presentato da Giorgio Benvenuto nella passata legislatura.
La
nostra Organizzazione ha avviato per prima un approfondito studio sul mobbing,
dibattuto in molti convegni. Questo nostro lavoro è ora disponibile per una
rivendicazione unitaria.
Ma
dobbiamo andare oltre.
Tra
le cause di maggior malessere dei lavoratori, quelle più ricorrenti sono dovute
alle pressioni produttivistiche delle aziende, che nei loro piani industriali
postulano crescite senza fine, senza mai occuparsi e preoccuparsi di chi quegli
obiettivi è chiamato a realizzare, accompagnando questi piani di crescita con
una costante riduzione di occupati.
Lo
sfruttamento della forza lavoro ha superato in molte aziende il livello di
guardia.
Carichi
e ritmi di lavoro intollerabili, continue pressioni sui dati e risultati,
stanno producendo danni enormi sulla salute psicofisica dei nostri colleghi.
Il
profitto deve iniziare a fare i conti con il diritto a lavorare in modo umano.
I
piani industriali dovranno contenere delle clausole sociali che rispettino
l’integrità delle persone e questo dovrà trovare esplicita pronuncia nel nuovo
contratto di lavoro.
E’
meglio un punto in meno di Roe che mille esaurimenti nervosi in più!
La
Uilca ha proposto nella recente riunione del Comitato Banche e Assicurazioni
dell’UNI, la nostra organizzazione internazionale, l’adozione del “benchmark
sociale”.
Uno
strumento per verificare i comportamenti sociali delle aziende. Sarà formulato
un questionario riservato alle R.s.a., in cui saranno descritti i comportamenti
delle aziende. Le aziende che supereranno gli standard minimi otterranno un
certificato di qualità sociale, quelle che non rispettano gli standard minimi,
saranno segnalate come aziende socialmente a rischio e si avvieranno specifiche
iniziative per migliorare “il clima aziendale”.
Chiederemo
all’Unione Europea e alle controparti di collaborare a questo progetto,
finalizzato a misurare la qualità della vita nelle aziende.
Il
rispetto del contratto non è elemento sufficiente per poter affermare che
un’azienda ha un atteggiamento socialmente positivo. Il rispetto della dignità
della persona è un’altra cosa.
Non
si compra con budget ed incentivi, non ha un prezzo che può essere fissato da
capi del personale improvvisati.
Il
prossimo anno inizierà con l’introduzione dell’Euro e la progressiva scomparsa
della vecchia liretta. La doppia circolazione scadrà il 28 Febbraio 2002. I
bancari saranno chiamati a sostenere l’impatto del cambio di moneta, con
prevedibilissimi aumenti di straordinari e di rischi.
Fin
dallo scorso luglio, abbiamo avviato con l’ABI la “vertenza Euro”. Un pacchetto
di misure su tre filoni: formazione, sicurezza e trattamento economico.
La
trattativa dovrà concludersi al più presto in modo soddisfacente per consentire
di affrontare i prossimi mesi con la serenità necessaria.
Il
prossimo contratto non sarà rivoluzionario.
Dovremo
fare su alcune, limitate, materie alcuni aggiustamenti e introdurre
miglioramenti ad attuali normative, introducendo il capitolo dei nuovi diritti.
Pensiamo
ad una piattaforma rivendicativa snella e ad una conseguente rapida
consultazione della categoria, per avviare le trattative in tempi brevi,
possibilmente prima della scadenza del contratto.
La
stagione dei rinnovi contrattuali cade però in una fase di clima politico e
sociale particolarmente complessa e delicata.
I
boatos estivi di molti esponenti della maggioranza di Governo, lasciano
presagire, se non sarà velocemente invertita la rotta, un autunno di scontri e
di lotte, in difesa di un modello di civiltà sociale conquistato dalla nostra
democrazia in oltre cinquanta anni.
La
UIL ha sempre avuto come stella polare della sua azione la ricerca del dialogo,
del confronto. Ha elaborato e imposto un modello di relazioni industriali
basato sulla concertazione, sulla responsabilità consapevole, sul
contemperamento degli interessi particolari con quelli generali del Paese.
E’
una politica cui non vogliamo rinunciare, almeno se non costretti dalla
evidente volontà delle parti, Governo e imprenditori, volta a ritornare a
momenti bui del clima sociale e politico del Paese.
Lo
sviluppo dell’economia deve accompagnarsi con lo sviluppo della democrazia
nell’economia.
Va
perseguita la diffusione del benessere, facendo sentire tutti più sicuri del loro
presente e del loro futuro.
La
nostra azione di Sindacato dei lavoratori sarà determinante per non far perdere
la rotta al nostro Paese.
Ognuno
di noi ha su di sé la responsabilità di contribuire alla costruzione di un
sistema economico e sociale nazionale e mondiale più giusto, più democratico,
più umano.
La
UILCA sente questa responsabilità e intende onorarla.
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Il rinnovo contrattuale nel settore assicurativo
L’ultimo
rinnovo del Contratto Collettivo Nazionale è stato caratterizzato da una
trattativa estremamente lunga (due anni di negoziato) e complessa che ha visto
il tentativo esplicito dell’Ania di
vanificare l’area contrattuale attraverso il ricorso indiscriminato
dell’esternalizzazione del lavoro assicurativo senza regole anche attraverso la
rimessa in discussione di garanzie
contrattuali acquisite.
L’atteggiamento fermo, unitario e responsabile del
sindacato ha bloccato il tentativo
imprenditoriale e l’esito contrattuale si può considerare con un saldo politico
generale largamente positivo.
Insieme al mantenimento dell’area contrattuale sono
state peraltro introdotte nuove e significative forme di flessibilità e numerosi sono stati i demandi aziendali che hanno decentrato
poteri alle R.S.A su materie
importanti.
Inoltre si sono ottenuti alcuni istituti importanti
quali l’Ente Bilaterale per la Formazione Assicurativa e il Fondo di settore
per gli esuberi di personale fondato
sulla volontarietà delle uscite.
Il prossimo CCNL, oltre a rafforzare e consolidare
il patrimonio di diritti e garanzie acquisite nel corso degli anni dai
lavoratori del settore dovrà riconfermare la difesa e l’ampliamento dell’area
contrattuale, con la conseguente tutela dell’occupazione e porsi l’obiettivo
di un concreto recupero del potere
d’acquisto dei salari, poiché l’effetto inflazione combinato con la crescita
della pressione fiscale ha portato ad un arretramento delle retribuzioni medie
dei dipendenti.
In questa direzione si pone il problema di una più
equa ridistribuzione della ricchezza
prodotta dal settore che, oltre a remunerare il capitale, deve anche
gratificare il personale che è parte importante nel raggiungimento degli
obiettivi delle Compagnie.
La
contrattazione nazionale dovrà porsi inoltre anche la questione delle nuove
professionalità emergenti che interessano i colleghi più giovani e che stentano
a trovare spazio adeguato negli attuali inquadramenti e sviluppare una approfondita riflessione sulla figura professionale dei liquidatori
sinistri che rappresentano un tassello importante del servizio
assicurativo il cui ruolo non è
adeguatamente valorizzato dalle imprese assicurative.
Nel mese di giugno si è raggiunta l’intesa per
il CCNL delle Agenzie di Assicurazione e per la prima volta ha visto allo
stesso tavolo le due rappresentanze padronali: SNA e UNAPASS.
Il contratto ha avuto un esito positivo sia in
alcune importanti parti normative che nella parte economica grazie anche alla riparametrazione
delle tabelle salariali.
Rimangono in sospeso nodi importanti i quali si sono demandati ad apposite commissioni
di studio per addivenire ad un progetto che possa andare a normare situazioni
molto vecchie (produttori d’agenzia L. 1939) e situazioni nuove (ad esempio, addetti alla vendita di
prodotti bancari “standardizzati”, cassa malattia di settore ..ecc..).
Contemporaneamente si è aperto un tavolo di
confronto fra SNA-UNAPASS e le Segreterie Nazionali, con lo scopo di avviare un
dialogo politico con l’ANIA e le varie Compagnie, per salvaguardare la
sopravvivenza e sviluppo delle Agenzie e quindi dell’occupazione nel Settore.
Il CCNL AISA, biennio economico, non ha trovato
invece una soluzione definitiva rimanendo in attesa di risposta interpretativa
dal Ministero per quanto concerne l’aggiornamento della parte economica del
tasso d’inflazione maturato prima di riaggiornarlo con i tassi programmati
d’inflazione.
Un altro problema sorto è la fusione di ACI 116
(settore trasporti) con Ala Service ai dipendenti della quale vorrebbero
applicare il CCNL AISA; permane
sull’argomento scontro politico fra le Organizzazioni Sindacali dei Trasporti
(soprattutto gli autonomi) e la parte Imprenditoriale. Le Parti stanno cercando
una soluzione aziendale.
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Le Pari Opportunità rappresentano per il sindacato
un terreno strategico che richiede capacità di analisi e di elaborazione per
trasferire sul piano dei risultati concreti a favore delle donne e degli uomini
i contenuti legislativi e contrattuali.
Si tratta di proseguire con sempre maggiore energia,
determinazione e capacità di elaborazione nella direzione del superamento di
tutte le forme di discriminazione nel mondo del lavoro bancario, esattoriale e
assicurativo.
Il sindacato deve sviluppare un livello alto di
iniziativa nella promozione della parità tra uomini e donne
in relazione alle opportunità sul mercato del lavoro e sulle condizioni di
lavoro in un’ottica tesa a conciliare vita familiare e vita lavorativa per
uomini e donne.
In tale direzione vanno non soltanto le direttive europee e il trattato di Amsterdam ma anche la legislazione italiana ed in particolare la legge 125/91.
La valorizzazione delle “differenze di genere” in una prospettiva che tenga conto, valuti e dia riconoscimento alle persone sulla base di una scala di valori equa e non discriminante, è un obiettivo non ancora raggiunto nella nostra società.
Le politiche di Pari Opportunità devono diventare
una questione trasversale di interesse collettivo di donne e uomini impegnati
nell’Organizzazione per la realizzazione del nostro compito di rappresentanza e
rappresentatività, di portatori di una cultura dei diritti e delle libertà per tutte e per tutti che valorizzi tutte le componenti del mondo
del lavoro.
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Nel Paese è in atto un serrato confronto sul tema
delle pensioni.
Alle posizioni strumentali di quanti vorrebbero
smantellare il nostro sistema di previdenza obbligatoria – Confindustria e la
parte ultra liberista del Governo – il sindacato e la Uil in particolare,
concorda invece con quelle misure che nell’ultimo decennio hanno portato alla
ristrutturazione del cosiddetto primo pilastro della previdenza.
In particolare vi è stato, accanto ad un
ridimensionamento del diritto ad usufruire delle pensioni di anzianità
unificando in buona parte tale diritto, il passaggio graduale all’interno del sistema di finanziamento basato sulla
ripartizione, dal calcolo delle pensioni col metodo retributivo al calcolo
delle stesse col metodo contributivo che corrisponde meglio all’apporto che
ogni lavoratore ha personalmente dato al sistema previdenziale obbligatorio.
Quest’operazione che obbiettivamente riduce la
copertura previdenziale dei singoli si è resa necessaria per meglio equilibrare
un sistema, quello della ripartizione, che si basa sulla solidarietà
intergenerazionale, che fa si che le pensioni vengano pagate con i contributi
di quanti oggi lavorano.
Questo ridimensionamento della previdenza
obbligatoria, seppur necessario, ha evidenziato la necessità di creare, per i
futuri pensionati, un sistema complementare – il cosiddetto secondo pilastro –
che in qualche modo integri il sistema nazionale evitando che il passaggio
dallo stato di lavoratore a quello di pensionato comporti un pesante
ridimensionamento del tenore di vita.
Per tale
ragione vi sono stati una serie di interventi legislativi che hanno
permesso, negli ultimi anni, l’istituzione di Fondi ad opera delle parti
sociali di ogni singola categoria di lavoro.
Questi fondi, a differenza del sistema nazionale
obbligatorio, utilizzano, e non poteva essere altrimenti, il sistema di
finanziamento basato sulla capitalizzazione individuale, dove i risparmi di
ogni singolo lavoratore, opportunamente investiti, producono una rendita
vitalizia che si andrà a sommare alla pensione pubblica al momento della messa
in quiescenza.
Ci ritroviamo quindi ad avere due pilastri
pensionistici: la previdenza nazionale obbligatoria a ripartizione e quella
complementare volontaria a capitalizzazione.
Due sistemi che bene si coniugano garantendo il
primo un livello minimo che il secondo potrà essere in grado di integrare
adeguatamente.
Senza entrare nel tecnico, è evidente che per far
funzionare adeguatamente tutto ciò bisognerà che la previdenza complementare
sia opportunamente incentivata migliorando (alleggerendo) il relativo sistema
fiscale in fatto di contributi, tassazione degli utili del fondo e trattenute
della pensione complementare erogata.
Nella nostra categoria la previdenza complementare
già esiste, in varie forme, a livello aziende.
Fermo restando l’obbligo di legge del sistema a
capitalizzazione per gli assunti dal 28 febbraio 1993, nella maggioranza delle
banche le fonti istitutive hanno trasformato il fondo stesso in fondo a
capitalizzazione individuale, ma tuttavia permangono ancora casi che adottano
il sistema della prestazione definita.
E’ in quest’ottica di un ruolo sempre maggiore della
previdenza complementare, che abbiamo
deciso di riorganizzare tale nostro settore interno.
La nostra iniziativa si rivolge a quanti nella Uilca
sono interessati all’argomento ed in particolare a coloro che contrattano le
condizioni del fondo con la controparte aziendale e coloro che sono chiamati a
far parte degli organi statutari dei fondi.
E’ nostra intenzione seguire due indirizzi: uno
informativo e di consulenza; l’altro formativo dei quadri di cui sopra.
Per quanto riguarda il primo aspetto, ci
organizzeremo allo scopo di fornire risposte immediate ai nostri quadri sui
problemi correnti avvalendoci del contributo di nostri quadri particolarmente
esperti del problema.
Nel contempo studieremo il modo per coadiuvare le
nostre strutture sui problemi più complessi in termini legali, fiscali e
attuariali.
Per fare ciò dovremo necessariamente rivolgerci
all’esterno utilizzando di volta in volta dei professionisti.
Per l’altro indirizzo, la formazione, faremo seguito
al seminario tenuto in luglio a Roma e a tal fine abbiamo concordato con lo
stesso docente, professionista del
settore, un certo numero di giornate formative che saremo in grado di tenere in
tempi relativamente brevi compatibilmente con lo svolgimento delle fasi
congressuali.
Il corso sarà articolato in tre giornate.
Nella prima, propedeutica alle altre due, si farà il
punto della situazione per portare a conoscenza comune le peculiarità dei
singoli fondi.
Questa giornata servirà quale momento di discussione
e socializzazione di esperienze diverse e sarà utile per meglio tarare gli
argomenti oggetto delle successive giornate.
La seconda giornata partendo dai problemi
evidenziati nella prima approfondirà i problemi legati ai contributi e alle
prestazioni.
La terza ed ultima giornata sarà destinata
esclusivamente a coloro che ricoprono cariche negli organismi statutari
preposti e affronterà le questioni gestionali del Fondo.
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Il progetto di
formazione nazionale.
Nell’era della globalizzazione e della
competitività, la chiave di
lettura per interpretare e gestire la
realtà che riguarda anche i nostri tre settori non può prescindere dal fattore
“complessità”.
Si assiste ad una serie continua e spesso contraddittoria di riprogrammazione degli
obiettivi e degli assetti
organizzativi.
Cambiano le priorità all’interno delle aziende
sotto la spinta della necessità e contemporaneamente viene richiesta una sempre maggiore disponibilità ad
investire energie ed impegno alle persone che vi lavorano per affrontare
tali cambiamenti.
Su questo
terreno e nel tempo, misure
legislative, accordi tra le parti sociali e contrattazione di categoria hanno
assegnato sempre più ampi spazi d'intervento ai sindacati che tali persone rappresentano. (E’ di tutta evidenza la grande enfasi posta,
da ambedue le parti trattanti
nell’ultimo contratto sia dei bancari sia degli assicurativi, sulla formazione e sullo sviluppo
professionale).
Questo processo di responsabilizzazione in tema
di competenze e conoscenze, che riguarda aziende e lavoratori, non può che
coinvolgere anche il sindacato. E’ indispensabile anche per esso porsi il problema di una formazione dei propri
quadri adeguata e coerente con la realtà che è chiamato ad affrontare, di
favorire modalità di pensare per progetti e per processi, di dar valore e
sviluppare l’apprendimento continuo, partendo dalla consapevolezza di ciò che si è e di ciò che si conosce per arrivare a ciò che si può essere e ciò che si può sapere.
Tale scelta non può che imprimere maggiore
efficacia sia all’azione diretta di tutela, rappresentanza e di contrattazione, sia al coordinamento
d'interessi ed esigenze che tendono sempre più a diversificarsi: donne e
uomini, giovani e meno giovani, per livelli e famiglie professionali.
E’ una sfida, difficile ma non impossibile,
essendo tutto ciò da sempre presente come patrimonio nella UIL C.A. e nella UIL
nel suo insieme. E non può che rafforzarne
l’identità, da sempre responsabilmente attenta all’evolversi della società ed ai bisogni di tutti i
cittadini.
Risulta quindi chiaro che l’interesse a questo cambiamento di
cultura, atteggiamento mentale e
comportamenti, all’interno delle nostre aziende, non può che essere reciproco e
vedere coinvolte ambedue le parti
sociali. Non sottovalutando che in simili processi è comunque necessario fare i
dovuti conti con le resistenze al
cambiamento presenti in ogni tipo di organizzazione.
Il passo successivo, per noi, è poter realizzare
tali progetti contrattuali, non nascondendoci le difficoltà per gestire le
scelte fatte, consapevoli di quanto le nostre controparti siano determinate nel
gestirle unilateralmente.
Questo nulla toglie alla validità di un
atteggiamento che cerchi di leggere la realtà senza schemi precostituiti
accettando la sfida in atto con il convincimento che contenga
comunque al proprio interno delle opportunità, che vanno sfruttate.
Per svolgere appieno un ruolo di questo tipo, è necessario acquisire e saper utilizzare, anche attraverso appositi momenti formativi specifici al nostro interno, professionalità e competenze sia nella parte tecnico/progettuale di attività formative, sia nella più delicata fase delle dinamiche di confronto che la precedono e la accompagnano.
Si tratta di farne tesoro di esperienza,
socializzandoli all’interno di tutta la Organizzazione, vivendoli
appieno come momenti di crescita
culturale e di capacità contrattuale, al
fine di accelerare il processo di
acquisizione di abilità sempre più
coerenti con il mutevole scenario, sia come singolo soggetto trattante che come
organizzazione nel suo complesso.
Formazione, quindi, come terreno privilegiato di condivisione di obiettivi, comunanza di linguaggio e terreno per gestire il dialogo tra le parti sociali.
Abbiamo visto come, con il contratto, il sindacato sia riuscito a ritagliarsi un ruolo ricco di potenzialità di intervento nei processi del continuo cambiamento in azienda. Affinché tali processi non seguano criteri che tengano conto solo degli obiettivi definiti unilateralmente dall’azienda, con il sindacato in grado solo di reagire, talvolta confusamente o tardivamente, è necessario trasformare tali potenzialità in potere effettivo, un potere che solo la “conoscenza” può dare.
La nostra, per molti versi, può definirsi la società della “conoscenza”. Una via certa per l’emarginazione degli individui ma anche delle organizzazioni è la povertà o inadeguatezza di conoscenza.
A questo punto emerge con chiarezza come sia
inderogabile accelerare ed implementare
la formazione dei nuovi quadri
sindacali nonché di quelli già presenti nei tre comparti UILC.A,
migliorando la loro preparazione ad una cultura negoziale che sappia essere, ove ve ne siano le condizioni, anche
bilaterale.
E’ evidente, inoltre, la necessità di impegno, all’interno della UIL C.A.,
per una ricerca/monitoraggio
(continuamente aggiornabile) sui
fabbisogni formativi finalizzata alla conoscenza delle donne e degli uomini, su
cui si basano la capacità di azione e di consenso alla UIL C.A., mediante
l’analisi delle loro caratteristiche professionali sindacali, dei loro bisogni
formativi, delle loro aspettative e dei loro orientamenti.
Su tali basi conoscitive si può tarare una strategia
formativa che tenga conto anche della diversa
esperienza sindacale e personale e
che, in collegamento con le
politiche della Confederazione,
sappia identificare con più chiarezza i necessari strumenti di
sostegno e sviluppo del nuovo modello culturale e comportamentale necessario a
far fronte ai cambiamenti in atto. Tale
strategia è essenzialmente tesa al
conseguimento di due obiettivi:
- consolidare l’identità ed il senso di appartenenza all’Organizzazione dei propri rappresentanti sui luoghi di lavoro
-
- imprimere maggiore efficacia all’azione di rappresentanza tesa al raggiungimento di obiettivi condivisi
Per questo appare essenziale dotarsi di strumenti
conoscitivi in grado di consentire la tempestiva interpretazione della mutevole
realtà organizzativa, i relativi
modelli e le caratteristiche e gli effetti da questi prodotti.
Non nascondiamo inoltre la sempre più complessa
convivenza tra le diverse organizzazioni sindacali che condividono con noi
questa fase storica dove la nostra
cultura e presenza trovano momenti di non sempre facile confronto dialettico,
dove la confederalità non sempre è garanzia di un agire comune, dove dobbiamo
trovare la massima visibilità che la
storia sindacale italiana ci riconosce. Per fare tutto questo è necessario
avere gli strumenti per gestire una competitività alla quale non vogliamo e non
possiamo sottrarci.
Un'accelerazione
degli obiettivi che ci poniamo
potrà essere raggiunta anche tramite
la ricerca di percorsi formativi che
tengano conto della grossa opportunità
rappresentata dalla multimedialità, nonché di sinergie, interne ed esterne all’organizzazione.
Il concetto di “ valore” della formazione è già patrimonio acquisito della nostra organizzazione. Affrontato e ribadito più volte all’interno degli impegni congressuali e dell’ultima Conferenza di Organizzazione tenutasi a Chianciano, con la consapevolezza che fare sindacato non è soltanto una scelta etica ma anche una responsabilità sempre più alta.
E’ dunque in tal senso che è necessario dare un impulso e migliorare il nostro progetto formativo con il fine di permettere un collegamento immediato tra le scelte e le politiche dell’organizzazione e le persone che la rappresentano; consapevoli della sfida dettata dalla complessità della situazione nella quale operano.
Questo
perché la formazione assuma per i
nostri quadri, e sempre di più, la
caratteristica di “attività formativa permanente”, intesa come valorizzazione e riconoscimento della disponibilità
personale e, nel contempo, rappresenti una crescita complessiva per tutta
l’organizzazione.
L’obiettivo ambizioso che ci siamo posti trova una sua base reale nelle esperienze
già avviate al nostro interno. Infatti, sia i corsi di formazione di base
(aggiornati ed implementati) sia i due
corsi avanzati per i responsabili dei coordinamenti nazionali ed i coordinatori
regionali territoriali (frutto della collaborazione tra Ufficio Formazione ed
Ufficio Studi), hanno voluto
rappresentare un momento di crescita
per tutta la UIL C.A.
In
particolare questi ultimi hanno, senz’altro,
rappresentato un salto di qualità nella progettazione formativa,
affrontando temi specifici come i nuovi scenari a livello di settore, i
problemi connessi all’introduzione della nuova figura dei quadri direttivi, le forme di salario variabile e il mobbing.
Diventa ancora più urgente integrare il patrimonio di conoscenze ed il sapere, non disperdendolo ma arricchendolo di nuovi progetti e nuovi apporti, con l’obiettivo di fornire strumenti adeguati ai bisogni dei diversi livelli di rappresentanza di tutti i componenti della UILCA.
Si tratta ora di proseguire con coerenza e progettualità il cammino intrapreso, consapevoli dell’importanza della formazione come risorsa preziosa per affrontare al meglio le profonde trasformazioni che stiamo vivendo.
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=== Fine ===