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L'abbazia di San Quintino, faro di civiltà della Valle Bormida

Il monastero di San Quintino di Spigno viene fondato il 4 maggio 991 da Anselmo, figlio del marchese Aleramo, e dalla moglie, la contessa Gisla, con un atto stipulato presso il castello di Visone, il cui prezioso ed interessante originale si conserva ancora presso la Biblioteca "Barrili" di Savona, salvato grazie a una fortunosa vicenda archivistica.

La fondazione si inserisce nella fioritura delle istituzioni religiose in Piemonte nell'età aleramica all'indomani delle invasioni saracene; l'Italia nord-occidentale aveva infatti patito, tra l'VIII e il X secolo, le scorrerie dei Saraceni provenienti dalla costa francese, riportando gravissimi danni specialmente alle strutture religiose: il vescovo di Alba si dice infatti a quel tempo ridotto a tale povertà da dover coltivare personalmente la terra per sopravvivere e numerose furono le abbazie rase al suolo, tra cui quella di San Salvatore a Giusvalla (Savona). Proprio la distruzione dell'abbazia del Salvatore scosse gli aleramici che, appena avutane l'occasione, vollero riedificarla nella più favorevole posizione di Spigno Monferrato, sotto il titolo di San Quintino, con lo scopo preciso di contrastare la distruzione saracena e di offrire un rifugio ai pellegrini sulla via Savona-Acqui. Ed infatti la nuova fondazione fu dotata di tutti i beni già appartenuti a San Salvatore, più numerosi altri beni nelle diocesi di Savona, Alba, Acqui, Alessandria e Torino.

Protetta per lungo tempo dalla famiglia Del Carretto, allora favorevolmente accreditata presso l'impero germanico (Enrico I del Carretto signore di Savona, detto il Guercio, fu plenipotenziario dell'imperatore Federico Barbarossa e firmò per lui la pace di Costanza nel 1183), l'abbazia di San Quintino ha goduto di piena autonomia negli affari temporali relativi alla amministrazione del patrimonio, pur se con una certa discontinuità, per oltre cinque secoli, aumentando i domini terrieri ed il potere esercitato sull'intera Valle Bormida orientale. Nel 1500 una bolla del papa Alessandro VI la destinò definitivamente alla mensa vescovile di Savona, allora retta dal cardinale Giuliano della Rovere, in seguito all'abbandono da parte dei monaci benedettini avvenuto qualche anno prima.

Essa restò di proprietà episcopale ininterrottamente sino alle campagne napoleoniche in Italia del 1796, durante le quali venne in gran parte distrutta, i beni incamerati e dispersi attraverso vendite e la chiesa ridotta agli usi liturgici solo per un minimo spazio.

Con il Congresso di Vienna (1815) i resti del cenobio vengono formalmente restituiti al legittimo proprietario pre-napoleonico finché, a metà del XIX secolo, il Parlamento Subalpino ne decreta come per molti altri beni ecclesiastici l'acquisizione al demanio e la vendita all'asta: la modesta struttura restante passò quindi a privati che convertirono definitivamente e completamente l'edificio della chiesa per loro usi personali.

Attualmente quel che resta dell'abbazia di San Quintino di Spigno è raggiungibile poco fuori del paese, attraversando un ponte medioevale sulla Bormida di fattura caratteristica per queste valli, a schiena d'asino con arcate diseguali a conci di pietra locale, sormontato sul colmo da due cappellette (esempi analoghi a Millesimo, Rocchetta di Cengio, Monastero Bormida). Del vasto complesso resta solamente l'impianto esterno della chiesa, internamente divisa in due piani ed adattata ad abitazione signorile, ma esternamente caratterizzata da una indubbia impronta lombarda: in particolare la distribuzione delle lesene denuncia una chiara corrispondenza strutturale con l'organizzazione interna dello spazio ed è quindi possibile, pur se con una certa approssimazione, supporre un interno originariamente a tre navate con volte a crociera. Nel sottotetto, in corrispondenza della parete d'ingresso, si trovano tracce di un giudizio universale, mentre sul lato interno della parete destra sono visibili due figure frammentarie, resti di pregevoli affreschi databili forse al secolo XI. La facciata, con il portale murato, conserva due monofore ed un campaniletto a vela sulla sommità; risulta scandita da una rigida ripartizione della superficie che conferisce continuità con i fianchi e richiama l'austerità di certe strutture bizantine o preromaniche.

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