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L'ISOLA DI EUTHANASIUS

 Walter Catalano

 

Mircea Eliade, L’isola di Euthanasius: Scritti letterari, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2000, Pagg. 310, Euro: 23,24.

 

 

Non sono per fortuna molte le opere non ancora tradotte nella nostra lingua dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907/1986): restano preclusi ormai solo pochi lavori narrativi e qualche testo teorico giovanile più che altro in forma di articolo o recensione su rivista. A questa seconda categoria di scritti attinge la Boringhieri recuperando una raccolta di collaborazioni a vari periodici rumeni risalenti al periodo compreso tra il 1932 e il 1939, ad una fase cioè ancora relativamente acerba della produzione dell’autore in cui la sua inconfondibile prosa non si è ancora trasfusa dal nativo rumeno nelle lingue di adozione dei capolavori più tardi: il francese prima e l’inglese poi.

La versatilità e la profondità del pensiero di Eliade già si mostrano pienamente, come innegabili ‘promesse dell’equinozio’, in questi brevi testi in cui il giovane studioso si cimenta, mostrando identica padronanza, con argomenti disparati che vanno dalla critica letteraria (si affrontano autori come Huxley, Chesterton, Unamuno, Bernard Shaw, Julien Green, testimoniando anche un’approfondita conoscenza della lingua e della letteratura italiana  con trattazioni di grande originalità dedicate a scrittori classici del nostro Novecento come Italo Svevo, Gabriele D’Annunzio, Giovanni Papini) all’architettura simbolica, dall’analisi del folklore all’iconografia indiana. L’insieme apparentemente eterogeneo dei contributi, però, non ha nulla dell’enciclopedismo d’occasione ed esprime già una precisa e coerente visione del mondo che sarà propria anche delle opere maggiori e più mature di Eliade. Gli spunti letterari, artistici, iconografici o aneddotici offrono il pretesto all’autore per esporre, già ben salde e definite, le sue concezioni antistoricistiche fondate sull’ecumenicità del simbolo che pervade le culture tradizionali orientandone il più piccolo gesto ed espressione “verso una realtà transumana”.

A questo proposito, il volume contiene alcuni saggi particolarmente espliciti, come quello dedicato ad Ananda Coomaraswamy, in cui si evidenziano le influenze e le tangenze culturali, in seguito in parte rinnegate, del futuro fenomenologo delle religioni con l’ambiente del “tradizionalismo integrale” e nei quali vengono evocate più volte le figure di René Guénon e Julius Evola (1).  Altrettanto esplicite però già emergono  le differenze e le distanze fra l’aspirante accademico e gli alfieri della Tradizione: in Eliade l’aggettivo “tradizionale” è sempre utilizzato con valenza descrittiva e mai normativa come invece è d’uso nella Trimurti tradizionalista; inoltre i concetti ricavati dal pensiero tradizionalista vengono impiegati dal rumeno “in senso puramente morfologico, come categorie esplicative per comprendere la ‘metafisica arcaica’. Pertanto, egli per giustificare la presenza universale (o almeno metaculturale) di determinati simboli non fa mai riferimento alla Tradizione primordiale, né tantomeno si richiama ad un sapere ‘esoterico’ ed ‘iniziatico (2); infine niente fa pensare, già in questo primo Eliade, ad una sua accettazione della visione ciclico-devolutiva della storia, “Se Eliade giudica la concezione positivistico-meccanicistica del cosmo come un insterilimento rispetto ad una Weltanschauung arcaica, non per questo condivide la nozione guenoniana di una progressiva decadenza, anzi: a parte l’eccezione negativa della scienza e tecnologia moderne, nella storia dell’umanità ogni nuova scoperta rende possibile conquistare ‘nuovi campi di esperienza’[…] (3)“. Non secondaria è anche un’altra differenza di approccio: se la presenza metaculturale dei temi mitico-simbolici (per la cui definizione in seguito Eliade svilupperà una terminologia caratteristica debitrice più che altro degli studi di Rudolf Otto, Gerardus van der Leeuw e Raffaele Pettazzoni: coincidentia oppositorum, rottura di livello, ierofania, ecc.) esclude il ricorso alla philosophia perennis, la ragione della sua ecumenicità si riduce ad un sentimento naturale e pertanto universale, ad un “bisogno fondamentale dell’uomo”  che ovunque prova identici sentimenti ed aspirazioni. Per i tradizionalisti invece, e per Guénon in particolare, il “sentimento religioso starebbe alla base della difformità, non certo dell’identità delle religioni: “mentre l’intelligenza è una[…]la sentimentalità è composita(Guénon – Introduzione generale allo studio delle dottrine indù). Anche la nozione di autonomia del sacro e la dialettica fra sacro e profano elaborate  in seguito dall’Eliade maturo, sarebbero inquadrabili esclusivamente in una prospettiva fenomenologica in quanto per i tradizionalisti una distinzione fra sacro e profano sarebbe tipica del solo mondo moderno e non delle civiltà tradizionali. E’ comunque vero che nel saggio su Coomaraswamy come in altri di questa raccolta, Eliade mostra forse le maggiori affinità terminologiche ed interpretative con i pensatori della Tradizione di tutto il suo lungo percorso intellettuale: ad esempio concorda apertamente con lo studioso anglo-cingalese e con Guénon nell’indicare nel Rinascimento e nella rivoluzione industriale europea la cesura definitiva fra Oriente ed Occidente: “se tra cultura moderna occidentale e spiritualità asiatica non esistono punti di contatto, Aristotele. San Tommaso, Dante o Meister Eckhart fanno parte di una tradizione metafisica che l’Oriente tutt’ora condivide”.

Un altro scritto di una certa importanza per gli sviluppi teorici futuri del pensiero dell’autore a questo riguardo, è la recensione della monumentale opera di Paul Mus dedicata all’analisi dell’iconografia del tempio buddista giavanese di Barabudur. Molti dei concetti sviluppati in seguito nelle sue opere maggiori derivano allo studioso rumeno dalle riflessioni indotte dall’approfondimento di questo volume e sono già tutti abbozzati nella sua breve presentazione critica del 1937: il tempio come rappresentazione simbolica dell’universo, come “centro del mondo”, òmphalos, immagine architettonica del cosmo, quadrante regolatore dell’ordine spaziale e temporale, costruibile ovunque “poiché ovunque si poteva erigere un microcosmo di pietra e di mattoni”; i sacrifici umani compiuti durante i riti di costruzione per dare un’anima all’edificio e la leggenda rumena di Mastro Manole in cui Furio Jesi o Daniel Dubuisson e, specularmente, Claudio Mutti e Philippe Baillet, avrebbero voluto leggere inquisitoriamente le premesse mitiche della ‘mistica legionaria’ della morte e dell’ideologia guardista mai rinnegata da Eliade (4). Da questi spunti l’autore avrebbe invece tratto la propria accezione del termine archetipo, inteso come “paradigma”, “modello esemplare – rivelato dal mito e riattualizzato nel rito”, con riferimentoa Platone e a sant’Agostino” e in parte a Eugenio d’Ors, piuttosto che a Carl Gustav Jung. E proprio nella fondamentale nozione di archetipo l’Eliade della maturità troverà la risoluzione concettuale da opporre a quella visione pessimisticache aveva sempre rinfacciato ai teorici della Tradizione: l’archetipo, come struttura invariante della coscienza, accomuna “arcaico” e moderno, la permanenza degli archetipi e dei simboli nelle opere d’arte, nella letteratura, nelle manifestazioni creative del mondo contemporaneo continua a conferire valore e significato all’esistenza umana, “l’archetipo arcaico continua ad essere creatore, anche quando è ‘degradato’ a livelli di valorizzazione sempre più bassi […] continua a creare ‘valori culturali’ […] L’assoluto non può essere estirpato ma solo degradato ” (Eliade – I riti del costruire). Attraverso l’ermeneutica storico-religiosa il cui compito è rivelare, nel mondo moderno apparentemente desacralizzato, le strutture simboliche archetipali – degradate e camuffate -  è possibile, nel dare loro un senso, riscattarle dall’involuzione creando le premesse per “il rinnovamento spirituale dell’uomo moderno”. La dicotomia tradizionale/moderno, irriducibile per gli esponenti della philosophia perennis, viene così positivamente risolta dall’interpretazione dell’universo simbolico-archetipale, sostrato comune sia all’ontologia arcaica che alle espressioni delle culture moderne.  Come già anticipa lo studioso nel saggio che dà il titolo alla raccolta: “questi simboli […] dimostrano d’essere ecumenici, validi dunque metafisicamente, e al loro riguardo nessuna ermeneutica risulta eccessiva(EliadeL’isola di Euthanasius).

 

 

NOTE

 

(1) Sulla questione ci riferiremo al saggio di Paola Pisi “I ‘tradizionalisti’ e la formazione del pensiero di Eliade” , contenuto in  “Confronto con Mircea Eliade: Archetipi mitici e identità storica”, Jaca Book,  Milano 1998, pagg. 43 e segg. : “Nei saggi prebellici[…] i tre autori [Guénon, Evola e Coomaraswamy] vengono citati insieme e assunti come esponenti paradigmatici di una svolta nell’interpretazione delle culture, in opposizione al precedente positivismo evoluzionista: il ‘tradizionalismo’ evidentemente rappresentava allora per lo studioso romeno un indirizzo di pensiero innovativo, degno di confronto e di interesse scientifico”. (pag. 47)

(2) Ivi, pag. 53.

 (3) Ivi, pag. 53.

(4) A questo proposito, ma senza dilungarci sull’abusata questione, si possono mettere in evidenza in questo volume alcuni saggi, scritti quasi contemporaneamente alla presunta militanza di Eliade nella Guardia di Ferro, in cui il giovane scrittore rivela posizioni ben lontane dall’antisemitismo che, in teoria, avrebbe dovuto condividere: Prima e dopo il ”miracolo biblico”, Tra Elefantina e Gerusalemme, Riguardo a Gobineau.

 

 

                                    

 

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