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Il saggio che cattura il diavolo
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Giuseppe Sermonti, Il crepuscolo dello scientismo, riedizione aggiornata, introduzione di Paolo Aldo Rossi, Genova, Nova Scripta, 2002, 212 pp., ISBN 88-88251-01-4, 18,60 euro ( novascripta@libero.it ) illustrato con 30 tavole B|N tratte dalle incisioni della Encyclopedie di D'Alembert
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Per certi versi la nostra società somiglia a quei matti dal comportamento apparentemente normale, che violentemente si rivelano allorquando se ne tocchi la personalità scissa oltre la maschera quotidiana. Se palesi sono le tragedie che accompagnano la civiltà moderna quali la perdita di significato dell’individuo, l’inquinamento ambientale, la corsa agli armamenti di sterminio, il divario economico planetario, ecc., assai meno conclamate ne sono le cause. Le critiche e le proposte, quando non siano finzioni ideologiche, si limitano per lo più ad indagare il piano degli effetti particolari sui quali intervenire (ad es. riciclando le scorie industriali, o riducendo il debito del Terzo mondo, secondo un non meglio determinato “sviluppo sostenibile”); ma difficilmente giungono a mettere sotto accusa l’anima stessa del progresso. Forse anche perché la nostra società civile, linda, democratica e dialogica, scientifica, razionale e filantropica, reagisce con violenza alla denunzia verace delle proprie contraddizioni essenziali.
I maestri del sospetto, come li definì felicemente Derrida, cioè Marx, Nietzsche e Freud, avevano rivelato colpe intrinseche della nostra cultura scavando laddove più promettente, onesta e benevolente essa appariva, secondo un processo di rovesciamento smascheratore. La loro prospettiva antropologico-filosofica in qualche modo permise la neutralizzazione sociale di quel sospetto attraverso l’istituto culturale. Giuseppe Sermonti, biologo padre della genetica dei microrganismi industriali, è andato invece con la sua critica a colpire un nervo che pare effettivamente diramarsi, unico e concreto, per tutto il corpo della nostra vita culturale e sociale, anch’esso al di là di ogni ragionevole sospetto e anzi rispettato dall’umanità come l’ultimo, sacro oracolo: la scienza. Per farlo – e sopportarne le conseguenze – ci voleva la sua fantasiosa acutezza, la testardaggine e quel misto di malizia e candore che lo contraddistinguono come scorgerà il lettore nella prefazione del suo libro, in cui enunciava: «ho cercato di trovare delle posizioni erronee non tra le opinioni che incontrano generale riprovazione, ma proprio tra quelle che appaiono maggiormente difendibili, o addirittura così completamente pacifiche che nel loro contrario non sembra possa trovarsi neppure una traccia di verità da cui organizzare una controffensiva».
A complicare ulteriormente la propria situazione, aggiungeva subito di seguito: «Poiché mi oppongo a ideologie che sono nate rivoluzionarie (come il materialismo ingenuo, il progressismo, il positivismo scientifico, ecc.) correrò il rischio di passare per reazionario. Ma debbo dire che, a mio avviso, si tratta di rivoluzioni del tutto particolari, che, arrivate al potere, si sono imposte come tiranni più intolleranti e assolutisti dello stesso monarca decapitato». Il professore si rivelò profeta: con questa frase aveva infatti preconizzato il modo di reazione dello establishment italiano al suo piccolo saggio, il cui successo di vendite e di critica incontrò dapprima un fuoco di sbarramento scatenato dal PCI che lo accusava di “fascismo” e ne censurava le recensioni, portando, per protesta, Guido Ceronetti a dimettersi dalla sua collaborazione all’Espresso; poi le ritorsioni accademiche, con la sospensione del passaggio del cattedratico dall’Università di Perugia a “La Sapienza” di Roma.
Eppure critiche intrinseche ed estrinseche alla scienza in quanto struttura alienante, ideologica (lo scientismo), o metodologicamente fallace, hanno intessuto tutta la cultura del Novecento. Sermonti stesso si rifà appropriatamente alle riflessioni dell’ultimo Husserl, a Poincaré, Le Roy, alla Scuola di Francoforte (che ai tempi della prima edizione del libro veniva appena introdotta nel nostro Paese), e soprattutto a Karl Popper; ma anche alle denunce umanistiche di letterati come Dostoevskij, Florenskij, Musil e Thoreau.
Poiché a spiegare tanto livore contro il libro non bastano la chiamata in causa di gelosie accademiche né il carattere senza compromessi dell’Autore, che pur svolsero un ruolo, viene perciò da ipotizzare che il saggio abbia colto un bersaglio assai sensibile, da un’angolatura molto dolorosa. La critica dello scientismo operata dall’interno di una carriera scientifica brillante, e la disamina dei motivi per i quali la scienza coinciderebbe con l’essenza e il motore di una civiltà aggressiva e distruttiva anche nel giustificare se stessa.
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Non ha forse la scienza prodotto sviluppo e mirabilia, e non promette di realizzare il paradiso in terra? La biologia ne ostende la gloria maggiore attraverso le proprie ricadute mediche e agrozooalimentari: riduzione drastica delle malattie infettive e della mortalità, allungamento della vita media, aumento straordinario della produzione di cibo su vasta scala. Ma, osserva Sermonti, se si guarda bene esiste un’altra faccia di questi successi. Innanzitutto i costi ambientali, umani e sociali. Lo sviluppo dell’agricoltura è stato ad es. promosso dall’uso intensivo di antiparassitari e fertilizzanti che sono i primi responsabili dell’avvelenamento del nostro ambiente, con effetti drammatici sulla salute umana. L’impiego delle monocolture intensive ha compromesso non solo la fertilità della terra, ma lo stesso tessuto culturale rurale che rappresentava una struttura fondamentale per tutta la nostra civiltà. A entrambi gli inaridimenti si cerca di porre rimedio con concimi artificiali biologici e morali, appellandosi ancora una volta alla scienza. Ma il risultato è una profonda adulterazione, che appella a sua volta a ulteriori interventi scientifici: infezioni acute e psicopatologie della popolazione inesistenti prima dell’urbanizzazione della società, distacco dalla natura e profondi disagi sociali, inquinamento e avvelenamento da inquinamento.
Dietro il pubblicizzato successo della scienza vi è poi un altro grande equivoco, poiché essa si è arrogata medaglie che non le spettavano. L’agricoltura e l’allevamento ad es. non sono cambiate nella loro essenza rispetto a diecimila anni fa. Non è stata la biologia, se non marginalmente, a determinarne lo sviluppo, ma piuttosto l’intensificazione degli investimenti, la razionalizzazione delle vecchie pratiche, le macchine agricole e la sostituzione di un’economia di mercato a una familiare.
L’uso profilattico dell’igiene è una pratica sociale assai antica, in continua lotta con la piaga della miseria soprattutto nelle grandi città, e deve poco all’asepsi medica moderna. La stessa vaccinoterapia, che ha sconfitto la piaga mostruosa del vaiolo, derivò non da una ricerca di laboratorio, ma dallo sviluppo empirico di pratiche tradizionali senza che la natura del contagio fosse stata compresa. Molti sarebbero gli esempi per dimostrare che le maggiori applicazioni scientifiche di successo non sono che riscoperte estensive, spesso senza intenderne a fondo il significato e certamente senza averle inventate, di realtà assai antiche e lontane dal mito del progresso. «Non possiamo parlare ancora di scienza applicata, ma solo di applicazioni scientificizzate. Esse non sono opera di grandi scienziati, non sono figlie della scienza ufficiale, ma la scienza le tiene a battesimo quando già sono maggiorenni».
E poi, oggi, dove va la biologia? Riporta Sermonti il lamento di Sir Mac Farlane Burnet (1962): «Per una persona allevata nella tradizione della ricerca medica e con il suo preconcetto umanitario è abbastanza sconcertante vedere quanto poco rilievo abbia avuto tutto questo lavoro (la genetica batterica) agli effetti della medicina».
La scienza in genere infatti si richiude sempre più nei tecnicismi, nei laboratori lontani dalla vita e dai problemi dell’uomo comune, fino a mutarsi in convenzione linguistica. Le sue applicazioni cadono nel mondo come sottoprodotti di un lavorio senza scopo, che raggiunge il parossismo e il massimo della corrusca potenza quando viene impiegato al fine ad esso più congeniale: la guerra. Non è un caso che tutte le meraviglie tecniche che hanno cambiato la nostra vita (dal radar a Internet) siano sorte al seguito dell’enorme sforzo ingegneristico dell’industria bellica. Persino i diserbanti agricoli nacquero in una fabbrica di armi chimiche. Questi prodotti scintillanti e dall’inquietante paternità, sul cui riutilizzo a fini pacifici Sermonti ci dona una delle sue riflessioni più profonde, negandone la liceità, hanno la caratteristica di introdursi nel tessuto culturale modificandolo profondamente. Oggetti apparentemente passivi – o come si dice “comodità” – essi creano attivamente nell’uomo bisogni che prima non esistevano, ai quali sopperiranno diventando così in un secondo momento “indispensabili”. Forse non vi sarebbe nulla di male, se la scienza manipolatrice, dominatrice, dissacratrice che li ha creati non inquietasse i nostri sogni di uomini moderni, indicando coi suoi veleni e le sue distruzioni, la perdita che stiamo subendo in cambio di un orologio da polso e di un ritmo di vita non più scandito dall’armonia dei cieli, ma frammentato a colpi di lancetta meccanica.
Un lungo capitolo conclusivo è dedicato al disastro ambientale e al suo rapporto con la scienza, con importanti considerazioni sullo spirito del consumismo e lo snaturamento dello stesso concetto di possesso oggettuale. Le cose che oggi usiamo e sciupiamo non hanno alcun rapporto affettivo o d’abitudine con il nostro io, e contribuiscono a spersonalizzarci e a isolarci in quell’astrazione senza storia né carne che è l’ultimo ideale dello scientismo asettico. Quanta acqua sporchiamo ogni giorno con tensioattivi indistruttibili, sostanze chimiche velenose, scarichi maleodoranti, per mantenere l’urbanissima igiene che contraddistingue l’uomo moderno occidentale? Deturpando la realtà esprimiamo la nostra impurità interiore, il nostro disinteresse nei confronti di noi stessi, del nostro prossimo e dell’ordine che ci pone in essere, pur avendo mani profumate.
Ci sono soluzioni, oggi come trent’anni fa quando il libro apparve per la prima volta? Non definitive, non globali, non scientifiche. Afferrare il diavolo sfuggente per la coda per non lasciarsene ingannare va bene, ma pretendere di tenerlo prigioniero, in realtà, vuol dire caderne vittima. «Porre il problema sul piano morale e rifiutare la sua formulazione in termini di patologia sociale o di metabolismo della biosfera, vuol dire invitare l’uomo a fare un esame di coscienza, anziché ricorrere a qualche terapia da affidare alla competenza degli specialisti. Ho voluto enunciare così la chiave di tutto questo libro, cioè il tentativo di riportare i problemi che sono stati trasferiti sul piano della tecnologia al piano della responsabilità umana». L’uomo deve affrancarsi dal protettorato di uno scientismo burocratico, distante e incomprensibile che lo vizia con i suoi prodotti da un lato, ma lo trasforma e aliena dall’altro, limitandogli libertà, rischio e responsabilità. Dobbiamo rispettare noi stessi, la nostra casa, il nostro orto, e così rispettare il cosmo in cui siamo inscritti «e non perché la Terra finisce, ma perché finisce il Cielo».
L’Autore: scienziato, genetista di fama internazionale e autorevole cattedratico, Giuseppe Sermonti è stato docente di genetica prima a Palermo e poi a Perugia. Ricercatore all’avanguardia nel campo della genetica dei microrganismi ha scoperto la ricombinazione genetica parasessuale del Penicillum e dello Streptomyces. È stato Presidente della Commissione Internazionale per la Genetica dei microrganismi industriali. Brillante saggista e giornalista, è autore di numerosi libri di scienza, di saggi di riflessione critica sulla scienza moderna, sull’evoluzionismo e studi sulla mitologia. Tra i suoi lavori ricordiamo Genetics of Antibiotic-Producing Microorganism (Wiley & Sons) e Genetica generale (Boringheri). Ha pubblicato La mela di Adamo e la mela di Newton (Rusconi, 1974) in ristampa per i tipi di Nova Scripta, Dopo Darwin, critica all’Evoluzionismo (Rusconi, 1980), Le forme della vita (Armando, 1981), L’anima scientifica (Dino editori, 1982), La Luna nel bosco, Saggio sull’Origine della Scimmia (Rusconi, 1985), Goethe scienziato (Einaudi, 1998) e Dimenticare Darwin (Rusconi, 1999). Ha pubblicato interessanti studi sulle fiabe e le loro connessioni col mondo simbolico e una decine di commedie “da tavolo” su Mendel, Harvey, Semmelweis, Darwin ecc. Per ultimo Il mito della Grande Madre, dalle Amigdale a Çatal Hüyük (Mimesis 2002). Attualmente si dedica allo studio dei cieli preistorici sviluppando la tesi dell’origine astrale degli alfabeti. (F.P).
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