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l'acerba eta'

Massimo Sannelli

 

Cecco d’Ascoli, L’Acerba (Acerba età), a c. di Marco Albertazzi, La Finestra, Trento 2002, pp. XXIV + pp. 544 non numerate; allegato: CD-rom contenente l’ed. Sessa (Venezia, 1501). € 100

 

 

 

L’Acerba di Cecco d'Ascoli - di cui presentiamo qui la recensione di Massimo Sannelli - è uno dei testi più esemplati della letteratura medievale italiana, nonostante il veto posto dalla chiesa alla riproduzione dell’opera e la condanna al rogo dell’autore e del suo poema. Ci sono oltre 100 esemplari, tra manoscritti e stampe, fino al 1581, anno della Controriforma; da questo punto in poi, l’Acerba sparisce, fino al 1820, anno in cui Andreola ne cura un’edizione con caratteri di spiccata arbitrarietà, così come le successive edizioni di Rosario (1916), Crespi (1927), Censori-Vittori (1971) quest’ultima, edizione diplomatica – ovvero trascrizione di un codice, di cui si  riproducono anche le mutilazioni e gli errori più evidenti-. L’Acerba è senz’altro una delle enciclopedie medievali in volgare più complete del Medioevo, in cui vengono riportate conoscenze di fisiognomica., alchimia, magia, fisica, astrologia etc..

L’opera rappresenta il più importante scritto antidantesco della letteratura europea: “qui non se canta al modo de le rane/ qui non se canta al modo del poeta / che finge imaginando cose vane....”.

Marco Albertazzi ha curato oggi un’edizione basta sul confronto sistematico dei più attendibili testimoni dell’opera, vale a dire quelli contenenti il commento latino, di cui lo stesso offre l’edizione, ed il commento volgare. Si tratta della prima edizione critica dell’Acerba, che prende in considerazione circa una quarantina di manoscritti, e ne confronta direttamente sette. All’opera è allegato un cd-rom che riporta la riproduzione dell’edizione illustrata del poema (Venezia, Sessa 1501).

 

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Dopo i preliminari degli Studi stabiliani. Raccolta di interventi editi e inediti su Cecco d’Ascoli (La Finestra, Trento 2002), l’edizione critica di Marco Albertazzi aiuterà a ripristinare il dialogo filologico ed ermeneutico (il due livelli non possono essere separati, soprattutto se è in gioco un testo dottrinale e universale) con l’Acerba e con i due commenti, latino e volgare. Collaborando alla revisione del commento latino, ho cercato di realizzare lo stesso effetto pratico, ritrovando, in effetti, un latino esatto e, al tempo stesso, ‘orale’, parallelo al poema e a tratti indipendente da Cecco (o, a seconda dei testimoni, ri-creativo e anche giocoso; a sua volta, il commento volgare si rivela autonomo dal testo latino).

La lingua del poema è, di per sé, una sovrapposizione di forme centro-italiane da ricostruire fino all’altezza dell’archetipo, in mancanza di un autografo: «[...] dialetto umbro-marchigiano cui si sono sovrapposte le patine bolognese e fiorentina, queste ultime due lingue sono state impiegate, presumibilmente, prima dall’Autore che dai copisti della sua opera» (p. III). Dopo la revisione filologica, la scrittura del «magister Franciscus de Esculo» acquista una fluidità che sembra contraddire il luogo comune dell’illeggibilità del poema (e l’impressione, in generale, è che la leggibilità del testo non dipenda solo da una scelta di lezioni, ma anche dalla scelta dell’interpunzione, come nella prima «mossa» del cap. I.IV, ad esempio: «Cessa, intellecto, con le rotte vele, / ché tua vertù non basta a veder luce / di quel che ti conviene esser[e] fidele: / onde perfecto Dio fa e natura / universal[e], che sempre spira e luce, / che in acto, de potentia, tra’ figura»: dove l’enjambement «natura / universale» depone a favore di una competenza anche retorica e letteraria di Cecco: e così l’anafora della seconda «mossa» del cap. I.II, o il sintagma, classico e pieno, «dolce ferute» nell’apertura di III.I: e così via).

La cultura di cui Cecco parla coincide con il mondo creato, visibile e invisibile. Cioè la cultura è una scienza inconcepibile senza la propria sovrapposizione ad altri argomenti e all’Altro divino e angelico: quindi scienza-angelologia, scienza-teologia, scienza-zoologia, e soprattutto scienza-erotologia (cfr. lo straordinario cap. I del libro III, che contesta Cavalcanti e Dante, citandone bibliograficamente i loci critici, e arriva all’esaltazione razionale del perfectus amor, con il distico finale, che aveva attirato l’attenzione di Luigi Valli: «Donque io son ella, e se da me se scombra, / alor di morte sentirazzo l’ombra»).

L’attenzione di oggi non dovrebbe essere solo storicistica e disciplinare (storia della scienza contro un’ex-scienza): cioè l’Acerba può esistere – e va pubblicata – come esempio di un modo espressivo e di una tensione oggi limitata ma non spenta, e recuperabile almeno (e comunque non solo) in un approccio all’Amore-Sapienza e alla Sapienza dell’amore. Ad esempio, nel 1991 il distico dell’identificazione si è prestato, con Peter Russell, ad una riscrittura tanto enfatica quanto spiritualmente giusta (non canonicamente accettabile, e sta anche qui la potenza dell’airesis del poeta che adora): «O holy saeculum, and O unholy heavens, / Open with all your awful revelations! / I am here, and I am She» (Albae meditatio, Noialtri edizioni, Pellegrino 1999, con una premessa dell’autore che si riferisce ancora all’Acerba: «e queste parole mi hanno tormentato la mente per molti anni»).

In sostanza l’anticlassicità di Cecco d'Ascoli è doppia e legata alla stratificazione linguistica (lingua più lingua, patina più patina) e scientifica (dottrina su dottrina): estraneità alla divulgazione accademica (al livello del presente) e, quando è necessario, autonomia della scrittura da altre scritture (al livello del passato). L’anticlassicità  di oggi può praticare, poetologicamente e biologicamente, una vicinanza critica/autocritica alla filosofia dell’amore e allo stile ricco e ritmato – lingua di/dell’Amore – che ne parla : «Esser non può che sia la mente nuda / d’amare amante, dico, più e meno. [...] / Or mira se tu ame e chomo: apieno / d’amore e del contrario serai certo»; IV.I, quarta «mossa»). Stile ricco e ritmato, appunto: che i fedeli di oggi  riconoscono per caso – ed è una traccia minima, in un poeta non sempre grande – nell’urlo di un narratore a una donna: «O non eri Euridice? Non eri Euridice! / Euridice è viva. Euridice! Euridice!» (Quasimodo, Dialogo). Se è vera la passio di Cecco («io son ella») e l’Oggetto è la Sapienza, la fusione dovrà escludere del tutto la perdita, nella misura in cui la verginità dell’anima «gentile» (cioè la conoscenza del bene e del male: cfr. IV.VI) e l’immutabilità diventano dimensioni umane: «et hoc est quod dicit et intendit Hesculanus».

 

 

 

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