Per una storia della filosofia ermetica \ 3 L'ALCHIMIA GRECA
di
Paolo Lucarelli (saggista)
I primi testi dichiaratamente alchemici compaiono in lingua greca, proprio nel periodo in cui si conclude l’età aurea della sapienza ellenica. I documenti che ci restano, sono però pochi e complessi, da sempre causa di contrastanti pareri tra gli studiosi.
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Democrito a colloquio con Eraclito in un'immagine rinascimentale. Il più antico dei filosofi ermetici greci potrebbe essere stato realmente Democrito. |
Intorno al XII secolo a.C. il mondo antico subì una grave crisi, probabilmente causata, almeno in parte, da profondi sconvolgimenti naturali, che proseguì per alcuni secoli ora definiti, per la scarsissima documentazione, «età oscure» (1). Proprio quelle, forse, di cui cantò Esiodo quando decise di aggiungere un'era, alle quattro tradizionali e metalliche: «... Zeus figlio di Crono, ne creò ancora una quarta sulla terra feconda, più giusta e più brava, razza divina degli eroi, che si chiamano semidei, e la cui generazione ci ha preceduti sulla terra senza limiti…» (2). L'Occidente ne uscì profondamente mutato. I centri delle sacre tradizioni si erano spostati. Popoli interi avevano migrato o si erano mescolati. Civiltà importanti, quella ittica, la minoica, la micenea, erano scomparse sin dalla memoria collettiva. Un nuovo mondo era nato, che è poi infine ancora il nostro, quello che stiamo vivendo, di cui Esiodo lamentava: «Piacesse al cielo che io non dovessi ridere a mia volta in mezzo a quelli della quinta razza, e che io fossi morto prima, o nato più tardi. Perché ora è il tempo della razza di ferro. Essi non cesseranno né di soffrire di giorno fatiche o miserie, né di essere consumati di notte dalle dure angosce che loro invieranno gli dei...» (3). Si presenta con alcune caratteristiche singolari, di cui una merita qui una particolare attenzione. Consiste nel sorgere di una nuova lingua di cultura, di insegnamento e di trasmissione: il greco. Ne dichiarano e giustificano per la posterità il valore sacrale e simbolico, due alti sacerdoti dei massimi centri templari, a testimoniare la fine di un ciclo ed il passaggio della responsabilità tradizionale. A Babilonia Berosso, in Heliopolis Manethone, fisseranno nel nuovo idioma Storie dell'Egitto e di Caldea, adattando per una diversa umanità, cui si dovevano archetipi transmutati, racconti essotericamente accettabili a guida di coscienze che si volevano tranquille ed ignare (4). Ormai le cronologie saranno congelate, le sequenze cristallizzate, per la sovrana pace delle menti. Per i pochi avvertiti invece, la lingua greca si porrà come nuovo fondamento dell'esoterismo in Occidente, sino a Francois Rabelais, «l'astrattore di quintessenza», che insegnava la necessità di conoscere « ... la langue grecque, sans laquelle c'est honte que ne une personne se die sçavant ...»(5) o sino a Fulcanelli che la dichiara sostegno occulto della tradizione scritta dell'ermetismo. Ricordiamo un etimo che presuppone storie meno banali di quelle insegnate. Muta il nome del sovrano: nel mondo miceneo il «re», colui che aveva assoluta autorità, aveva il titolo di «WANAX». In Omero wanax é già semplice omaggio onorifico, e il capo dello stato é il «Basileus». Non é appellativo nuovo: in epoca micenea era il «GA-SI-REU», capo della corporazione dei fabbri (6). Suggerisce un'inquietante immagine di metallurghi che guidano popolazioni sbandate e atterrite: va associata al «DRAFSH - i KAVYANI», la bandiera dell'impero persiano; la leggenda voleva fosse stata il grembiule di cuoio dell'antico, mitico, fabbro KAVAGH (7). In effetti le dinastie sono nuove e dichiaratamente estranee ai popoli che guidano. Tutte vantano discendenza eroica: si parla di «ritorno degli Eraclidi». Viene il dubbio che il mito ermetico degli Adepti che negli sconvolgimenti ciclici tornano a rifondare culture e civiltà abbia un riscontro formale. D'altronde questo nuovo popolo, la cui eredità é così ricca e opprimente, pare nascere con un vuoto amnesiaco che sfiora l'assurdo. In Omero la catastrofe é dimenticata, convertita in un mondo ideale di eroi, in cui deliberati arcaismi denotano strane incomprensioni. Bastino, a solo esempio, le improbabili battaglie dell'Iliade, con carri impiegati solo per trasportare i guerrieri muniti di giavellotto, arma da cavaliere: l'eroe non combatte mai sul carro, scende e lotta a piedi, né monta cavalli se non in pacifiche gare di corsa (8). È un popolo giovane, orgoglioso, senza ricordi che non siano mitici. Dotato di una vitalità immensa, si diffonde dovunque, viaggiando in tutti gli angoli del mondo conosciuto. Lo compongono uomini intelligenti, astuti, abili negli affari, geniali nell'amministrazione, ribelli ad ogni costrizione, litigiosi, suscettibili, poeti, guerrieri, interessati a tutto, curiosi di ogni cosa, profondamente religiosi, eppure razionalmente disincantati. Sempre oscillanti, o meglio condivisi, tra Dioniso ed Apollo, tra Artemide ed Afrodite: il loro vero archetipo é Odisseo, l'eroe multiforme, che sa adattarsi ad ogni circostanza, cui gli déi non concessero se non sporadicamente la tranquilla serenità familiare, e che un destino singolare costringe ad immaginose avventure, e ad una morte in terra misteriosa. La lingua che usano é raffinata, precisa, adatta alla poesia più elevata ed alla filosofia più profonda, alla scienza ed al mercato. Le sottopongono un alfabeto straniero, mutato radicalmente per le caratteristiche di un idioma peculiarmente diverso. Diventeranno la lingua e la scrittura di tutti, la koiné diàlektos. Pare quasi che si sia corporificata nel particolare genio greco, e si sia affidata alla sua lingua, una missione specifica che si é tradotta in inesauribile capacità di assorbire uomini, pensieri e culture, per trarne sottili quintessenze, che sono ancora oggi a meravigliarci, insuperabili capolavori dell'umanità. Come se l'obiettivo fosse quello di scegliere, conservare e trasmettere, in perfettissime epitomi, allo scomparire della tradizione orale del Tempio, l'essenziale dell'antica sapienza. In pochi secoli, con un'attività vivacissima, quasi febbrile, tutto viene esaminato, approfondito, illustrato e scritto. Al culmine, tutte le conoscenze accumulate si riuniscono, fissandone lo stato per una lunga serie di generazioni posteriori (9). Tra il I e il II secolo compaiono i testi di aritmetica e di armonia di Nicomaco di Gerosa e Tolomeo, di geometria di Erone di Alessandria, di astronomia e astrologia di Tolomeo, di meccanica di Erone, di ottica di Tolomeo, di medicina di Galeno di Pergamo, di grammatica di Apollonio di Alessandria, di prosodia di Erodiano, di metrica di Efestione di Alessandria, di retorica di Ermogene di Tarso. Si generalizza l'uso e la nozione di enkuklios paideia, di quel ciclo di apprendimento che deve fare dell'essere umano un «vero uomo». Si stabilisce l'ordinamento delle sette arti liberali, quello che sarà poi chiamato il «trivium» e «quadrivium»: grammatica, retorica e logica da una parte, aritmetica musica, geometria e astronomia dall'altra. Alla fine tutto deve essere divulgato, anche ciò che è stato celato per secoli. Il sapere esoterico esce dai templi, dalle conventicole, dalle sétte, e si coagula nella nuova lingua, quasi per un'ansia di preservare nel tempo che già intravede la fine di un mondo in agonia. Si scrivono apocrifi pitagorici, e si pitagorizza Platone, specialmente il Timeo, tanto più adatto in quanto ispirato direttamente dalla dottrina del profeta italico: lo commenteranno specialmente Posidonio di Apamea, e ancora Calcidio nel IV secolo e Proclo nel V. Sorge una letteratura di esegesi allegorica: non si salva neppure Omero, il trattato più famoso sarà L'antro delle Ninfe di Porfirio. Apollonio di Tiana va di città in città ad insegnare rivelazioni esoteriche, che Filostrato narrerà, componendo la leggenda del nuovo Pitagora. Esclusi, tranne sparute eccezioni, dalla cultura scolastica ed accademica, questi testi, in frammenti mal tradotti e peggio ancora collocati, sono oggi appannaggio di pseudo esoterismi occultistici, che ne fanno pallide chiose, squallidi epigoni degli eruditi ellenistici. Chi avesse la pazienza di tornare senza pregiudizi alle fonti originarie, vi troverebbe insperati tesori di saggezza. Il tipico rappresentante di questi studi é l'aner physikos, cioè l'uomo che è al corrente di tutti i fatti ed i rapporti occulti della natura, che ha scoperto con un'indagine minuziosa proprietà e virtù che legano con segrete relazioni di simpatia ed antipatia gli esseri dei tre regni.
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Erma con testa di fanciullo (scultura in bronzo del I secolo d. C.). Nella Grecia antica l'erma era un pilastro di marmo o di bronzo, con testa di Hermes e fallo, posto ai crocicchi a tutela dei viandanti La funzione dell'Erma si ricollega alle più antiche connotazioni del dio Hermes.
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Di questo, Filone ci ha lasciato una descrizione ammirata: «Tutti coloro che, o presso i Greci o presso i Barbari, si esercitano alla saggezza, conducono una vita senza biasimo e senza rimprovero, ben decisi a non subire dal loro prossimo alcun danno, né a causargliene in cambio, evitano la compagnia degli imbroglioni, tutto il tempo dei quali è dedicato agli intrighi umani, e fuggono i luoghi dove quelli conducono i loro affari - tribunali, parlamenti, piazze pubbliche, luoghi di assemblea in breve qualunque banda, qualunque associazione di uomini volgari - conducendo una vita senza lotte e pacifica, essi contemplano eccellentemente la natura e gli esseri della natura, penetrano i segreti della terra, del mare, dell'aria e del cielo, così come delle loro leggi fisiche, accompagnano nelle loro circonvoluzioni col pensiero, la luna, il sole, il coro degli altri pianeti e degli astri fissi, attaccati in basso al suolo con i loro corpi, ma dando ali alle loro anime, cosicché, marciando sull'etere, contemplano le potenze che vi si trovano perché sono diventati autentici cittadini del mondo, essi che hanno fatto del mondo la loro città, di cui guardano come membri tutti gli amici della saggezza (10). Siamo qui evidentemente alla fine della missione. II compito si é concluso, più o meno felicemente. Quello che si poteva salvare e trasmettere, ormai é parte integrante della nuova cultura e delle nuove religioni. Dopo aver cercato verità e conoscenza in tutti i recessi più inaccessibili, si scopre la necessità della ricerca più alta e più difficile, inevitabilmente immobile e solitaria. L'ultimo dono della grecità, sarà allora la nascita di termini adatti, tutti sorti al di fuori del cristianesimo, che se ne approprierà poi ferocemente: monosis solitudine, monazein vivere da solitario, monasterion cellula del solitario. Importante è anche eremia, il deserto, che gioca foneticamente con eremia la pace dell'anima, da cui gli abitanti del deserto eremites. L'Ermetismo non poteva, né voleva evidentemente, evitare questo destino segnato: é dunque in greco, e in quella stessa epoca, che compaiono le prime opere dichiaratamente sue, mentre si chiude il periodo in cui la sua sapienza era occultata e velata nei miti e nei racconti poetici. Così come ricorda il Maier, descrivendo i due mezzi principali di insegnamento, di cui ormai sarà il secondo a prevalere nel tempo: «... Risulta che vi siano stati sempre due generi di scrittori nelle cose Alchemiche, quello poetico, antichissimo, e quello filosofico, un po' più recente ...» (11). |
I documenti che ci restano sono però pochi e complessi, da sempre causa di contrastanti pareri tra gli studiosi. Da quelle lontane età sono giunte solo raccolte di frammenti più o meno significanti di opere ormai scomparse, riuniti e conservati da collezionisti che avevano peculiari interessi, non necessariamente i più utili o i più comprensibili per noi. Si possono distinguere in queste antologie, due serie contrapposte di temi: da un lato argomenti teologico-filosofici, dall'altro pratici e operativi. Entrambi tuttavia disomogenei e talvolta contraddittori, cosicché i secondi mescolano tecniche alchemiche, ricette metallurgico chimiche, testi di erboristeria, magia, astrologia; mentre dai primi è difficile estrarre una visione coerente, che possa in qualche modo descriversi come un sistema conchiuso. Qui gli studiosi contemporanei hanno subito per lo più un'inevitabile deformazione prospettica, che sorge probabilmente dal fatto che si preferiscono di norma le cose che si capiscono, osi crede di capire, meglio. Per non parlare del probabile inconscio residuo di una condanna religiosa c conformistica che ha pesato per secoli su certe pratiche. Hanno perciò preferito la prima categoria testuale, definito questi contenuti «ermetismo colto», e gli hanno dedicato qualche attenzione. Molto meno al resto, che hanno disprezzato come popolare, rozzo ed insensato (12). Di conseguenza, e con una curiosa inversione di valori rispetto alla verità oggettiva, hanno anche immaginato il primo come una specie di sistema astratto, e perciò puro e degno, di pensiero, da cui il resto sarebbe derivato per una qualche forma di degenerazione. Come se non fosse solo la prassi a generare conoscenza, e non fosse solo nella prassi che si può verificare la verità di una qualsiasi teoria. I documenti sono per lo più molto tardi, con alcune, poche, eccezioni. La più importante rappresentata da due papiri, cosiddetti alchemici, chiamati di Leida e di Stoccolma dalle città in cui sono conservati (13). Sembra siano stati compilati a Tebe, tra il 250 e il 350 d.C. e mostrano sufficienti somiglianze perché si possa ipotizzare un unico scriba. Sono raccolte di tecniche metallurgiche e chimiche (fabbricazione di colori, di inchiostri ecc.) riunite secondo criteri piuttosto casuali da un copista che probabilmente si servì di fonti diverse, ma dal contenuto parzialmente identico. Sono scritti in un greco costellato di barbarismi e confusioni ortografiche che potrebbero provenire dalle abitudini fonetiche della lingua parlata in Egitto in epoca romana. Un esempio interessante è la seconda ricetta dello Holmiensis: «Anaxilao attribuisce egualmente questa a Democrito. Triturando molto bene del sale comune con dell'allume lamelloso in aceto e modellando dei piccoli pani (14), li seccava per 3 giorni nella stufa, poi dopo triturazione fondeva col rame per 3 giorni ;(15), e lo raffreddava spegnendolo nell'acqua di mare. L'esperienza mostrerà il risultato». È un metodo per fabbricare dell'argento, o almeno qualcosa di simile. In realtà questi due papiri hanno ben poco, se non nulla, di alchemico. Non vi si trovano nemmeno tracce di quella tecnica operativa, detta nei secoli spagiria, archimia, e simili, che si proponeva di ottenere transmutazioni metalliche dirette secondo le cosiddette «vie partitolari», che se non sfruttavano metodi di alchimia, ne conoscevano almeno le teorie. Si tratta, invece, di ricette protochimiche, di nessun interesse per l'ermetista se non per le informazioni sulle capacità tecnologiche dell'epoca. Tecnologia che aveva ormai raggiunto un livello che resterà insuperato per il millennio successivo, e che appare notevolmente completa. Sin dall'VIII secolo a.C. il ferro era diventato materia di uso comune, soppiantando ormai completamente il bronzo, anche se questo era di nuovo facilmente disponibile. I fabbri conoscevano bene almeno due procedimenti per renderlo più adatto alla costruzione di utensili e di armi, che risolvevano soddisfacentemente gli inconvenienti cui abbiamo già accennato. Sono la cementazione e la tempra. La seconda, come é ben noto, consiste in un raffreddamento rapido del metallo arroventato: «... Come quando un fabbro immerge una grande scure o un 'ascia nell'acqua fredda con acuto stridio per temprarla - ed è questa la forza dei ferro - così sfrigolava il suo occhio attorno al palo d'ulivo» (16). La cementazione invece consiste nel tenere il massello di ferro per un tempo sufficiente (almeno 8 - 10 ore) a temperatura relativamente alta (comunque sopra gli 80° C) sul carbone incandescente, cosicché atomi di carbonio diffondano nel metallo, convertendolo per una certa profondità in acciaio. Il procedimento era poi seguito da una martellatura a freddo che ne incrementava ulteriormente la resistenza. Il nome passò a designare qualunque cottura prolungata di uno o più metalli, in presenza di un «cemento», di forma a composizione almeno parzialmente salina, per ottenere delle evidenti modifiche che potevano giungere sino ad una transmutazione vera e propria. È un metodo che si ritroverà sino in epoca moderna (17). Nei due papiri abbiamo descrizioni di operazioni di questo tipo, ma soltanto per ottenere leghe di falsificazione.
Le materie prime
minerali, vegetali ed animali, utilizzate nei due testi, fanno tutte
parte dell'armamentario usuale dei farmacisti dell'epoca imperiale, e
sono per lo più descritte nel manuale classico di Dioscoride. |
Tolomeo I Soter (367 0 366-283 a. C.), il fondatore del regno ellenistico d'Egitto, che fece della sua capitale, Alessandria, il centro più importante della cultura ellenistica. Alessandria fu la culla dell'alchimia di lingua greca.
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L'apparecchiatura non ha nulla di specifico: comprende recipienti di vario tipo, in argilla, rame, piombo o legno. Talvolta si tratta dei normali crogioli da orefice. Si parla di forni, ma non ne viene data la descrizione. Delle pinze, spatole in ferro, mortai in pietra, e pochi altri utensili completano il tutto.
Questo tipo di prontuari ebbe vita fortunata: ne abbiamo numerosi esemplari in epoca medievale, talvolta con le stesse ricette, alcune anzi spiegate meglio e con più dettagli, prova di una tradizione che prosegue per canali artigianali e si perpetua e si arricchisce con un successo evidentemente anche pratico che andrebbe esplorato meglio. D'altra parte non ci risulta che qualche scienziato abbia mai cercato di ripetere in laboratorio le esperienze proposte, ed i commenti degli studiosi moderni ai testi sono venati, nella migliore delle ipotesi, da uno scetticismo piuttosto sbalordito. Ci rendiamo ben conto delle difficoltà che si incontrerebbero. Per l'esame che abbiamo potuto fare, appare che, quasi sempre, manca qualche dettaglio operatorio essenziale. Un altro ostacolo, talvolta insuperabile, sorge dalla stessa lingua in cui sono stati scritti questi documenti, spesso scorretta e incomprensibile per quanto riguarda i possibili materiali, per cui le traduzioni hanno sempre un elevato grado di improbabilità, o quanto meno di ipotesi non comprovata. Anche nel caso in cui la versione sia chiara, non é affatto detto che si parli di cose ben note. Per esempio, tornando ai nostri due papiri, tra i reattivi é molto usato l'aceto (oxos), ma probabilmente non si trattava soltanto di acido acetico: lo stesso termine doveva riassumere sotto un'unica denominazione una vasta gamma di acidi vegetali a vari gradi di concentrazione, che in certe condizioni potevano contenere anche percentuali significative di acido cloridrico e solforico. Lo stesso vale per l'urina (oyron), fonte evidente di ammoniaca, ma forse anche denominazione di materiali meno evidenti. Si pensi all'urina di fanciullo vergine (oyron aphthoroy paidos) cui si attribuiscono particolari virtù, di cui non sappiamo immaginare la causa. Un tardo esempio di questo genere si trova in Michele Psello che intorno al 1045 scrisse un libretto di introduzione Sul modo di fare l'oro, per istruire il patriarca Cerulario.
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Ne riportiamo due brani, a testimonianza di una tradizione tra uomini di cultura, e quindi non di origine artigianale: «... Eccovi dunque la prima operazione dell'oro. È una certa Arena per li lidi del mare, detta Chrisitide, cioè aurigna, dal colore: altri la chiamano Crisamma, che è il medesimo che Arena d'oro. Questa conviene sottilmente pestare in alcuno mortaro, finché si riduca a parti lisce e minutissime; poi fatta humida rasciugar bene si che ne anco le parti sottilissime restino attaccate insieme; la onde bisognando farla spessa o darli corpo et riscaldarla, quello si faccia co'l sale et questo al fuoco, non lavandola per un dì et notte. Poi tolto un vase et lavata la salsezza con acqua, ponetevi la medicina, et ritornato il vase al fuoco, venite temprando la polve con aceto spargendovel sopra à goccia, à goccia à tal che in un medesimo tempo si inhumidisca et si dissecchi: fatto ciò quattro volte, fondete in altra parte argento et piombo ciascun da per se, et fusi ambedue versate nel vase della polve, finché le materie si diffondino et penetrino per tutto fra di loro et si abbraccino in un corpo, poi levato dal fuoco et lasciato raffreddare per alcune hore, vedrete rosseggiar la massa qual forbita con arena di mare troverete oro ...» (18). Oppure: «Potrete ancora fare oro così. Liquefatto il piombo a fuoco, spargetevi sopra solfo vergine lasciandolo al fuoco mentre svapori tutto il fumo, poi tolto ugual peso di alume di piuma et di cinabro e misti con Ossimele gittate sopra al piombo liquido come faceste del solfo, accioché parte acquistando durezza et parte ricevendo il colore per tutti i pori, da ambedue queste cose divenga perfetto oro ...» (19). Psello fu squallida figura di arrivista, esperto di sopravvivenza nelle difficili corti imperiali, e non basta la sua notevole erudizione, tutta libresca, e lo stile elegante a farcene un'immagine più amabile. Certamente, e non ce ne dispiace, non fu Filosofo Ermetico: queste ricettine lo testimoniano nella loro misera tecnologia di trucco metallurgico, cui mancano ancora dettagli importanti per dare un qualche risultato apprezzabile. Certo non era uomo da sporcarsi le mani con carboni e tenaglie. Quando nel 1059 Cerulario cadde in disgrazia, Psello non esitò ad erigerne l'atto di accusa, fondato proprio sulla presunta colpa di aver praticato ed amato quell'arte che egli, insipiente, aveva voluto presuntuosamente insegnargli. Scrisse tra l'altro, del povero patriarca sconfitto: «... si metteva alla ricerca delle transmutazioni delle materie, e sarebbe stato molto dispiaciuto di non trovare il modo di fabbricare dell'argento con rame o dell'oro con argento. Cosicché si dedicava soltanto agli Zosimo ed ai Teofrasto... e dava maggior peso alla dottrina abderita di Democrito e non lavorava più che alle composizioni che servono a fabbricare l'asem, Argento liquefatto, sandaracca, pietra di Magnesia, corpi piromachi, gomme. ...Invece di teoremi primi, invece di sillogismi o di dimostrazioni, faceva talvolta delle tinture, talvolta delle transmutazioni, talvolta delle ricerche su cosa sia l'affinaggio del rame, l'ammollimento del ferro, e l'operazione che leva al piombo la sua fusibilità o allo stagno la sua flessibilità ...» (20). Pare quindi che il presunto allievo avesse di gran lunga superato il maestro di teoria, come appare da questo quadro di un Artista Ermetico, già sottoposto all'irrisione ed ai pericoli che tormentarono i Fratelli in Ermete nei secoli. Comunque, da questo processo Cerulario fu tanto afflitto da morire di dolore. Alla riabilitazione postuma, fu ancora l'ineffabile Psello che redasse il panegirico per onorare la memoria della vittima che aveva sacrificato alla convenienza. Con un secondo insieme di documenti, abbiamo infine la prima manifestazione evidente di quella che nel seguito si chiamerà «Alchimia». Sono frammenti più o meno estesi incorporati in manoscritti salvati dalla caduta dell'impero bizantino e portati in Occidente dagli esuli che vi si rifugiavano. I più importanti sono il San Marco (Venezia) 299 (X-XI secolo), il Parigi 2325 (XIII secolo) e il Parigi 2327 (XV secolo). Contengono la maggior parte dei testi noti ed apparentemente hanno costituito la fonte principale di tutta la restante produzione in lingua greca conosciuta. Riuniti da collezionisti che possiamo supporre interessati anche praticamente alle dottrine ermetiche, rappresentano una specie di crestomazia mirata, come vedremo, specialmente alla parte operativa, con riferimenti e citazioni di opere che potrebbero risalire ad epoche molto antiche. Sono comunque le uniche fonti autentiche che possediamo di quel lontano passato, le altre notizie sulla tradizione greca ci provengono dalle successive fonti mussulmane. Sono come i resti sbrecciati e crollati di una città di cui immaginiamo appena lo sfarzo e gli splendidi monumenti, di cui possiamo solo a fatica ricostruire idealmente la vita, la cultura, gli ideali, la ricchezza e le bellezze, con la sottile nostalgia di un mondo che non possiamo che sognare. Miseri resti giunti fortunosamente sino a noi, mal conosciuti, sottovalutati e disprezzati, come la maggior parte di ciò che riguarda quell'impero bizantino, tanto invidiato, e quindi odiato, dalla latinità che in fine trovò il coraggio di distruggerlo. Dobbiamo riconoscere da questi confusi ed oscuri manoscritti, che in quel mondo stava evidentemente tutta l'eredità tradizionale, la custodia dell'antica sapienza esoterica, che si è trasmessa nei secoli. Così come, per fermarci all'alchimia, vi troviamo il simbolismo più pregnante, le tecniche più efficaci, la terminologia pratica ed occulta, che si manterranno più o meno inalterati sino ad epoca moderna. Meritano dunque un esame attento, e qui cercheremo di dare utili indicazioni per compierlo, chinandoci con qualche emozione sulle poche parole rimaste degli antichi Maestri dell'Arte.
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Il manoscritto più antico, come abbiamo detto, é il Marcianus. Questo presenta all'inizio una specie di indice che descrive il progetto dell'opera in cui si trovano capitoli tratti da (21): Stefano; Eraelio; Giustiniano; Comario; il dialogo di Cleopatra; Heliodoro; Pelagio; Ostane; Synesio che commenta Democrito; Zosimo; frammenti e detti di Agathodemone, Ermete, Zosimo, Nilus, l'Africano; Olimpiodoro che commenta Zosimo; ricette di Pappus per Mosé; Eugenio e Hierotheo; altri frammenti di Zosimo. Il manoscritto si conclude con una miscellanea di argomenti, tra cui varie ricette di tinture, di fabbricazione di asem (22), del mercurio e del cinabro, un frammento del trattato di Cleopatra su pesi e misure, qualche brano anonimo, il lessico dei termini di alchimia e, per finire, una serie di istruzioni poste sotto il titolo di Altri capitoli di differenti autori sulla fattura dell'oro (23). Il Parisinus 2325 (B) é il successivo per antichità. Giunto in Francia da Venezia, é, a differenza del primo, un manuale puramente pratico. Degli autori propriamente detti non ha conservato che Democrito, Synesio e Stefano. Tutto il resto é dedicato alla tecnica. Gli ultimi fogli, con una scrittura più recente, contengono tra l'altro il trattato del monaco Cosmas sulla Chrysopeia. Il Parisinus 2327 (A) rappresenta un esempio composito tra i due. Vi si trova attenzione sia alla parte tecnica che a quella teorica, tra l'altro con alcuni argomenti dottrinali molto preziosi di origine sconosciuta. Il tutto però in grande disordine: le ricette puramente tecniche si mescolano al resto senza un disegno evidente, come se il copista avesse raccolto casualmente ciò che gli pareva utile, per di più con molte ripetizioni di testi identici (24).
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Miniatura da un manoscritto del Rosarium Philsophorum (XVII sec.) che probabilmente fa riferimento alla Turba Philosophorum, opera famosissima, di origine incerta, apparsa per la prima volta in manoscritti latini del XIII sec. nella Turba nove filosofi presocratici prendono parte ad una disputa che ha per oggetto argomenti alchimistici intrecciati a dottrine cosmologiche.
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Da questo, un passo va subito citato, quasi una descrizione della catena tradizionale e trasmissiva, così come sarà uso nei testi medioevali: «... Sappi, o amico mio, i nomi dei Maestri dell'Opera: Platone, Aristotele, Ermete, Giovanni l'Arciprete nella divina Evagia, Democrito, Zosimo il grande, Olimpiodoro, Stefano il filosofo, Sofar il Persiano, Synesio Dioscoro il sacerdote del grande Serapide ad Alessandria, Ostane e Comario, gli iniziati dell'Egitto, Maria, Cleopatra moglie di re Tolomeo, Porfirio, Epibechio, Pelagio, Agathodemone, l'imperatore Eraclio, Teofrasto, Archelao, Petasio. Claudiano, il Filosofo Anonimo, Menos il filosofo, Panseris, Sergio. Quelli sono i maestri dovunque celebri ed ecumenici, i nuovi commentatori di Platone ed Aristotele. I paesi dove si compie l'Opera Divina sono l'Egitto, la Tracia, Alessandria e il tempio di Menfi» (25). Compare qui finalmente il nome di Ermete, cui questa Arte e Filosofia deve il suo stesso nome. Riconosciuto come il vero padre e iniziatore di tutti i Filosofi, tuttavia, tranne qualche breve citazione (26), non resta alcuna traccia dei suoi ipotetici scritti, al punto di far dubitare sul significato della loro leggendaria attribuzione; Ermete rappresenta anche una chiara dichiarazione di filiazione dalla tradizione egizia, per l'assimilazione, data per scontata, sin da prima di Erodoto, col dio Thoth. Questi era lo scriba degli dei, l'inventore della scrittura e di ogni arte o scienza. Negli Inferi, quando davanti ad Osiride, Horo ed Anubis pesano il cuore del morto, Thoth scrive il risultato del giudizio sulle tavolette. Esiste un chiaro legame instaurato da sempre tra Ermete-Thoth e la Parola, il «Logos». È la voce di Thoth che crea il mondo, ed é il suo soffio che fa crescere ogni cosa. È scritto nel tempio di Dendera: «... Rivelazione del dio della luce Ra, lui che esiste sin dall'inizio, Thoth, lui che riposa sulla verità. Ciò che sgorga dal suo cuore ha subito esistenza; ciò che egli ha pronunciato sussiste per l'eternità». Anche Platone, in un passo di pura tecnica cabalistica, lo riconferma in questo ruolo. «Ebbene mi pare proprio abbia qualche rapporto con la parola questo nome Hermes; e l'essere il dio hermeneys (interprete) e messaggero ... come dunque dicevamo anche prima, l’eirein indica l’esercizio del parlare; e il rimanente, che è una parola adoperata da Omero più volte quando dice emesato (cogito), vuol dire macchinare. Dunque usando ambedue questi elementi, il legislatore, a cotesto dio, mesamenos (che cogita), ci ordina di dar nome così: O uomini colui che l'eirein emesato giustamente da voi sarà chiamato Eiremes. Ed ora noi, abbellendo, come crediamo, il nome, diciamo Hermes» (27). Si svela qui il senso occulto che spiega perché Ermete sia il Maestro di tutti i Maestri: egli é lo stesso Spirito Universale, il Logos che crea e sorregge il mondo, l'Anima del Mondo, che sola può dare l'insegnamento esoterico, la Natura che ammaestra i Figli della Dottrina. Lo stesso appellativo Trismegisto, presuppone significati meno banali di quelli che gli sono di norma attribuiti. Lo si riconosce di solito come una versione greca del superlativo egizio per ripetizione del positivo, ma curiosamente questo ipersuperlativo (tre volte grandissimo), gli sembra esclusivamente riservato, facendo in qualche modo con Ermete un solo nome proprio, col quale si é trasmesso sino a noi: «Ermete Trismegisto». Vi leggiamo più volentieri un plurale che non un'aggettivazione estrema (28), il che ci riconduce alla trinità che sostiene e compone il Mercurio Universale, e in cui questi si manifesta in tutte le operazioni della Natura, così come esprime profondamente Zosimo in un passo di raro valore: «La presente composizione una volta messa in moto parte dallo stato di monade per costituirsi in triade per espulsione del mercurio: essendo costituita in monade che si espande in triade essa è un continuo; ma di converso, essendo costituita in triade a tre elementi separati, essa costituisce il mondo per la provvidenza del Primo Autore, Causa e Demiurgo della Creazione, che allora è chiamato Trismegisto in quanto ha immaginato sotto forma triadica ciò che è prodotto e ciò che produce» (29). In realtà il primo, o almeno il più antico, dei Filosofi Ermetici greci, sembra sia stato Democrito. Bisogna però dire che gli studiosi si sono accaniti con un certo nervosismo su questo povero alchimista che la tradizione voleva fosse il famoso abderita, padre della teoria atomica. Gli hanno perciò subito attribuito uno «pseudo», da cui probabilmente non riuscirà mai a liberarsi, e che, come é noto, nei testi accademici equivale ad un'accusa velata di azioni riprovevoli e un po' vergognose. Si sono scoperte poi alcune righe, molto corrotte e variamente ricostruite, sul «Suda» (30): queste danno notizia di un certo «Bolo Democriteo», di Mende, sul Delta del Nilo, che avrebbe scritto opere di osservazioni scientifiche, medicine naturali, antipatie simpatie e simili. Con l'aggiunta di una frase discutibile di Columella, e con grande sollievo, si é considerato risolto lo scandaletto e salvata l'immagine di un appartenente alla cultura scolare, identificando infine lo «pseudo Democrito» a questo oscuro egiziano che non infastidiva nessuno. Per sedare poi ogni dubbio, si é anche inventata un'opera di tecnica ermetica dal titolo di «Baphika» (tinture), di cui non esiste traccia, e se ne é fatto autore Bolo, che così diventava esperto di alchimia (31). D'altra parte abbiamo invece l'autorevole testimonianza di antichi autori a favore di un Democrito interessato attivamente a studi eterodossi. come Plinio ci narra, dimostrando anche quanto sia vecchia la polemica, e antico un certo atteggiamento mentale: «... chi approva le altre cose di Democrito dice che queste non sono sue. Ma a torto: è assodato che proprio Democrito, più di tutti, ha instillato negli animi tali dolcezze (cioè della magia)» (32). Queste discussioni non ci sembrano comunque di grande interesse. È noto, attraverso i secoli, come i Filosofi Ermetici abbiano dato ben poca importanza alla figura storica dei singoli autori, preferendo spesso l'anonimato, o l'uso di un nome collettivo, badando più ai contenuti dell'insegnamento che non ai tratti di chi lo dispensava. Comportamento certo incomprensibile per i nostri contemporanei. che pare abbiano un estremo bisogno di individualità fisiche ben determinate da adoperare o criticare, sin nelle più minute forme della vita privata. Resta, ben più importante, il racconto dell'insegnamento che Democrito ricevette in Egitto dal persiano Ostane. Oltre a testimoniare un rapporto con una tradizione iranica. che abbiamo sorvolato (33), questa narrazione si propone come il più antico archetipo noto di una leggenda che sopravvisse nel tempo in Ermetismo, adattandosi con opportune varianti sino a Basilio Valentino ed ai manifesti rosacruciani, e che permette una interpretazione anche operativa, ove si ricordi che nel progresso della grande Opera «aperta la Pietra», si ottiene un ammaestramento diretto. Diranno in proposito gli alchimisti medievali: «imbianca Latona e brucia i tuoi libri». Narra Democrito: «Avendo appreso queste cose dal maestro suddetto (Ostane) e cosciente della diversità della materia. io mi esercitai a fare l’unione delle nature. Ma siccome il nostro maestro era morto prima che la nostra iniziazione fosse completa e mentre noi eravamo ancora del tutto occupati a riconoscere la materia, è dall'Ade, come si dice, che cercai di evocarlo. Io mi misi dunque all'opera e quando apparve, l'apostrofai in questi termini, non mi dai nulla in ricompensa di quello che ho fatto per te?... Ebbi un bel dire, mantenne il silenzio. Tuttavia, siccome lo apostrofavo di nuoto e gli domandavo come unire le nature, ... disse soltanto, i libri sono nel tempio... Siccome dunque, malgrado le nostre ricerche, non trovammo nulla, ci demmo un impegno terribile per sapere come si uniscono sostanze e nature per combinarsi in una sola sostanza. Ora... essendo passato un certo tempo... - prendemmo parte, tutti insieme, ad un banchetto di festa; mentre eravamo nel tempio, da se stesso improvvisamente un blocco di pietra si aprì per metà ...» (34). Nella pietra si trova scritta una formula, la più famosa forse dell'Ermetismo, a riassumere tutto il segreto della Grande Opera: «La natura gode della natura, e la natura vince la natura e la natura domina la natura…» Della quale anche noi possiamo ripetere con Democrito: «Fu grande la nostra ammirazione per il fatto che egli avesse riassunto in così poche parole tutta la Scrittura».
Hermes e una Carite (rilievo del V sec. a. C.)
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Note:
(1) Cfr. la raccolta di saggi in Le origini dei Greci, Dori e mondo egeo, a cura di D Musi, Laterza 1985.
(2)
Le
opere e i Giorni.
vv. 157 e sgg.
(3)
Ibid. vv. 174 e sgg.
(4) Dell'opera di Manethone sono rimasti dei frammenti, oltre ai riferimenti degli scrittori posteriori. Lo scritto di Berosso invece è perso. Vedi «Manetho», Loeb Classical Library, Londra MCMLXX
(5) «La lingua greca, senza conoscere la quale è vergognoso che una persona si dica sapiente»; Pantagruel, cap. VIII.
(6)
Traslitterazione da Lineare B. Vedi in particolare La caduta dei regni
micenei a Creta e l'invasione dorica di L. Godart, nella raccolta citata.
(7)
Lo stendardo cadde in mano agli
arabi nel 636 dopo la sconfitta persiana nella battaglia di Qâdisiyya. Cfr.
A.Bausani L'Iran e la sua tradizione millenaria. Ist. It. per il Medio ed
Estremo Oriente. Roma 1971.
(8) Cfr. Il mondo di Odisseo, di M.I.Finney, Laterza 1978.
(9) R.P. Festugière, La Révélation d'Hermès Trismégiste, Tomo I, Parigi 1981
(10) De Somniis; I,10. Tradotto da Festugière, op.cit.
(11) Maier. op. cit. Lib. III «Democriti greci Symbolum».
(12) Si è persino voluto distinguere anche nominalmente i due temi, chiamando Hermetism, quello colto, ed Hermeticism, l'altro. Vedi Hermeticism and the Renaissance, edited by I.Merkel and A.G. Debus, Washington 1988.
(13) Per quanto segue, vedi in particolare: «Alchemy. Origin or originis» by H.J. Sheppard, in «Ambix», XVII, 2. Les Alchimistes Grecs, Tome I. Texte établi et traduit par Robert Halleux, Parigi 1981. M. Berthelot. op. cit.
(14) Anaplàsas xolloúria: Halleux traduce modellando colliri (façonnant des collyres) che non ha senso in questa pratica.
(15) Come nota Halleux (che traduce: per tre volte) epítreis può voler dire anche «per tre giorni», che qui è più corretto, come sa chi ha provato questi curiosi procedimenti. Così come i verbi usati suggeriscono un metodo di surfusione comune in altri casi simili.
(16) Odissea. IX, 391-94. Accecamento di Polifemo.
(17) Per certi aspetti questi procedimenti sono molto simili, per quel che si è potuto sapere, ai recenti esperimenti di cosiddetta «fusione fredda». Tra l'altro il sale coinvolto nei metodi spagirici è quasi sempre di un metallo alcalino e si sa che un componente essenziale usato da Fleischman e Pons è il litio, nella loro pratica che potremmo definire per via umida.
(18) Catalogue des manuscrits alchimiques grecs, VI. Bruxelles 1928. La traduzione è di un erudito del XVII secolo.
(19) Ibid..
(20)
Ibid. Traduco dalla versione francese del Ruelle.
(21)
Vedi H.J.Sheppard The Ouroboros and the unity of matter in Alchemy: a study
in origins «Ambix» X,2.
A.J. Festugière, Hermétisme et mystique paienne, Parigi 1967,
parte III.
(22)
Come dimostra Halleux (op. cit.) l'asem era il nome dato probabilmente
all'argento non coniato, cioè «senza segni».
(23) Il manoscritto segue abbastanza fedelmente nell'insieme il modello di cui ha trascritto la tavola d'indice, ma ha subito gravi infortuni: mancano alcuni capitoli, dei fogli sono invertiti, ecc..
(24) Messo nel catalogo della Biblioteca di Fontainbleu sotto Enrico II, è rilegato con armi di questo re. Fu copiato in Creta dal corfiota Teodoro Pelecanos nel mese di giugno 1487.
(25) Il tempio di Menfi fu probabilmente distrutto verso la fine del IV secolo, contemporaneamente al Serapeum di Alessandria. Quanto alla Tracia citata, Si vuole forse indicare Bisanzio.
(26) Per quanto riguarda il cosiddetto Corpus Hermeticum, che sarebbe evidentemente un'eccezione, ne parleremo nel seguito.
(27) Platone. Opere, Bari 1967. Cratilo, 408.
(28) Il modo più antico per esprimere il plurale (e non il superlativo) in egizio consiste nello scrivere il nome tre volte, cioè tre volte l'ideogramma. Oppure il disegno è seguito da 000, in orizzontale o in verticale, che più tardi diventano III. Vedi Egyptian Language, by sir E.A.Wallis Budge, Londra 1973.
.
(29) Trad. da Festugière, op.cit.
(30) Si tratta di un lessico bizantino del X secolo. Suda è il nome dell'opera: in passato gli studiosi hanno erroneamente creduto che fosse di un autore chiamato Suida.
(31) Vedi in proposito l'interessante saggio di J.P.Hershbell Democritus and the beginning of Greek Alchemy, in «Ambix» XXXIV, 1.
(32) Storia Naturale, XXX, 8. Torino 1986
(33) Si pensi ad esempio alla bevanda di immortalità, comune a tutta la cultura ariano-vedica.
(34) Trad. da Festugière, op. cit
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