Verso una società economa e solidale
Lo sviluppo, dottrina ufficiale delle
organizzazioni internazionali, anche quello durevole è assimilato da
certi economisti alla crescita e ai guasti che ne derivano. Ma non è
piuttosto a una separazione di questi due concetti che si dovrebbe
lavorare? In effetti la parola d'ordine della decrescita è inapplicabile
volta a volta, ai paesi poveri privi dell'essenziale e ai paesi ricchi.
Questo dibattito che attraversa il movimento altermondialista, conduce
di necessità a un riesame critico dei rapporti sociali.
Jean-Marie Harribey
Lo «sviluppo durevole» o «sostenibile»,
dottrina ufficiale delle Nazioni unite, dovrebbe assicurare il benessere
delle generazioni attuali senza compromettere quello delle generazioni
future (1). È un'ancora di salvezza alla quale si aggrappano tutti i
governi, peraltro ferventi partigiani e difensori dell'agricoltura
intensiva, le imprese multinazionali che sprecano risorse, scaricando
senza vergogna nell'ambiente i loro rifiuti e che fanno viaggiare delle
navi pattumiera, mentre le organizzazioni non governative non sanno più
cosa fare e la maggior parte degli economisti si fa prendere in
flagrante delitto di ignoranza dei vincoli naturali. Tuttavia, il
programma di sviluppo durevole ha un vizio di origine: la ricerca di una
crescita economica infinita è considerata compatibile con il
mantenimento degli equilibri naturali e la soluzione dei problemi
sociali. «Ciò di cui abbiamo bisogno è di una nuova era di crescita, una
crescita vigorosa ma, contemporaneamente, socialmente e "ambientalmente"
sostenibile» (2), sosteneva il rapporto Brundtland. Ma questo postulato
si basa su due affermazioni molto deboli. La prima è di ordine
ecologico: la crescita può proseguire perché la quantità di risorse
naturali richieste per unità prodotta diminuisce con il progresso
tecnico. Potremmo quindi produrre sempre di più con meno materie prime
ed energie. Ma il calo dell'intensità in risorse naturali è
sfortunatamente più che compensato dall'aumento generale della
produzione; il prelievo di risorse e l'inquinamento continuano così ad
aumentare, come riconosce il rapporto del Programma delle Nazioni unite
per lo sviluppo (Undp): «dappertutto nel mondo, i processi di produzione
sono diventati più economi in energia da qualche anno a questa parte.
Però, visto l'aumento dei volumi prodotti, questi progressi sono
nettamente insufficienti per ridurre le emissioni di anidride carbonica
su scala mondiale» (3). L'Agenzia internazionale dell'energia (Aie) si
allarma per il rallentamento dei progressi compiuti in materia di
intensità energetica (4): tra il 1973 e il 1982, quest'ultima era
diminuita in media del 2,5% l'anno nei paesi rappresentati all'Aie, poi
soltanto dell'1,5% dal 1983 al 1990 e dello 0,7% l'anno dal 1991 (5). La
seconda affermazione contestabile si situa sul piano sociale: la
crescita economica sarebbe in grado di ridurre la povertà e le
diseguaglianze e di rafforzare la coesione sociale. Ma la crescita
capitalista è necessariamente ineguale, distruttrice quanto creatrice,
si nutre di ineguaglianze per suscitare senza tregua frustrazioni e
nuovi bisogni. Da quarant'anni, malgrado la crescita considerevole della
ricchezza prodotta nel mondo, le ineguaglianze sono esplose: lo scarto
tra il 20% dei più poveri e il 20% dei più ricchi era da 1 a 30 nel
1960, mentre oggi è da 1 a 80. Non è sorprendente: il passaggio a un
regime di accumulazione finanziaria provoca uno sconvolgimento dei
meccanismi di ripartizione del valore prodotto. In effetti, la crescente
esigenza di remunerare le classi capitaliste, in particolare con più
profitti, condanna a ridurre la parte del valore aggiunto attribuita ai
lavoratori, sia sotto forma di salari diretti che di prestazioni
sociali. La stessa Banca mondiale ammette che l'obiettivo di dimezzare
il numero delle persone che vivono nella povertà assoluta entro il 2015
non sarà raggiunto (6): più di 1,1 miliardi vivono ancora con
l'equivalente di un dollaro al giorno. Per l'ultimo rapporto della
Conferenza dell'Onu sul commercio e lo sviluppo (Unctad) i paesi poveri
meno aperti alla globalizzazione sono quelli che sono progrediti di più
in termini di reddito per abitante, al contrario dei paesi più aperti,
vittime di questa apertura esterna (7). L'incapacità a pensare il futuro
al di fuori del paradigma della crescita economica permanente
costituisce senza dubbio la falla principale del discorso ufficiale
sullo sviluppo durevole. Malgrado i guasti sociali ed ecologici, la
crescita, dalla quale nessun responsabile politico o economico vuole
dissociare lo sviluppo, funziona come una droga pesante. Quando è forte,
viene alimentata l'illusione che possa risolvere i problemi - che del
resto ha fatto nascere in gran parte - e che quindi, più forte sarà la
dose, meglio starà il corpo sociale. Quando è debole, appare lo stato di
astinenza, che si rivela molto doloroso visto che non è prevista nessuna
disintossicazione. Così, dietro l'«anemia» attuale della crescita si
nasconde l' «anomia» (8) crescente in società minate dal capitalismo
liberista. Quest'ultimo si mostra incapace di dare un senso alla vita
sociale che non sia il consumismo, lo spreco, l'accaparramento delle
risorse naturali e dei redditi provenienti dall'attività economica e, in
fin dei conti, l'aumento delle ineguaglianze. Premonitore è il primo
capitolo del Capitale di Marx che criticava la merce: la crescita
diventa il nuovo oppio dei popoli i cui punti di riferimento culturali e
le cui solidarietà collettive vengono spezzati per farli cadere nel
pozzo senza fondo della mercificazione. Il dogma dominante è ben
interpretato da Jacques Attali che, da buon profeta, credeva di
intravvedere all'inizio del 2004 «un'agenda favolosa di crescita» che
soltanto «eventi non economici, per esempio un ritorno della Sars» (9)
sarebbero suscettibili di far fallire. Per gli ideologi della crescita
colpiti da cecità, l'ecologia, cioè il fatto di tener conto delle
relazioni tra l'essere umano e la natura, non esiste: l'attività
economica si realizza in abstracto, al di fuori della biosfera.
Significa tenere ben poco conto del carattere entropico (10) delle
attività economiche. Anche se la Terra è un sistema aperto che riceve
l'energia solare, forma nondimeno un insieme di cui il genere umano deve
rispettare i limiti di risorse e di spazio. Ma l'«impatto ecologico»,
cioè la superficie necessaria per accogliere tutte le attività umane
senza distruggere gli equilibri ecologici, raggiunge già il 120% del
pianeta e, tenuto conto delle grandi disparità di sviluppo, sarebbero
necessari quattro o cinque pianeti se tutta la popolazione mondiale
consumasse e scaricasse altrettanti scarti di un abitante degli Stati
uniti (11). In queste condizioni, l'idea della «decrescita» lanciata da
Nicholas Georgescu-Roegen (12) trova un'eco favorevole in una parte
degli ecologisti e degli altermondialisti. Alcuni autori, proseguendo in
questo approccio teorico, scongiurano di rinunciare allo sviluppo,
poiché secondo loro non potrà essere dissociato da una crescita
mortifera. Essi rifiutano ogni aggettivo che potrebbe riabilitare lo
sviluppo che conosciamo - sia umano, durevole o sostenibile - poiché non
potrà essere diverso da come è stato, cioè il vettore del dominio
occidentale sul mondo. Per esempio, Gilbert Rist denuncia lo sviluppo
come una «parola feticcio» (13); Serge Latouche condanna lo sviluppo
durevole come un «ossimoro» (14). Perchè allora non ci convince questo
rifiuto dello sviluppo, pur criticando come loro il produttivismo
implicito nel regno della produzione mercantile? Sul piano politico, non
è giusto ordinare uniformemente la decrescita a coloro che sono
strapieni di tutto e a coloro che mancano dell'essenziale. Le
popolazioni povere hanno diritto a un periodo di crescita economica e
l'idea che l'estrema povertà rinvii a una semplice proiezione dei valori
occidentali o a un puro immaginario è inaccettabile. Bisognerà costruire
scuole per sopprimere l'analfabetismo e centri di cura per permettere
alle popolazioni di curarsi, bisognerà costruire reti per portare
l'acqua potabile dappertutto e per tutti. È quindi perfettamente
legittimo continuare a chiamare sviluppo la possibilità per tutti gli
abitanti della terra di accedere all'acqua potabile, a un'alimentazione
equilibrata, alle cure, all'educazione e alla democrazia. Definire i
bisogni essenziali come diritti universali non equivale a dare l'avallo
al dominio della cultura occidentale né aderire al credo liberista nei
diritti naturali, a cominciare dalla proprietà privata. In effetti, i
diritti universali sono una costruzione sociale nata da un progetto
politico di emancipazione che permette l'insediamento di un nuovo
immaginario, senza per questo che esso venga ridotto all'«immaginario
universalista dei "diritti naturali"», criticato da Cornelius
Castoriadis (15). D'altra parte, non è ragionevole opporre alla crescita
economica, elevata dal capitalismo al rango di obiettivo in sé, una
decrescita essa stessa eretta ad obiettivo in sé dal movimento
anti-sviluppo (16). In effetti, si tratta di due scogli simmetrici: la
crescita vuole far tendere la produzione verso l'infinito e la
decrescita, logicamente, non può che farla tendere verso lo zero, se non
viene posto nessun limite. Il principale teorico in Francia della
decrescita, Serge Latouche, sembra esserne cosciente quando scrive: «la
parola d'ordine di decrescita ha l'obiettivo di sottolineare con forza
l'abbandono dell'obiettivo assurdo della crescita per la crescita,
obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca sfrenata del profitto
per chi controlla il capitale. Evidentemente, non punta a una caricatura
di rovesciamento, che consisterebbe a promuovere la decrescita per la
decrescita. La decrescita non è la "crescita negativa", espressione
antinomica e assurda che traduce bene la dominazione dell'immaginario
della crescita» (17). Ma cosa significherebbe una decrescita che non
fosse una diminuzione della produzione? Serge Latouche tenta di evitare
questa trappola dicendo di voler «uscire dall'economia di crescita ed
entrare in una "società di decrescita"». La produzione continuerà a
crescere? Allora non si capirebbe più il termine di decrescita. Oppure
sarà controllata, nel qual caso il nostro disaccordo tenderebbe a
svanire. D'altronde, Serge Latouche ha finito per convenire che la
parola d'ordine di decrescita per tutti gli abitanti della terra è
inadeguata: «per quanto riguarda le società del sud, questo obiettivo
non è veramente all'ordine del giorno: anche se sono attraversate
dall'ideologia della crescita, la maggior parte di esse non sono davvero
delle "società di crescita"» (18). Ma sussiste qui un'ambiguità: le
popolazioni povere possono accrescere la produzione oppure le società di
«non crescita» devono restare povere? Gli anti-sviluppo attribuiscono il
fallimento delle strategie di sviluppo al vizio considerato di fondo di
ogni sviluppo e mai ai rapporti di forza sociali che, per esempio,
impediscono ai contadini di avere accesso alla terra a causa di
strutture fondiarie ingiuste. Di qui l'elogio senza sfumature
dell'economia informale, dimenticando che essa vive spesso sui resti
dell'economia ufficiale. E di qui la definizione dell'uscita dallo
sviluppo come un'uscita dall'economia, perché quest'ultima non potrebbe
essere diversa da quella che ha costruito il capitalismo. La razionalità
dell'«economia», nel senso in cui vengono economizzati gli sforzi
dell'uomo al lavoro e la risorse naturali utilizzate per produrre, viene
messa sullo stesso piano della razionalità del rendimento, cioè del
profitto. Ogni miglioramento della produttività del lavoro viene così
assimilato al produttivismo. In altri termini, ci viene detto che la
cosa economica non esisterebbe al di fuori dell'immaginario occidentale
che l'ha creata, con il pretesto che alcune culture non conoscono i
termini «economia», «sviluppo», il cui uso invece ci è familiare. Ma
benché non esistano le parole, la realtà materiale, cioè la produzione
dei mezzi di esistenza, invece esiste. La produzione è una categoria
antropologica, anche se il quadro dei rapporti nei quali viene
realizzata è sociale. Da questa confusione dei due piani - che significa
ridare al capitalismo una dimensione universale e non storica, cosa che
ricorda curiosamente il dogma liberista - risulta un'incapacità a
pensare simultaneamente la critica del produttivismo e quella del
capitalismo: solo la prima viene portata avanti ma senza collegarla alla
critica dei rapporti sociali dominanti. Volere quindi «uscire
dall'economia» (19), pretendendo di ricacciare «l'economico nel sociale»
(20) è per lo meno curioso. Sul piano teorico, o si considera che esista
una differenza tra crescita e sviluppo, oppure si vede nei due fenomeni
una stessa logica di estensione perpetua che conduce in un vicolo cieco.
La seconda posizione è facilmente identificabile, poiché è quella dei
partigiani della decrescita che sono contemporaneamente degli
anti-sviluppo; ma la prima posizione è rivendicata sia da economisti
liberisti che da anti-liberisti. I liberisti affermano di perseguire
degli obiettivi qualitativi che non si riducono alla crescita materiale,
soprattutto dopo il fallimento sociale dei piani di aggiustamento
strutturale del Fmi e della Banca mondiale. Ma questa distinzione tra
crescita (quantitativa) e sviluppo (qualitativo) rappresenta
un'impostura nella logica liberista, dal momento che la crescita è
considerata una condizione necessaria e sufficiente allo sviluppo, per
di più eternamente possibile. Gli economisti anti-liberisti di origine
marxista, strutturalista o terzo-mondista degli anni '60-70, dal canto
loro, alla luce dei guasti sociali ed ecologici del modo di sviluppo che
sembra indissolubilmente legato alla crescita, hanno molte difficoltà a
far prevalere la tesi che sia possibile distinguere le due nozioni. Gli
avversari di qualsivoglia sviluppo possono respingere crescita e
sviluppo negando che sia possibile scorporarli. È possibile oltrepassare
questa contraddizione? Il capitalismo ha interesse a far credere che
crescita e sviluppo vanno sempre di pari passo, in quanto il
miglioramento del benessere umano non può che passare attraverso
l'accrescimento perpetuo della quantità di merci. Dobbiamo allora
fondare, per il futuro - poiché oggi non esiste veramente - una
distinzione radicale tra i due concetti: il miglioramento del benessere
e lo sviluppo delle potenzialità umane si realizzano fuori dal sentiero
della crescita infinita delle quantità prodotte e consumate, fuori dal
sentiero della merce e del valore di scambio (21), ma su quello del
valore d'uso e della qualità del tessuto sociale che può nascergli
attorno. La parola d'ordine di decrescita, se venisse applicata
indistintamente a tutti i popoli o a tutti i tipi di produzione, sarebbe
ingiusta e inoperante. Prima di tutto, perché il capitalismo ci impone
attualmente una certa decrescita, soprattutto quella dei beni e servizi
di cui avremo più bisogno dal punto di vista sociale: trasporti
pubblici, sanità, scuola, aiuto agli anziani ecc. Inoltre, perché non
tutta la produzione è necessariamente inquinante o causa di degrado. Il
prodotto interno lordo (pil), valutato dal punto di vista monetario,
registra la crescita delle attività di servizio - anche quelle non di
mercato - la cui pressione sugli ecosistemi in generale non è
paragonabile a quella dell'industria e dell'agricoltura. La natura della
crescita conta quindi almeno quanto la sua ampiezza. La necessità di
diminuire l'impatto ecologico, che è urgente, non implica la decrescita
di tutte le produzioni, senza distinzione tra loro, né che non vi siano
differenze tra coloro a cui vengono destinate. L'utilizzazione
planetaria delle risorse deve essere organizzata in modo tale da
permettere ai paesi poveri di avviare la crescita per soddisfare i loro
bisogni essenziali, mentre i più ricchi devono diventare economi. Per i
paesi poveri, imporre un modello dall'esterno non può che portare alla
distruzione delle radici culturali e costituirebbe un ostacolo a uno
sviluppo realmente emancipatore. Nei paesi ricchi, conviene pensare le
politiche in funzione della transizione che deve essere avviata: il
progressivo sganciamento della crescita dallo sviluppo. Questo non passa
più attraverso una decrescita cieca, inaccettabile per la maggior parte
dei cittadini, ma attraverso un rallentamento mirato che permetta di
avviare la trasformazione dei processi produttivi e anche quella delle
rappresentazioni culturali: il rallentamento della crescita, come prima
tappa prima di intraprendere il rallentamento selettivo, a cominciare da
quello delle attività nocive, per un'economia riorientata verso la
qualità dei prodotti e dei servizi pubblici, una ripartizione primaria
dei redditi più equa e una riduzione regolare del tempo di lavoro in
relazione all'aumento della produttività, solo modo per promuovere
l'occupazione al di fuori della crescita. E questo, sapendo che
qualsiasi rimessa in causa del modello di sviluppo attuale è realista
solo a condizione di rimettere in causa simultaneamente i rapporti
sociali capitalisti che le fanno da supporto (22). Definire lo sviluppo
come l'evoluzione di una società che utilizzi l'aumento della
produttività non per accrescere indefinitamente una produzione
generatrice di inquinamento, di degrado dell'ambiente, di
insoddisfazione di desideri rimossi, di ineguaglianze e di ingiustizie,
ma per ridurre il lavoro di tutti, dividendo in modo più equo i guadagni
che derivano dall'attività, non costituisce un ritorno indietro rispetto
alla critica dello sviluppo attuale. Non condanna a restare all'interno
del paradigma utilitarista, a condizione che l'aumento della
produttività si ottenga senza degradare né le condizioni di lavoro né la
natura. A partire dal momento in cui si ammette che l'umanità non
tornerà più all'epoca di prima dello sviluppo e che, per questo, gli
aumenti di produttività esistono ed esisteranno sempre, la loro
utilizzazione deve essere pensata e resa compatibile con la riproduzione
dei sistemi viventi. È possibile avanzare l'ipotesi che la riduzione del
tempo di lavoro possa contribuire a levare dal nostro immaginario il
fantasma di dover avere sempre di più per stare meglio e che
l'estensione dei servizi pubblici, della protezione sociale e della
cultura, sottratti all'appetito del capitale, sia fonte di una ricchezza
incommensurabile con quella privilegiata dal mercato. Dietro alla
questione dello sviluppo sono in gioco le finalità del lavoro e quindi
la strada verso una società economa e solidale.
note:
(1) Gro Harlem Brundtland, «Il futuro di
tutti noi», Rapporto della Commissione mondiale sull'ambiente e lo
sviluppo, Mondadori, 1987. Il rapporto è servito di base alla Conferenza
dell'Onu di Rio de Janeiro nel 1992.
(2) Ibid., p.XXIII.
(3) Undp, Lo sviluppo umano, Rapporto
2002, Rosenberg & Sellier, (4) L'intensità energetica (e più in generale
l'intensità delle risorse naturali) della produzione è la quantità di
energia (o di risorse naturali) necessaria per produrre un euro di pil.
(5) Aie, Oil crises and climate challeges:
30 years of energy use in IEA countries, 2004, www.iea.org (6)
Dichiarazione del presidente della Banca mondiale James Wolfensohn,
citato da Babette Stern, «Les objectifs de réduction de la pauvreté ne
seront pas atteints», Le Monde, 24 aprile 2004.
(7) Unctad, Rapporto sui paesi meno
avanzati, 2004, citato da Babette Stern, «Pour pes pays les moins
avancés, la libéralisation commerciale ne suffit pas à réduire la
pauvreté», Le Monde, 29 maggio 2004.
(8) Per Durkheim l'anomia è l'assenza o
la scomparsa di valori comunitari e di regole sociali.
(9) Jacques Attali, «Un agenda de
croissance fabuleux», Le Monde, «2004, l'année du rebond», 4 e 5 gennaio
2004.
(10) L'entropia definisce il degrado
dell'energia.
(11) Redifining Progress,
www.progress.org (12) Nicholas Georgescu-Roegen, La décroissance:
Entropie-Ecologie-Economie, Sang de la terre, Parigi, 1995.
(13) Gilbert Rist, «Le "développement":
la violence symbolique d'une croyance», in Christian Comeliau (a cura
di), «Brouillons pour l'avenir, Contributions au débat sur les
alternatives», Les Nouveaux Cahiers de l'Iued, Ginevra, n.14, Puf,
Parigi, 2003, p.147.
(14) Serge Latouche, «Sviluppo, una
parola da cancellare», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2001.
Un ossimoro è la giustapposizione di due termini contraddittori.
(15) Cornélius Castoriadis, Le monde
morcelé, Les carrefours du labyrinthe 3, Seuil, Parigi, 1990, p.193.
(16) Silence, Objectif décroissance, Vers
une société harmonieuse, Parangon, Parigi, 2003.
(17) Serge Latouche, «Il faut jeter le
bébé plutôt que l'eau du bain», in Christian Comeliau (a cura di), op.
cit., p.127. |