ARTICOLO

 

Sviluppo e crescita non sono necessariamente appaiati

Jean-Marie Harribey

da "LE MONDE diplomatique" - Luglio 2004
 
Verso una società economa e solidale

Lo sviluppo, dottrina ufficiale delle organizzazioni internazionali, anche quello durevole è assimilato da certi economisti alla crescita e ai guasti che ne derivano. Ma non è piuttosto a una separazione di questi due concetti che si dovrebbe lavorare? In effetti la parola d'ordine della decrescita è inapplicabile volta a volta, ai paesi poveri privi dell'essenziale e ai paesi ricchi. Questo dibattito che attraversa il movimento altermondialista, conduce di necessità a un riesame critico dei rapporti sociali.

Jean-Marie Harribey

Lo «sviluppo durevole» o «sostenibile», dottrina ufficiale delle Nazioni unite, dovrebbe assicurare il benessere delle generazioni attuali senza compromettere quello delle generazioni future (1). È un'ancora di salvezza alla quale si aggrappano tutti i governi, peraltro ferventi partigiani e difensori dell'agricoltura intensiva, le imprese multinazionali che sprecano risorse, scaricando senza vergogna nell'ambiente i loro rifiuti e che fanno viaggiare delle navi pattumiera, mentre le organizzazioni non governative non sanno più cosa fare e la maggior parte degli economisti si fa prendere in flagrante delitto di ignoranza dei vincoli naturali. Tuttavia, il programma di sviluppo durevole ha un vizio di origine: la ricerca di una crescita economica infinita è considerata compatibile con il mantenimento degli equilibri naturali e la soluzione dei problemi sociali. «Ciò di cui abbiamo bisogno è di una nuova era di crescita, una crescita vigorosa ma, contemporaneamente, socialmente e "ambientalmente" sostenibile» (2), sosteneva il rapporto Brundtland. Ma questo postulato si basa su due affermazioni molto deboli. La prima è di ordine ecologico: la crescita può proseguire perché la quantità di risorse naturali richieste per unità prodotta diminuisce con il progresso tecnico. Potremmo quindi produrre sempre di più con meno materie prime ed energie. Ma il calo dell'intensità in risorse naturali è sfortunatamente più che compensato dall'aumento generale della produzione; il prelievo di risorse e l'inquinamento continuano così ad aumentare, come riconosce il rapporto del Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp): «dappertutto nel mondo, i processi di produzione sono diventati più economi in energia da qualche anno a questa parte. Però, visto l'aumento dei volumi prodotti, questi progressi sono nettamente insufficienti per ridurre le emissioni di anidride carbonica su scala mondiale» (3). L'Agenzia internazionale dell'energia (Aie) si allarma per il rallentamento dei progressi compiuti in materia di intensità energetica (4): tra il 1973 e il 1982, quest'ultima era diminuita in media del 2,5% l'anno nei paesi rappresentati all'Aie, poi soltanto dell'1,5% dal 1983 al 1990 e dello 0,7% l'anno dal 1991 (5). La seconda affermazione contestabile si situa sul piano sociale: la crescita economica sarebbe in grado di ridurre la povertà e le diseguaglianze e di rafforzare la coesione sociale. Ma la crescita capitalista è necessariamente ineguale, distruttrice quanto creatrice, si nutre di ineguaglianze per suscitare senza tregua frustrazioni e nuovi bisogni. Da quarant'anni, malgrado la crescita considerevole della ricchezza prodotta nel mondo, le ineguaglianze sono esplose: lo scarto tra il 20% dei più poveri e il 20% dei più ricchi era da 1 a 30 nel 1960, mentre oggi è da 1 a 80. Non è sorprendente: il passaggio a un regime di accumulazione finanziaria provoca uno sconvolgimento dei meccanismi di ripartizione del valore prodotto. In effetti, la crescente esigenza di remunerare le classi capitaliste, in particolare con più profitti, condanna a ridurre la parte del valore aggiunto attribuita ai lavoratori, sia sotto forma di salari diretti che di prestazioni sociali. La stessa Banca mondiale ammette che l'obiettivo di dimezzare il numero delle persone che vivono nella povertà assoluta entro il 2015 non sarà raggiunto (6): più di 1,1 miliardi vivono ancora con l'equivalente di un dollaro al giorno. Per l'ultimo rapporto della Conferenza dell'Onu sul commercio e lo sviluppo (Unctad) i paesi poveri meno aperti alla globalizzazione sono quelli che sono progrediti di più in termini di reddito per abitante, al contrario dei paesi più aperti, vittime di questa apertura esterna (7). L'incapacità a pensare il futuro al di fuori del paradigma della crescita economica permanente costituisce senza dubbio la falla principale del discorso ufficiale sullo sviluppo durevole. Malgrado i guasti sociali ed ecologici, la crescita, dalla quale nessun responsabile politico o economico vuole dissociare lo sviluppo, funziona come una droga pesante. Quando è forte, viene alimentata l'illusione che possa risolvere i problemi - che del resto ha fatto nascere in gran parte - e che quindi, più forte sarà la dose, meglio starà il corpo sociale. Quando è debole, appare lo stato di astinenza, che si rivela molto doloroso visto che non è prevista nessuna disintossicazione. Così, dietro l'«anemia» attuale della crescita si nasconde l' «anomia» (8) crescente in società minate dal capitalismo liberista. Quest'ultimo si mostra incapace di dare un senso alla vita sociale che non sia il consumismo, lo spreco, l'accaparramento delle risorse naturali e dei redditi provenienti dall'attività economica e, in fin dei conti, l'aumento delle ineguaglianze. Premonitore è il primo capitolo del Capitale di Marx che criticava la merce: la crescita diventa il nuovo oppio dei popoli i cui punti di riferimento culturali e le cui solidarietà collettive vengono spezzati per farli cadere nel pozzo senza fondo della mercificazione. Il dogma dominante è ben interpretato da Jacques Attali che, da buon profeta, credeva di intravvedere all'inizio del 2004 «un'agenda favolosa di crescita» che soltanto «eventi non economici, per esempio un ritorno della Sars» (9) sarebbero suscettibili di far fallire. Per gli ideologi della crescita colpiti da cecità, l'ecologia, cioè il fatto di tener conto delle relazioni tra l'essere umano e la natura, non esiste: l'attività economica si realizza in abstracto, al di fuori della biosfera. Significa tenere ben poco conto del carattere entropico (10) delle attività economiche. Anche se la Terra è un sistema aperto che riceve l'energia solare, forma nondimeno un insieme di cui il genere umano deve rispettare i limiti di risorse e di spazio. Ma l'«impatto ecologico», cioè la superficie necessaria per accogliere tutte le attività umane senza distruggere gli equilibri ecologici, raggiunge già il 120% del pianeta e, tenuto conto delle grandi disparità di sviluppo, sarebbero necessari quattro o cinque pianeti se tutta la popolazione mondiale consumasse e scaricasse altrettanti scarti di un abitante degli Stati uniti (11). In queste condizioni, l'idea della «decrescita» lanciata da Nicholas Georgescu-Roegen (12) trova un'eco favorevole in una parte degli ecologisti e degli altermondialisti. Alcuni autori, proseguendo in questo approccio teorico, scongiurano di rinunciare allo sviluppo, poiché secondo loro non potrà essere dissociato da una crescita mortifera. Essi rifiutano ogni aggettivo che potrebbe riabilitare lo sviluppo che conosciamo - sia umano, durevole o sostenibile - poiché non potrà essere diverso da come è stato, cioè il vettore del dominio occidentale sul mondo. Per esempio, Gilbert Rist denuncia lo sviluppo come una «parola feticcio» (13); Serge Latouche condanna lo sviluppo durevole come un «ossimoro» (14). Perchè allora non ci convince questo rifiuto dello sviluppo, pur criticando come loro il produttivismo implicito nel regno della produzione mercantile? Sul piano politico, non è giusto ordinare uniformemente la decrescita a coloro che sono strapieni di tutto e a coloro che mancano dell'essenziale. Le popolazioni povere hanno diritto a un periodo di crescita economica e l'idea che l'estrema povertà rinvii a una semplice proiezione dei valori occidentali o a un puro immaginario è inaccettabile. Bisognerà costruire scuole per sopprimere l'analfabetismo e centri di cura per permettere alle popolazioni di curarsi, bisognerà costruire reti per portare l'acqua potabile dappertutto e per tutti. È quindi perfettamente legittimo continuare a chiamare sviluppo la possibilità per tutti gli abitanti della terra di accedere all'acqua potabile, a un'alimentazione equilibrata, alle cure, all'educazione e alla democrazia. Definire i bisogni essenziali come diritti universali non equivale a dare l'avallo al dominio della cultura occidentale né aderire al credo liberista nei diritti naturali, a cominciare dalla proprietà privata. In effetti, i diritti universali sono una costruzione sociale nata da un progetto politico di emancipazione che permette l'insediamento di un nuovo immaginario, senza per questo che esso venga ridotto all'«immaginario universalista dei "diritti naturali"», criticato da Cornelius Castoriadis (15). D'altra parte, non è ragionevole opporre alla crescita economica, elevata dal capitalismo al rango di obiettivo in sé, una decrescita essa stessa eretta ad obiettivo in sé dal movimento anti-sviluppo (16). In effetti, si tratta di due scogli simmetrici: la crescita vuole far tendere la produzione verso l'infinito e la decrescita, logicamente, non può che farla tendere verso lo zero, se non viene posto nessun limite. Il principale teorico in Francia della decrescita, Serge Latouche, sembra esserne cosciente quando scrive: «la parola d'ordine di decrescita ha l'obiettivo di sottolineare con forza l'abbandono dell'obiettivo assurdo della crescita per la crescita, obiettivo il cui motore non è altro che la ricerca sfrenata del profitto per chi controlla il capitale. Evidentemente, non punta a una caricatura di rovesciamento, che consisterebbe a promuovere la decrescita per la decrescita. La decrescita non è la "crescita negativa", espressione antinomica e assurda che traduce bene la dominazione dell'immaginario della crescita» (17). Ma cosa significherebbe una decrescita che non fosse una diminuzione della produzione? Serge Latouche tenta di evitare questa trappola dicendo di voler «uscire dall'economia di crescita ed entrare in una "società di decrescita"». La produzione continuerà a crescere? Allora non si capirebbe più il termine di decrescita. Oppure sarà controllata, nel qual caso il nostro disaccordo tenderebbe a svanire. D'altronde, Serge Latouche ha finito per convenire che la parola d'ordine di decrescita per tutti gli abitanti della terra è inadeguata: «per quanto riguarda le società del sud, questo obiettivo non è veramente all'ordine del giorno: anche se sono attraversate dall'ideologia della crescita, la maggior parte di esse non sono davvero delle "società di crescita"» (18). Ma sussiste qui un'ambiguità: le popolazioni povere possono accrescere la produzione oppure le società di «non crescita» devono restare povere? Gli anti-sviluppo attribuiscono il fallimento delle strategie di sviluppo al vizio considerato di fondo di ogni sviluppo e mai ai rapporti di forza sociali che, per esempio, impediscono ai contadini di avere accesso alla terra a causa di strutture fondiarie ingiuste. Di qui l'elogio senza sfumature dell'economia informale, dimenticando che essa vive spesso sui resti dell'economia ufficiale. E di qui la definizione dell'uscita dallo sviluppo come un'uscita dall'economia, perché quest'ultima non potrebbe essere diversa da quella che ha costruito il capitalismo. La razionalità dell'«economia», nel senso in cui vengono economizzati gli sforzi dell'uomo al lavoro e la risorse naturali utilizzate per produrre, viene messa sullo stesso piano della razionalità del rendimento, cioè del profitto. Ogni miglioramento della produttività del lavoro viene così assimilato al produttivismo. In altri termini, ci viene detto che la cosa economica non esisterebbe al di fuori dell'immaginario occidentale che l'ha creata, con il pretesto che alcune culture non conoscono i termini «economia», «sviluppo», il cui uso invece ci è familiare. Ma benché non esistano le parole, la realtà materiale, cioè la produzione dei mezzi di esistenza, invece esiste. La produzione è una categoria antropologica, anche se il quadro dei rapporti nei quali viene realizzata è sociale. Da questa confusione dei due piani - che significa ridare al capitalismo una dimensione universale e non storica, cosa che ricorda curiosamente il dogma liberista - risulta un'incapacità a pensare simultaneamente la critica del produttivismo e quella del capitalismo: solo la prima viene portata avanti ma senza collegarla alla critica dei rapporti sociali dominanti. Volere quindi «uscire dall'economia» (19), pretendendo di ricacciare «l'economico nel sociale» (20) è per lo meno curioso. Sul piano teorico, o si considera che esista una differenza tra crescita e sviluppo, oppure si vede nei due fenomeni una stessa logica di estensione perpetua che conduce in un vicolo cieco. La seconda posizione è facilmente identificabile, poiché è quella dei partigiani della decrescita che sono contemporaneamente degli anti-sviluppo; ma la prima posizione è rivendicata sia da economisti liberisti che da anti-liberisti. I liberisti affermano di perseguire degli obiettivi qualitativi che non si riducono alla crescita materiale, soprattutto dopo il fallimento sociale dei piani di aggiustamento strutturale del Fmi e della Banca mondiale. Ma questa distinzione tra crescita (quantitativa) e sviluppo (qualitativo) rappresenta un'impostura nella logica liberista, dal momento che la crescita è considerata una condizione necessaria e sufficiente allo sviluppo, per di più eternamente possibile. Gli economisti anti-liberisti di origine marxista, strutturalista o terzo-mondista degli anni '60-70, dal canto loro, alla luce dei guasti sociali ed ecologici del modo di sviluppo che sembra indissolubilmente legato alla crescita, hanno molte difficoltà a far prevalere la tesi che sia possibile distinguere le due nozioni. Gli avversari di qualsivoglia sviluppo possono respingere crescita e sviluppo negando che sia possibile scorporarli. È possibile oltrepassare questa contraddizione? Il capitalismo ha interesse a far credere che crescita e sviluppo vanno sempre di pari passo, in quanto il miglioramento del benessere umano non può che passare attraverso l'accrescimento perpetuo della quantità di merci. Dobbiamo allora fondare, per il futuro - poiché oggi non esiste veramente - una distinzione radicale tra i due concetti: il miglioramento del benessere e lo sviluppo delle potenzialità umane si realizzano fuori dal sentiero della crescita infinita delle quantità prodotte e consumate, fuori dal sentiero della merce e del valore di scambio (21), ma su quello del valore d'uso e della qualità del tessuto sociale che può nascergli attorno. La parola d'ordine di decrescita, se venisse applicata indistintamente a tutti i popoli o a tutti i tipi di produzione, sarebbe ingiusta e inoperante. Prima di tutto, perché il capitalismo ci impone attualmente una certa decrescita, soprattutto quella dei beni e servizi di cui avremo più bisogno dal punto di vista sociale: trasporti pubblici, sanità, scuola, aiuto agli anziani ecc. Inoltre, perché non tutta la produzione è necessariamente inquinante o causa di degrado. Il prodotto interno lordo (pil), valutato dal punto di vista monetario, registra la crescita delle attività di servizio - anche quelle non di mercato - la cui pressione sugli ecosistemi in generale non è paragonabile a quella dell'industria e dell'agricoltura. La natura della crescita conta quindi almeno quanto la sua ampiezza. La necessità di diminuire l'impatto ecologico, che è urgente, non implica la decrescita di tutte le produzioni, senza distinzione tra loro, né che non vi siano differenze tra coloro a cui vengono destinate. L'utilizzazione planetaria delle risorse deve essere organizzata in modo tale da permettere ai paesi poveri di avviare la crescita per soddisfare i loro bisogni essenziali, mentre i più ricchi devono diventare economi. Per i paesi poveri, imporre un modello dall'esterno non può che portare alla distruzione delle radici culturali e costituirebbe un ostacolo a uno sviluppo realmente emancipatore. Nei paesi ricchi, conviene pensare le politiche in funzione della transizione che deve essere avviata: il progressivo sganciamento della crescita dallo sviluppo. Questo non passa più attraverso una decrescita cieca, inaccettabile per la maggior parte dei cittadini, ma attraverso un rallentamento mirato che permetta di avviare la trasformazione dei processi produttivi e anche quella delle rappresentazioni culturali: il rallentamento della crescita, come prima tappa prima di intraprendere il rallentamento selettivo, a cominciare da quello delle attività nocive, per un'economia riorientata verso la qualità dei prodotti e dei servizi pubblici, una ripartizione primaria dei redditi più equa e una riduzione regolare del tempo di lavoro in relazione all'aumento della produttività, solo modo per promuovere l'occupazione al di fuori della crescita. E questo, sapendo che qualsiasi rimessa in causa del modello di sviluppo attuale è realista solo a condizione di rimettere in causa simultaneamente i rapporti sociali capitalisti che le fanno da supporto (22). Definire lo sviluppo come l'evoluzione di una società che utilizzi l'aumento della produttività non per accrescere indefinitamente una produzione generatrice di inquinamento, di degrado dell'ambiente, di insoddisfazione di desideri rimossi, di ineguaglianze e di ingiustizie, ma per ridurre il lavoro di tutti, dividendo in modo più equo i guadagni che derivano dall'attività, non costituisce un ritorno indietro rispetto alla critica dello sviluppo attuale. Non condanna a restare all'interno del paradigma utilitarista, a condizione che l'aumento della produttività si ottenga senza degradare né le condizioni di lavoro né la natura. A partire dal momento in cui si ammette che l'umanità non tornerà più all'epoca di prima dello sviluppo e che, per questo, gli aumenti di produttività esistono ed esisteranno sempre, la loro utilizzazione deve essere pensata e resa compatibile con la riproduzione dei sistemi viventi. È possibile avanzare l'ipotesi che la riduzione del tempo di lavoro possa contribuire a levare dal nostro immaginario il fantasma di dover avere sempre di più per stare meglio e che l'estensione dei servizi pubblici, della protezione sociale e della cultura, sottratti all'appetito del capitale, sia fonte di una ricchezza incommensurabile con quella privilegiata dal mercato. Dietro alla questione dello sviluppo sono in gioco le finalità del lavoro e quindi la strada verso una società economa e solidale.

note:

(1) Gro Harlem Brundtland, «Il futuro di tutti noi», Rapporto della Commissione mondiale sull'ambiente e lo sviluppo, Mondadori, 1987. Il rapporto è servito di base alla Conferenza dell'Onu di Rio de Janeiro nel 1992.

(2) Ibid., p.XXIII.

(3) Undp, Lo sviluppo umano, Rapporto 2002, Rosenberg & Sellier, (4) L'intensità energetica (e più in generale l'intensità delle risorse naturali) della produzione è la quantità di energia (o di risorse naturali) necessaria per produrre un euro di pil.

(5) Aie, Oil crises and climate challeges: 30 years of energy use in IEA countries, 2004, www.iea.org (6) Dichiarazione del presidente della Banca mondiale James Wolfensohn, citato da Babette Stern, «Les objectifs de réduction de la pauvreté ne seront pas atteints», Le Monde, 24 aprile 2004.

(7) Unctad, Rapporto sui paesi meno avanzati, 2004, citato da Babette Stern, «Pour pes pays les moins avancés, la libéralisation commerciale ne suffit pas à réduire la pauvreté», Le Monde, 29 maggio 2004.

(8) Per Durkheim l'anomia è l'assenza o la scomparsa di valori comunitari e di regole sociali.

(9) Jacques Attali, «Un agenda de croissance fabuleux», Le Monde, «2004, l'année du rebond», 4 e 5 gennaio 2004.

(10) L'entropia definisce il degrado dell'energia.

(11) Redifining Progress, www.progress.org (12) Nicholas Georgescu-Roegen, La décroissance: Entropie-Ecologie-Economie, Sang de la terre, Parigi, 1995.

(13) Gilbert Rist, «Le "développement": la violence symbolique d'une croyance», in Christian Comeliau (a cura di), «Brouillons pour l'avenir, Contributions au débat sur les alternatives», Les Nouveaux Cahiers de l'Iued, Ginevra, n.14, Puf, Parigi, 2003, p.147.

(14) Serge Latouche, «Sviluppo, una parola da cancellare», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2001. Un ossimoro è la giustapposizione di due termini contraddittori.

(15) Cornélius Castoriadis, Le monde morcelé, Les carrefours du labyrinthe 3, Seuil, Parigi, 1990, p.193.

(16) Silence, Objectif décroissance, Vers une société harmonieuse, Parangon, Parigi, 2003.

(17) Serge Latouche, «Il faut jeter le bébé plutôt que l'eau du bain», in Christian Comeliau (a cura di), op. cit., p.127.

 
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