ARTICOLO

 

Cause prossime e remote della crisi petrolifera

Nicolas Sarkis

da "LE MONDE diplomatique" - Luglio 2004
 
Aumento della domanda, esiguità dell'offerta

Quale energia utilizzerà l'umanità nei prossimi decenni? A dispetto degli scenari che puntano sul nucleare, il petrolio fornirà ancora l'essenziale: secondo l'Agenzia internazionale dell'energia (Aie), la domanda crescerà dell'1,9% ogni anno e passerà dagli 80 milioni di barili al giorno nel 2003 a quasi 120 nel 2020. E, per quella data, la parte dei paesi arabi nella produzione dovrebbe raggiungere il 41%, contro il 25% attuale. Questo è lo sfondo della crisi attuale.

Nicolas Sarkis

Quali sono le cause dell'attuale e forte aumento dei prezzi del petrolio? Si tratta di un fenomeno congiunturale e transitorio o è l'inizio di un ciclo di crescita stabile dei prezzi energetici? Ci troviamo di fronte, come temono alcuni, ai segni premonitori di una nuova grande crisi petrolifera, provocata dallo squilibrio nei ritmi di sviluppo dell'offerta e della domanda? Questi interrogativi e timori sono più che legittimi in quanto il mercato petrolifero è entrato in fermento due mesi dopo l'invasione dell'Iraq nel marzo-aprile 2003. Un'invasione che secondo alcuni avrebbe dovuto portare a un rapido aumento della produzione irachena e a una riduzione dei prezzi a circa 20 dollari il barile. Al contrario, la crescita dei prezzi completamente imprevista si è addirittura accelerata all'inizio della primavera 2004, cioè proprio durante il periodo in cui la domanda mondiale registra la sua riduzione stagionale di circa 2 milioni di barili al giorno. Tuttavia la disponibilità constatata dopo l'ultima riunione dell'Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec) (1), il 3 giugno 2004, e l'annuncio di una crescita delle riserve negli Stati uniti non hanno dissipato le preoccupazioni. La domanda mondiale dovrebbe infatti crescere nei prossimi mesi e i fattori che hanno fatto schizzare i prezzi a oltre 40 dollari il barile non sono scomparsi. Questi fattori riguardano al tempo stesso il contesto geopolitico mondiale e gli aspetti strumentali del mercato. Se la situazione in Iraq non fosse quella che è e se l'Arabia Saudita fosse rimasta al riparo dagli attentati, la crescita dei prezzi non sarebbe stata così rapida. In Iraq, l'insicurezza e i sabotaggi a ripetizione delle installazioni petrolifere hanno fatto precipitare la produzione a 1,33 milioni di barili al giorno (mbg) nel 2003 (contro i 2,12 mbg del 2002). Nonostante una risalita a 2,3 mbg nel maggio 2004, la produzione rimane ben al di sotto dei livelli del 1999-2001. Inoltre sono stati bloccati i contratti negoziati o firmati dal regime destituito con diverse società internazionali per sfruttare nuovi giacimenti e per raddoppiare la produzione in sei-otto anni. Nel frattempo in Arabia Saudita, primo esportatore di petrolio del mondo, i numerosi attentati che si sono verificati - in particolare quelli che hanno preso di mira un complesso petrolchimico e alcune zone petrolifere - hanno destato viva preoccupazione. La moltiplicazione di questi attentati fa naturalmente temere la loro ripetizione in Arabia saudita, in Iraq e in altre parti del Golfo Persico, con la possibile conseguenza di turbare o interrompere più o meno a lungo le esportazioni. La grande differenza rispetto a quello che era successo nel 1973 o nel 1979 è che oggi non si tratta di un embargo deciso dai governi in carica o di un cambiamento di regime politico (come in Iran dopo la rivoluzione islamica), ma di atti terroristici completamente imprevedibili compiuti da gruppi senza volto. Peggio ancora, le minacce di destabilizzazione alle quali il regime saudita è ormai confrontato rimettono in discussione la possibilità per questo paese di continuare a svolgere il suo ruolo determinante nell'approvvigionamento della domanda petrolifera mondiale. In linea di massima le tensioni provocate dal degrado della situazione in Iraq e in Arabia saudita sono responsabili di gran parte dell'ultimo aumento dei prezzi, cioè del cosiddetto «premio di rischio». Quest'ultimo, stimato fra i 6 e i 10 dollari per barile a seconda delle circostanze, comprende sia l'aumento dei costi di assicurazione sia le conseguenze degli acquisti speculativi sui mercati a termine ai quali le grandi banche di investimenti hanno destinato decine di miliardi di dollari. Le tensioni geopolitiche e gli acquisti speculativi hanno in realtà amplificato una tendenza al rialzo che affonda le sue radici nell'evoluzione dell'offerta e della domanda. A questo proposito tre fattori essenziali meritano di essere sottolineati. Il primo, che si ha tendenza a dimenticare, riguarda l'impatto dei conflitti etnici e degli scioperi in Nigeria sulla produzione petrolifera di questo paese. Anche lo sciopero che ha paralizzato l'industria petrolifera del Venezuela nel 2003 ha comportato una forte caduta della produzione petrolifera in questo paese. Il secondo fattore risiede nei colli di bottiglia della raffinazione nei grandi paesi consumatori. A livello mondiale e in seguito alla carenza di investimenti degli ultimi anni, le capacità non superano attualmente gli 83,6 mbg, cioè poco più del massimo di 82,5 mbg registrato nel febbraio 2004. Inoltre la struttura di queste capacità non è più adatta all'evoluzione della domanda di prodotti raffinati. È soprattutto il caso degli Stati uniti, che consumano almeno 9,6 milioni di barili ogni giorno, e dove una carenza di benzina ha cominciato a manifestarsi dall'inizio della driving season in maggio, provocando al tempo stesso un aumento dell'inflazione. La crescita dei prezzi dei prodotti raffinati ha naturalmente fatto aumentare i prezzi del petrolio greggio. Tutti i buchi dell'oro nero Il terzo fattore è rappresentato dalla decisione annunciata il 10 aprile dall'Opec di ridurre il suo tetto di produzione a 23,5 mbg e dalle forti proteste che questa scelta ha suscitato nei paesi industrializzati, con la conseguenza di aumentare le tensioni e di accentuare l'aumento dei prezzi. Tuttavia i paesi Opec non hanno ridotto la loro produzione effettiva, e l'offerta globale è rimasta sufficiente per soddisfare la domanda. In realtà le statistiche che circolano a proposito dei dati del mercato petrolifero sono estremamente inaffidabili. Per quanto incredibile possa sembrare, i paesi membri dell'Opec pubblicano i dati sulla loro produzione effettiva solo con tre mesi di ritardo. Ciò alimenta la confusione fra le loro quote teoriche di produzione e la loro produzione effettiva, che di solito supera le quote previste. Operatori e osservatori sono quindi costretti a compiere una sorta di attività di spionaggio, che consiste nel difficile compito di registrare i movimenti delle petroliere che lasciano i porti di carico e a rivolgersi a fonte secondarie per valutare, per quanto è possibile, il volume di petrolio prodotto ogni giorno dai paesi esportatori. Oltre a riguardare i dati effettivi della produzione, la mancanza di trasparenza complica anche la questione delle capacità di produzione e l'evoluzione delle capacità non utilizzate dai diversi paesi esportatori. Questo elemento diventa particolarmente importante quando le capacità non utilizzate sono basse, come nel caso attuale. Secondo le stime più attendibili, le capacità non utilizzate sono nel mondo dell'ordine di 2,5-3 mbg, di cui la maggior parte in Arabia saudita, mentre i paesi non membri dell'Opec e gran parte dei paesi membri producono a pieno regime. Basterebbe quindi un problema serio nelle esportazioni saudite o irachene, uno sciopero o un incidente grave nell'uno o nell'altro dei paesi esportatori per provocare un deficit nell'offerta e una nuova impennata dei prezzi sul mercato. Anche questo rischio ha contribuito all'ultimo aumento dei prezzi, tanto più che la crescita prevista della domanda mondiale nella seconda metà di quest'anno metterà ancora più in difficoltà le scarse capacità ancora disponibili. Un altro grande buco nero nelle statistiche petrolifere riguarda i dati sulle riserve accertate e sull'affidabilità delle proiezioni a medio e lungo termine sull'offerta e sulla domanda globale. Dopo che una società internazionale quotata in borsa come la Shell riduce, nello spazio di pochi mesi, di circa un quarto le sue riserve, non deve sorprendere che vengano sollevati dei dubbi sulle cifre pubblicate dalle grandi società private. Più gravi sono le incertezze che da alcuni anni suscitano le statistiche ufficiali sulle riserve accertate della Russia e dei principali paesi membri dell'Opec, poiché queste riserve non sono controllate da organismi indipendenti. Si tratta di un problema importante: le riserve delle otto principali società nazionali dei paesi Opec sono, teoricamente, di 662 miliardi di barili, contro i 57 miliardi di barili detenuti dalle otto più grandi società internazionali. La recente controversia suscitata dal rapporto Simmons (2) a proposito dello stato dei giacimenti sauditi e delle possibilità reali di sviluppo delle riserve della Saudi Aramco, che rappresentano quasi un quarto del totale mondiale, ha aumentato le preoccupazioni. Di fronte a una domanda mondiale che dovrebbe passare da 80,3 mbg nel 2004 a quasi 120 mbg nel 2025, cioè a più del doppio del livello di trenta anni fa, l'offerta sarà in grado di adeguarsi? La maggior parte del greggio prodotto può essere fornito solo dal Medioriente, la cui produzione dovrebbe quindi più che raddoppiare nel frattempo per evitare problemi di approvvigionamento. Sul medio termine gli ostacoli sono di natura essenzialmente politici, cioè la necessità di avere un clima favorevole agli enormi investimenti necessari, stimati in questa regione in circa 27 miliardi di dollari all'anno. Ma siamo ben lontani da questa situazione. Sul lungo periodo invece l'incognita, in Medioriente come nel resto del mondo, riguarda la data che segnerà, in un paese dopo l'altro, l'inizio dell'irreversibile declino della produzione. I dibattiti che si sono svolti durante la conferenza internazionale organizzata nel maggio scorso a Berlino dall'Association for the Study of Peak Oil (Aspo) non sono molti rassicuranti. Indipendentemente dalle posizioni della scuola «ottimista» e «pessimista», le scoperte si fanno rare e sempre meno importanti: un solo giacimento gigante (Kashagan, in Kazakistan) è stato scoperto nel corso degli ultimi trenta anni e le nuove scoperte non riescono a compensare il petrolio estratto ogni anno. Come ha brillantemente osservato un geologo, l'esplorazione petrolifera è diventata come una battuta di caccia nella quale i progressi tecnologici hanno permesso al cacciatore di migliorare le prestazioni del proprio fucile, ma la selvaggina diventa sempre più piccola e più rara. Altra realtà da sottolineare: dal 2001 al 2005 il forte aumento della domanda mondiale e il declino delle riserve e della produzione nei paesi industrializzati faranno passare la dipendenza degli Stati uniti nei confronti dell'oro nero dal 55,7 al 71%, quella dell'Europa occidentale dal 50,1 al 68,6% e quella della Cina dal 31,5 al 73,2%, senza dimenticare gli altri paesi consumatori. Questa crescente dipendenza in un settore così vitale come l'energia spiega la «guerra per il petrolio» che coinvolge le grandi potenze e le loro società petrolifere per il controllo delle riserve in Medioriente, in Africa (3) e nell'Asia centrale, senza dimenticare l'ultima guerra in Iraq (4). Non deve stupire quindi che l'interpretazione dell'ultimo aumento dei prezzi abbia provocato animate discussioni. Per molti è stato il segnale che preannuncia una grave crisi, provocata dall'inadeguatezza fra una domanda in aumento a un ritmo sostenuto e delle capacità produttive in crisi. Lo sviluppo di queste ultime nei prossimi anni dipenderà tanto dalla stabilità politica, soprattutto in Medioriente, quanto dal volume delle riserve ancora disponibili. A più lungo termine, l'esaurimento - lento ma inesorabile - delle riserve renderà sempre più inevitabile la progressiva transizione verso fonti di energia alternative. Oltre alla stabilità politica, questa transizione richiederà dei prezzi dell'energia sufficientemente interessanti per rendere possibile gli investimenti energetici - stimati dall'Agenzia internazionale per l'energia in 16.480 miliardi (in dollari 2000) per il periodo 2001-2030 - necessari sia all'industria del petrolio e del gas che allo sviluppo di altre fonti di energia. In questo senso si può dire che le preoccupazioni suscitate dall'ultimo aumento dei prezzi del petrolio abbiano prodotto anche un effetto positivo, in quanto hanno dato uno scossone a quel clima di torpore generalizzato che si era instaurato grazie a un'offerta petrolifera più che sufficiente e a dei prezzi che non avevano più superato, tenuto conto dell'inflazione, il loro massimo storico di 25 anni fa.

note:

* Direttore del Centro arabo di studi petroliferi e della rivista Le Pétrole et le gaz arabes.

(1) L'Opec comprende 11 paesi: Arabia saudita, Irak, Iran, Kuwait, Qatar, Emirati arabi uniti, Algeria, Libia, Nigeria, Venezuela e Indonesia.

(2) Matthew Simmons, che dirige la Banca d'investimento Simmons &Cie, è un consigliere del vicepresidente americano Richard Cheney e ha ispirato la nuova politica energetica degli Stati uniti.

(3) Si legga Jean-Christophe Servant, «Offensiva sull'oro nero africano», Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2003.

(4) Si legga Yahya Sadowski, «Verità e menzogne sul nodo petrolifero», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile 2003. (Traduzione di A.D.R.)

 
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