“Un insieme di errori, così
il serbatoio è saltato”
Secondo la consulenzadisposta
dai pm Tedeschini e Bilottaa innescare la pressionepotrebbe
essere statoun flusso anomalodi vapori infiammabilida un
deposito all’altro “Il bilancio poteva essere più grave” Le
conclusioni della perizia sul tragico incidente avvenuto
nell’area bitumi della raffineria Api
REDAZIONALE
ANCONA - Poco personale
addetto alle piazzole, sovraccarico operativo, mancanza di
istruzioni chiare e di supporto dalla cabina di controllo,
strumentazione insufficiente. Sarebbe stato “un concorso di
errori e di situazioni operative sfavorevoli” a far saltare
in aria come un missile un serbatoio con 592 metri cubi di
bitume, innescando il tragico rogo dell’8 settembre 2004
nell’area bitumi della raffineria Api, che uccise
l’autotrasportatore Sebastiano Parisse e ne ustionò altri
tre. Lo sostiene nelle conclusioni della sua perizia il
professor Arrigo Pareschi, ordinario di impianti industriali
alla facoltà di Ingegneria di Bologna, uno dei due tecnici
incaricati dai pm Tedeschini e Bilotta di ricostruire la
dinamica e le eventuali responsabilità dell’incidente. Il
serbatoio Tk145, quello che collassò seppellendo di bitume
bollente il trasportore che stava caricando l’autobotte,
ebbe secondo la perizia “un cedimento strutturale nel
collegamento tramite saldatura del mantello cilindrico alla
base piana del serbatoio”. Ma la dinamica dell’incidente
dimostra che il “cedimento strutturale non è stata la causa
dell’incidente, bensì la conseguenza di una forte
sovrappressione determinatasi nel serbatoio”. Non ha ceduto
invece, almeno prima dell’incidente, il circuito hot-oil, la
serpentina che riscalda il bitume nei serbatoi, su cui
s’erano appuntati all’inizio i sospetti. Ma secondo il
perito potrebbe esserci stata una microfrattura in
corrispondenza con il bocchello d’ingresso dell’hot-oil.
L’analisi delle operazioni eseguite quella mattina, secondo
Pareschi, dimostra “che è possibile siano state eseguite
operazioni imperfette che possano aver portato a
collegamenti fuori norma tra serbatoi e bracci di carico con
possibile passaggio di vapori infiammabili dal serbatoio
Tk252 al serbatoio Tk145”. L’urto di correnti fluide di
bitume, generando “vibrazioni impulsive” potrebbe aver
provocato “un cedimento in un punto debole del piping
esterno, e, in presenza di scintille, innesco di combustione
del bitume ai piedi del bitume e di seguito dentro allo
stesso, fino allo scoppio per sovrappressione esterna”.
Altre due possibili cause del fenomeno di sovrappressione
sono individuate dall’altro perito, il professor Amedeo
Lancia, docente di ingegneria chimica ambientale
all’Università di Napoli, secondo cui a far saltare il
serbatoio come una pentola a pressione potrebbe essere stata
un’immissione di composti volatili tipo kerosene (il perito
ipotizza come possibile via d’ingresso il circuito di
scarico del sovraccarico di autobotti) o l’immissione di
acqua con successiva vaporizzazione all’interno del
serbatoio per le elevate temperature. I periti, in
particolare Pareschi che se ne occupava più direttamente,
affermano che, anche per lo stato dell’area dopo
l’incidente, non sono emersi elementi evidenti di una
cattiva manutenzione o di una scarsa qualità dei materiali.
Pure la disposizione dei serbatoi e la distanza tra loro,
secondo i periti, non evidenziano violazioni di norme di
sicurezza, anche se Pareschi ha qualcosa da ridire sui
quattro bracci di carico del bitume sistemati nella zona
dell’incidente, “molto stretta e sacrificata”. “Per fortuna
al momento dell’incidente solo un’autobotte con il sua
autista era presente in questa zona”, afferma, altrimenti
“il bilancio sarebbe stato più grave per l’oggettiva
difficoltà di allontanarsi”.
Ventisette indagati
REDAZIONALE
ANCONA - Nell’inchiesta
sull’incidente dell’8 settembre 2004 la procura ipotizza i
reati di incendio e omicidio colposo a carico di 27 tra
manager, tecnici e anche semplici operai. La necessità di
una perizia in tempi brevi aveva indotto i pm allargare al
massimo il ventaglio degli indagati. Ci sono i vertici della
raffineria e quelli che videro la morte in faccia, in quella
mattina maledetta. Ci sono top manager come l’amministratore
delegato Franco Brunetti e semplici operai come Luca
Bellagamba e Marco Capotondi, i due addetti al carico in
servizio nell’area bitumi alle 7 e 20 di quel mercoledì,
quando videro un serbatoio zompare in aria. C’è il direttore
del petrolchimico Franco Bellucci e suoi vice, gli ingegneri
Enzo Maurizi e Vincenzo Cleri, ma c’è pure un componente
della Rsu, il sindacato interno, l’addetto alla manutenzione
Alessandro Veroli. |
Dirigenti Api assolti, la
Procura non è d’accordo
IL ROGO DEL 25 AGOSTO 1999.
La Tedeschini ricorre in appello contro la sentenza che ha
condannato soltanto un operaio
di LUCIA MOSCA
FALCONARA Un solo
responsabile. Una sola condanna. Ma ora si preannuncia
battaglia in appello. Il processo per il rogo del 25 agosto
1999 all’Api ha visto il giudice Vincenzo Capezza emettere
lo scorso 5 maggio una sentenza che limitava le
responsabilità della tragedia al solo tecnico addetto alla
manutenzione della conduttura tra due depositi di carburante
mentre proscioglieva i vertici della raffineria, tra cui
l'allora direttore Giovanni Saronne e l'attuale numero uno
Franco Bellocci, assolti in assenza di prove che fossero a
conoscenza delle valvole aperte e dell'allestimento della
linea 29. Ed è stato quindi Gaetano Bonfissuto, 56 anni, di
Ancona, addetto alla valvola 279, l'unico ad incassare una
condanna per la tragedia che costò la vita a Mario Gandolfi
e a Ettore Giulian: un anno e sei mesi con le attenuanti
generiche. Il pm Cristina Tedeschini aveva ipotizzato alcune
manchevolezze alla base dell'incidente: la conduttura
anomala, le valvole lasciate aperte e il cedimento della
pompa dell'aera Sif da cui si verificò la perdita di
carburante per colpa di una cattiva manutenzione. E la
stessa Tedeschini pochi giorni fa ha depositato l'istanza di
appello. Appello che si fonda principalmente su due ordini
di motivazioni. Primo: se è vero che era invalsa la prassi
di tenere le valvole aperte, come facevano i vertici a non
esserne a conoscenza? Secondo: il flusso che ha trovato
campo libero da una valvola "fiscale" come la 279 (che non
determinava quindi la sicurezza) ad una pompa in perfetto
stato non avrebbe potuto determinare da solo l'incidente.
Perché su questa pompa, comunque di riserva, da tempo non
venivano effettuate le necessarie operazioni di
manutenzione. Ed era perciò destinata a collassare. I
portavoce dei comitati di Fiumesino e Villanova, Massimo De
Paolis e Loris Calcina, ammettono di aver nutrito forti
perplessità dopo la sentenza emessa dal giudice Capezza.
«Perplessità tali - dicono - da ritenere necessario il
processo di appello, in modo che possa essere di nuovo
valutata l'eventuale responsabilità della dirigenza della
raffineria. L'esistenza di una generalizzata e scorretta
prassi di lavoro (la mancata chiusura di alcune valvole
nella zona movimentazione prodotti della raffineria) è stata
ammessa da alcuni testimoni che hanno personalmente operato
in quella maniera, ma è stata negata da altri, superiori e
controllori dei primi. Ciò ha evidenziato quantomeno uno
scollamento organizzativo nell'azienda e, di conseguenza,
una carente applicazione delle procedure gestionali
operative». Equilibrato l'assessore comunale all'Ambiente,
Giancarlo Scortichini, che pure ammette che «una sentenza di
primo grado che vede come unico condannato un operaio non
può che destare qualche perplessità. Se grazie all'appello
ci sarà la possibilità di effettuare una lettura più
approfondita della tragedia è un'opportunità quanto meno da
cogliere». |