RASSEGNA STAMPA 01.11.2005

 

CORRIERE ADRIATICO
“Un insieme di errori, così il serbatoio è saltato”

Secondo la consulenzadisposta dai pm Tedeschini e Bilottaa innescare la pressionepotrebbe essere statoun flusso anomalodi vapori infiammabilida un deposito all’altro “Il bilancio poteva essere più grave” Le conclusioni della perizia sul tragico incidente avvenuto nell’area bitumi della raffineria Api

REDAZIONALE

ANCONA - Poco personale addetto alle piazzole, sovraccarico operativo, mancanza di istruzioni chiare e di supporto dalla cabina di controllo, strumentazione insufficiente. Sarebbe stato “un concorso di errori e di situazioni operative sfavorevoli” a far saltare in aria come un missile un serbatoio con 592 metri cubi di bitume, innescando il tragico rogo dell’8 settembre 2004 nell’area bitumi della raffineria Api, che uccise l’autotrasportatore Sebastiano Parisse e ne ustionò altri tre. Lo sostiene nelle conclusioni della sua perizia il professor Arrigo Pareschi, ordinario di impianti industriali alla facoltà di Ingegneria di Bologna, uno dei due tecnici incaricati dai pm Tedeschini e Bilotta di ricostruire la dinamica e le eventuali responsabilità dell’incidente. Il serbatoio Tk145, quello che collassò seppellendo di bitume bollente il trasportore che stava caricando l’autobotte, ebbe secondo la perizia “un cedimento strutturale nel collegamento tramite saldatura del mantello cilindrico alla base piana del serbatoio”. Ma la dinamica dell’incidente dimostra che il “cedimento strutturale non è stata la causa dell’incidente, bensì la conseguenza di una forte sovrappressione determinatasi nel serbatoio”. Non ha ceduto invece, almeno prima dell’incidente, il circuito hot-oil, la serpentina che riscalda il bitume nei serbatoi, su cui s’erano appuntati all’inizio i sospetti. Ma secondo il perito potrebbe esserci stata una microfrattura in corrispondenza con il bocchello d’ingresso dell’hot-oil. L’analisi delle operazioni eseguite quella mattina, secondo Pareschi, dimostra “che è possibile siano state eseguite operazioni imperfette che possano aver portato a collegamenti fuori norma tra serbatoi e bracci di carico con possibile passaggio di vapori infiammabili dal serbatoio Tk252 al serbatoio Tk145”. L’urto di correnti fluide di bitume, generando “vibrazioni impulsive” potrebbe aver provocato “un cedimento in un punto debole del piping esterno, e, in presenza di scintille, innesco di combustione del bitume ai piedi del bitume e di seguito dentro allo stesso, fino allo scoppio per sovrappressione esterna”. Altre due possibili cause del fenomeno di sovrappressione sono individuate dall’altro perito, il professor Amedeo Lancia, docente di ingegneria chimica ambientale all’Università di Napoli, secondo cui a far saltare il serbatoio come una pentola a pressione potrebbe essere stata un’immissione di composti volatili tipo kerosene (il perito ipotizza come possibile via d’ingresso il circuito di scarico del sovraccarico di autobotti) o l’immissione di acqua con successiva vaporizzazione all’interno del serbatoio per le elevate temperature. I periti, in particolare Pareschi che se ne occupava più direttamente, affermano che, anche per lo stato dell’area dopo l’incidente, non sono emersi elementi evidenti di una cattiva manutenzione o di una scarsa qualità dei materiali. Pure la disposizione dei serbatoi e la distanza tra loro, secondo i periti, non evidenziano violazioni di norme di sicurezza, anche se Pareschi ha qualcosa da ridire sui quattro bracci di carico del bitume sistemati nella zona dell’incidente, “molto stretta e sacrificata”. “Per fortuna al momento dell’incidente solo un’autobotte con il sua autista era presente in questa zona”, afferma, altrimenti “il bilancio sarebbe stato più grave per l’oggettiva difficoltà di allontanarsi”.

Ventisette indagati

REDAZIONALE

ANCONA - Nell’inchiesta sull’incidente dell’8 settembre 2004 la procura ipotizza i reati di incendio e omicidio colposo a carico di 27 tra manager, tecnici e anche semplici operai. La necessità di una perizia in tempi brevi aveva indotto i pm allargare al massimo il ventaglio degli indagati. Ci sono i vertici della raffineria e quelli che videro la morte in faccia, in quella mattina maledetta. Ci sono top manager come l’amministratore delegato Franco Brunetti e semplici operai come Luca Bellagamba e Marco Capotondi, i due addetti al carico in servizio nell’area bitumi alle 7 e 20 di quel mercoledì, quando videro un serbatoio zompare in aria. C’è il direttore del petrolchimico Franco Bellucci e suoi vice, gli ingegneri Enzo Maurizi e Vincenzo Cleri, ma c’è pure un componente della Rsu, il sindacato interno, l’addetto alla manutenzione Alessandro Veroli.

 
MESSAGGERO
Dirigenti Api assolti, la Procura non è d’accordo

IL ROGO DEL 25 AGOSTO 1999. La Tedeschini ricorre in appello contro la sentenza che ha condannato soltanto un operaio

di LUCIA MOSCA

FALCONARA Un solo responsabile. Una sola condanna. Ma ora si preannuncia battaglia in appello. Il processo per il rogo del 25 agosto 1999 all’Api ha visto il giudice Vincenzo Capezza emettere lo scorso 5 maggio una sentenza che limitava le responsabilità della tragedia al solo tecnico addetto alla manutenzione della conduttura tra due depositi di carburante mentre proscioglieva i vertici della raffineria, tra cui l'allora direttore Giovanni Saronne e l'attuale numero uno Franco Bellocci, assolti in assenza di prove che fossero a conoscenza delle valvole aperte e dell'allestimento della linea 29. Ed è stato quindi Gaetano Bonfissuto, 56 anni, di Ancona, addetto alla valvola 279, l'unico ad incassare una condanna per la tragedia che costò la vita a Mario Gandolfi e a Ettore Giulian: un anno e sei mesi con le attenuanti generiche. Il pm Cristina Tedeschini aveva ipotizzato alcune manchevolezze alla base dell'incidente: la conduttura anomala, le valvole lasciate aperte e il cedimento della pompa dell'aera Sif da cui si verificò la perdita di carburante per colpa di una cattiva manutenzione. E la stessa Tedeschini pochi giorni fa ha depositato l'istanza di appello. Appello che si fonda principalmente su due ordini di motivazioni. Primo: se è vero che era invalsa la prassi di tenere le valvole aperte, come facevano i vertici a non esserne a conoscenza? Secondo: il flusso che ha trovato campo libero da una valvola "fiscale" come la 279 (che non determinava quindi la sicurezza) ad una pompa in perfetto stato non avrebbe potuto determinare da solo l'incidente. Perché su questa pompa, comunque di riserva, da tempo non venivano effettuate le necessarie operazioni di manutenzione. Ed era perciò destinata a collassare. I portavoce dei comitati di Fiumesino e Villanova, Massimo De Paolis e Loris Calcina, ammettono di aver nutrito forti perplessità dopo la sentenza emessa dal giudice Capezza. «Perplessità tali - dicono - da ritenere necessario il processo di appello, in modo che possa essere di nuovo valutata l'eventuale responsabilità della dirigenza della raffineria. L'esistenza di una generalizzata e scorretta prassi di lavoro (la mancata chiusura di alcune valvole nella zona movimentazione prodotti della raffineria) è stata ammessa da alcuni testimoni che hanno personalmente operato in quella maniera, ma è stata negata da altri, superiori e controllori dei primi. Ciò ha evidenziato quantomeno uno scollamento organizzativo nell'azienda e, di conseguenza, una carente applicazione delle procedure gestionali operative». Equilibrato l'assessore comunale all'Ambiente, Giancarlo Scortichini, che pure ammette che «una sentenza di primo grado che vede come unico condannato un operaio non può che destare qualche perplessità. Se grazie all'appello ci sarà la possibilità di effettuare una lettura più approfondita della tragedia è un'opportunità quanto meno da cogliere».

 
inizio pagina   rassegna stampa