«Amagliani non si smentisce»
di Marco Salustri
(Coordinatore comunale Margherita )
FALCONARA — L'assessore
Regionale Amagliani ancora una volta non si smentisce.
Anziché dare giustificazioni sulla sua metamorfosi repentina
sulla vicenda Api, che lo ha visto passare dalle ben note
posizioni radicali degli ultimi anni alle posizioni
possibiliste e onnicomprensive dell'oggi, risponde come suo
costume in modo scomposto, cercando di nascondere il suo
imbarazzo allargando il tiro dietro altre corresponsabilità
che non centrano. Noi ci siamo riferiti a sue dichiarazioni
e non di altri, rilasciate alcuni giorni fa in merito al
rinnovo della concessione alla raffineria che ci hanno fatto
dire e che ci fanno tuttora dire che il ruolo svolto
dall'assessore all'Ambiente non è affatto “perfetto” e
coerente come lui sostiene. Riteniamo che sia politicamente
sbagliato affermare che oggi non “emergono elementi contrari
alla proroga” perché ciò non è vero in quanto esistono atti
e documenti pubblici “relazioni CTR, CTU, ecc.” che lui
stesso richiama, che attestano situazioni di degrado
ambientale e di pericolo per la sicurezza dovuti alla
presenza della raffineria. Allora secondo noi è più corretto
invertire l'approccio al problema ribadendo che “al momento
non esistono le condizioni per il rinnovo della concessione”
e che il tavolo istituzionale dovrà lavorare nei prossimi
mesi per “costruire le condizioni di compatibilità tra
raffineria e città” che non può essere solo una questione di
prescrizioni. Ciò non è di poco conto, specie dopo l'
intervista rilasciata alcuni giorni fa dal presidente
dell'Api. Altra affermazione ribadita, non all'altezza di un
amministratore pubblico “perfetto”, è quella che non c'è da
chiedere alcuna contropartita all'azienda, quando è ormai
noto a tutti che nei programmi regionali concordati a
livello governativo è previsto il finanziamento pubblico per
centinaia di milioni di euro per spostare la linea
ferroviaria e la strada statale, proprio per creare alcune
di quelle condizioni di compatibilità da tutti auspicate.
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Il pesce della rada è
avvelenato
Le conclusioni di un'indagine
della Procura sull'inquinamento di Augusta
Un esame chiarirà se è la
causa della nascita di bimbi malformati
di Santino Calisti
SIRACUSA – Il pesce della
rada di Augusta è “malato”. La colpa sarebbe dei rifiuti
tossici che le industrie del polo petrolchimico hanno
scaricato per decenni in mare: un comportamento
“giustificato” sino alla metà degli anni Ottanta, in assenza
di leggi di tutela dell'ambiente, ma che, stando a una
clamorosa recente inchiesta, allo stabilimento Enichem di
Priolo avrebbero continuato a tenere sino a pochi mesi fa,
violando le severe normative nel frattempo entrate in
vigore. Il dato emerge da un esame disposto dalla Procura
della Repubblica nell'ambito di una delle tante inchieste
che puntano ad accertare in che misura le industrie
sarebbero responsabili di terribili malattie e gravi danni
all'ambiente. I risultati sono stati consegnati nei giorni
scorsi. «Le analisi – puntualizza il procuratore capo della
Repubblica Roberto Campisi – non sono state eseguite su un
solo esemplare, ma ripetute più volte e su più pesci di
varie specie pescati nel mare della rada di Augusta. Tutte
sono risultate positive». Nei pesci, in altre parole,
sarebbero state trovate tracce di sostanze tossiche prodotte
dagli stabilimenti della zona industriale, tra cui il
famigerato mercurio, sostanza che potrebbe essere la causa
della nascita di bambini malformati, il cui numero, negli
ultimi anni è schizzato in alto, sino ad attestarsi su un
livello che è quasi tre volte superiore al limite di
tollerabilità fissato dall'Organizzazione Mondiale della
Sanità. Si chiude, dunque, il cerchio? La Procura della
Repubblica, dopo anni di indagini, ha finalmente la prova
che la causa delle malformazioni e anche di alcune forme di
malattie tumorali è l'inquinamento delle industrie? Non
ancora. Alla catena manca ancora un anello, che i magistrati
contano di potere aggiungere al più presto. L'anello
mancante dovrebbe fornirlo un'altra consulenza, che il
procuratore capo della Repubblica Roberto Campisi ha detto
che affiderà quanto prima. Servirà a provare che
l'avvelenamento dei pesci e dei molluschi della rada di
Augusta, finiti per tanti anni sulle tavole di tante
famiglie (adesso non più, perché in quello specchio di mare,
alla luce delle notizie allarmanti emerse dalle inchieste
giudiziarie, la Capitaneria di Porto ha vietato la pesca),
può avere causato sull'uomo i terribili effetti su cui si
sta indagando. La magistratura ha già un dato scientifico
che proverebbe questa relazione, ma si trattrebbe di un dato
più statistico che strettamene legato alle vicende di cui si
occupa l'inchiesta. Ecco spiegato il motivo per cui si è
resa necessaria la consulenza annunciata ieri dal
procuratore. Provare ciò che per il momento è solo
un'ipotesi, anche se la concatenazione tra gli elementi sin
qui raccolti appare ovvia, non è cosa semplice. Quanta
sostanza tossica c'è in un pesce avvelenato? E quanto
bisogna assumerne per rischiare di ammalarsi o di mettere al
mondo figli malformati? Sono queste le principali domande
alle quali la magistratura siracusana cerca le risposte con
la consulenza che si appresta ad affidare. È il nodo
cruciale dell'inchiesta, la ricerca di quello che in gergo
giudiziario chiamano “nesso di causalità”. Solo quando
questo dato emergerà la Procura della Repubblica potrà dire
di avere in mano le carte per trascinare dinanzi al giudice
qualcuno con buone possibilità di dimostrarne la
colpevolezza. Anche se un precedente abbastanza recente,
quello di Porto Marghera, induce ad essere molto cauti. In
quel caso gli imputati rispondevano di centinaia di operai
che erano morti o si erano gravemente ammalati lavorando, a
contatto con sostanze altamente tossiche, negli stabilimenti
dell'Enichem. L'esito del processo sembrava scontato, ma poi
sappiamo tutti com'è andata a finire.
Un collegamento con
l'inchiesta sui rifiuti tossici
di Santino Calisti
SIRACUSA – Delle numerose
inchieste che la magistratura siracusana ha avviato da
qualche anno a questa parte sulle conseguenze che
l'inquinamento delle industrie ha avuto e continua ad avere
sulla salute dell'uomo e sulla qualità dell'ambiente, la più
clamorosa è senz'altro quella che lo scorso gennaio è
sfociata in diciotto arresti di dirigenti e responsabili
delle produzioni dello stabilimento Enichem di Priolo.
L'inchiesta proprio in questi giorni è tornata “calda”. Al
giudice delle indagini preliminari è arrivata l'ennesima
richiesta di remissione in libertà dei cinque indagati
ancora agli arresti domiciliari: i direttori di stabilimento
Giuseppe Genitori d'Arrigo, Giuseppe Rivoli e Gaetano Claves,
e i responsabili del settore ambiente e sicurezza e della
tenuta dei registri di carico e scarico dei rifiuti Giuseppe
Farina e Luigi Russo. La Procura della Repubblica ha
preannunciato che il suo parere sarà contrario. Nello stesso
tempo per domani è stata convocata una conferenza stampa per
commentare le motivazioni dell'ordinanza con cui il
Tribunale della Libertà ha annullato tredici dei diciotto
arresti. I magistrati vogliono con ogni probabilità
evidenziare che è stata riconosciuta l'esistenza di gravi
indizi di colpevolezza contro gli indagati. La consulenza
annunciata ieri dal procuratore capo Roberto Campisi ( della
quale riferiamo nell'articolo accanto ) dovrebbe creare un
collegamento tra l'inchiesta sui rifiuti tossici che l'Enichem
avrebbe smaltito in violazione delle leggi e quella sui
bambini nati malformati, della quale il magistrato ha già a
disposizione i risultati di tre accertamenti scientifici. Ci
sono poi le inchieste sulle discariche abusive di residui
industriali e sulle infiltrazioni di greggio nella falda
idrica di Priolo. In relazione a quest'ultima vicenda
proprio nei giorni scorsi il pm Maurizio Musco ha disposto
il sequestro dei 207 serbatoi della raffineria ex Agip, da
pochi mesi gestita dalla società Erg-Med. I magistrati
ritengono che i serbatoi, ciascuno dei quali contenere sino
a 25 mila tonnellate di greggio, abbiano perdite e il
liquido inquinante si infiltra nel sottosuolo. L'allarme è
scattato circa un anno fa, quando un agricoltore, Sebastiano
Cannamela, si è accorto che dal pozzo che usava per irrigare
la sua campagna, veniva fuori non più acqua, ma petrolio. Da
quel giorno sono scattati interventi per arginare il
pericolo ed evitare, prima di ogni cosa, che le perdite di
greggio si espandessero e scendessero più in profondità,
raggiungendo la falda da cui viene prelevata l'acqua che
arriva nelle case degli abitanti di Priolo. Ma sulla causa
del disastro ambientale non c'è ancora piena chiarezza.
L'inchiesta della magistratura punta a colmare tale lacuna. |