MESSAGGERO |
Lavoro a
rischio «O si resta a Falconara o l’Api chiude tutto»
Cinque mesi ancora e poi la
spada di Damocle sul futuro dell’Api taglierà in due il
destino di Falconara. O di qua o di là. Se non sarà
rinnovata la concessione alla raffineria il rovescio della
medaglia sarà pesante. «Il futuro dell’Api - ha detto al
Messaggero il direttore Bellucci - è legato a Falconara».
Niente ipotesi di riconversione o di trasferimento (si era
parlato anche di Albania). E la logica conclusione sarà che
per le maestranze, circa 2000 unità, non potranno in alcun
modo essere reimpiegate. «E non è vero che il petrolio non
servirà più nei prossimi anni perché verrà impiegato anche
per produrre l’idrogeno».
Il futuro non è pensabile
altrove. Il servizio è legato all’incremento del fabbisogno
locale: nelle Marche sviluppo oltre la media nazionale
FALCONARA - «Il futuro della
raffineria è possibile solo qui». E’ l’opinione di Franco
Bellucci, direttore dell’Api di Falconara. Quindi se all’Api
non venisse concesso il rinnovo della concessione lo
stabilimento cesserebbe la produzione. Dopo le tante prese
di posizione sulla permanenza o meno del petrolifero in
città, le diverse opinioni raccolte, le trattative fra le
parti, ancora sul futuro dell’Api non c’è niente di certo.
Solo cinque i mesi rimasti per decidere, senza però progetti
alternativi. Gli stessi studi in campo, compresi quelli
dello Svim, hanno come oggetto la complessità dell’area ad
alto rischio e eventuali fonti energetiche sostitutive.
Nessuno ha come tesi finale la delocalizzazione
dell’industria. I Verdi, compatti, sia a livello comunale,
provinciale che regionale, hanno ribadito il loro no al
rinnovo della concessione per il forte inquinamento che
condizionerebbe, oltre al suolo, anche il mare. Tuttavia
neppure loro hanno in mano un progetto alternativo. Ma lo
avevano chiesto al consiglio comunale di Falconara dove era
stato proposto di destinare parte del disavanzo di bilancio
alla realizzazione di uno studio di riconversione - che oggi
non c’è - della raffineria, prima della scadenza della
concessione. Ora appunto mancano solo cinque mesi, e dopo le
battaglie giudiziarie vinte dagli enti locali per annullare
la vecchia concessione, rilasciata dal Ministero
dell’Industria sopra le loro teste, gli sforzi non sono
stati concentrati anche sull’ipotetico dopo Api. Su cosa
fare al suo posto. Una mancanza che potrebbe fare la
differenza, se nel tempo rimasto nessuno è in grado di
tirare fuori validi progetti. La raffineria, dal canto suo,
secondo quanto ci riferisce il direttore Bellucci, non
sembra aver alcun progetto in cantiere per un’eventuale
riconversione dello stabilimento in un altro luogo. Quindi
dall’Api nessuna possibilità di reimpiegare i dipendenti che
non lavorerebbero più a Falconara. «Questa raffineria è nata
qui – spiega Bellucci – l’area tributaria del nostro
prodotto è nella regione. Per questo il suo futuro è
pensabile solo qui. Il servizio che diamo è in maggior parte
locale, la nostra crescita è stata resa possibile grazie
all’incremento del fabbisogno regionale. Le Marche infatti
hanno avuto un tasso di sviluppo addirittura superiore alla
media nazionale». Ma se alla fine non vi rilasciassero la
concessione? «Sarebbe la chiusura. Non ci sono alternative».
Non avete mai studiato altre dislocazioni? «No». C’è chi ha
tirato in ballo qualche tempo fa l’Albania. Vi avevano
suggerito di portare là la produzione, davvero non ci avete
mai pensato? «Lo stabilimento serve qui. Portare il prodotto
petrolifero nella zona facendolo arrivare da altre parti
costerebbe molto di più e non converrebbe. E poi non
dimentichiamoci dell’energia elettrica che forniamo a tutta
la regione». Però tra anni potreste essere costretti a
lasciare comunque il sito. Stanno studiando fonti
energetiche alternative, il petrolio perderà il suo ruolo
centrale e la stessa raffineria potrebbe risentirne. E’
vero? «In realtà i prodotti petroliferi serviranno sempre di
più. Le proiezioni tra 50 anni dicono che il petrolio
coprirà ancora il 50-60% del fabbisogno». Ma come la mette
con l’idrogeno? «Per produrlo serve il petrolio, stiamo già
facendo degli studi al riguardo. Certo, dovremmo adeguare
gli impianti, ma saremmo in grado di fornirlo». Insomma,
come dire, per Bellucci, la raffineria, così o in altra
veste, sembra destinata a rimanere e a consolidarsi sul
territorio, addirittura grazie alle nuovi fonti energetiche
che invece molti indicavano come la possibile causa della
morte dello stabilimento. Se consideriamo, poi, che il
governo centrale non pare prevedere cambiamenti nel piano
energetico nazionale per i prossimi anni, si comprende bene
come nessuno abbia intenzione di eliminare l’Igcc, la cui
attività però è ben collegata al resto dello stabilimento.
Un incastro perfetto, difficile da rompere. Se poi non ci
sono ancora oggi alternative valide i lavoratori hanno
chiesto «perché, dateci almeno quei 2000 posti di lavoro che
ci togliereste e con cui noi andiamo avanti ogni mese».
La situazione
LA STORIA - Una raffineria
sviluppatasi fra gli anni 70 e quelli 80, l’api di Falconara
inizialmente era nata solo come deposito. Poi lo sviluppo a
fronte di una domanda crescente di prodotto petrolifero e di
un’area, quella in cui sorgeva il deposito, ideale. Vicina
al mare, alla ferrovia e alle principali strade.
LO SVILUPPO - Dai 7 ettari
originari del 1954, l’Api comincia a crescere, a costruire
serbatoi e a lavorare a pieno regime. Compatibilità
ambientale e salvaguardia territoriale sono parole allora
poco soppesate. E la raffineria si espande, acquistando
anche alcune case verso il mare.
OGGI - Conta 70 ettari, di
cui parte inquinati dagli idrocarburi accumulatisi negli
anni. Le conseguenze si pagano solo ora con una bonifica
costosa, lunga e complessa, ma in cui il Comune crede molto.
I DIPENDENTI - La raffineria
occupa oggi 2000 persone tra dipendenti diretti e quelli
delle ditte appaltatrici. Diversi gli incidenti accaduti, ma
è del 1999 il più grave in cui morirono due operai.
Mandracchio inquinato, il
Comune batte cassa
Blob alla Fiera. Il manager
dell’azienda petrolifera. «Ma la cisterna era fuori uso da
30 anni». Ingenti quantità di benzina e gasolio penetrate in
profondità
Vuole dalla Esso i danni per
l’inquinamento del serbatoio colabrodo e le spese per
bonificare tutta l’area
Non ci sta il manager del
petrolio Salvatore Belfiore a passare come l'Attila del
Mandracchio. Il serbatoio colabrodo contro cui impattarono
il 13 novembre 2001 gli strumenti meccanici di una ditta di
manutenzione di impianti di distribuzione? «Quella cisterna
riguardava un impianto sul lato banchina che serviva la
Marina e che fu dismesso 30 anni fa» ha dichiarato l'ex
responsabile dell'area commerciale Esso per Marche ed Emilia
Romagna rispondendo da imputato alle domande del pm
Ciccioli. Belfiore è accusato del reato di omessa
segnalazione alle autorità di quel pericolo ambientale
(previsto dal Decreto Ronchi del 97) poi concretizzatosi nei
decenni nella gravissima situazione di inquinamento da
idrocarburi di tutta la zona che ha originato il processo
apertosi ieri e in cui il Comune si è costituito parte
civile chiedendo il pagamento dei danni e delle spese che
saranno necessarie per bonificare tutta l'area dall'
inquinamento da idrocarburi. Belfiore non ha negato che il
relitto rientrasse già all'epoca nell'area in concessione
alla sua compagnia. Ma ha precisato che la prassi era di
bonificare gli impianti e le strutture non più operative. «E
comunque non penso che l'inquinamento possa essere arrivato
da lì» ha aggiunto. Diversa l'opinione della procura della
Repubblica - ma il dibattimento di ieri è solo uno stralcio
della lunga inchiesta aperta - e degli esperti dell'Arpam
ritrovatisi poi di fronte a un effetto "blob":
l'inquinamento "underground", ovvero concentrazioni di
gasolii e benzine ben al di sopra dei tetti di sicurezza di
legge in tutta la fascia che va dal passaggio a livello fino
all'ingresso della Fiera, compresa la falda e i sedimenti
marini, arrivò solo in parte da lì. Nel senso che dopo il 26
novembre, giorno in cui Esso e Petroltecnica allertarono le
autorità, la ditta incaricata del piano di caratterizzazione
e bonifica si trovò costretta più volte ad aggiornare le
stesse autorità, nelle conferenze servizi, sull'esito sempre
più inquietante dei sondaggi in corso: i serbatoi
diementicati per 30 anni a marcire nelle viscere dell'area
erano almeno una quindicina (lo si scoprì anche spulciando
carte topografiche dell'immediato dopoguerra) e quindi tutto
il Mandracchio aveva i piedi a bagno negli idrocarburi. Un
disastro ambientale? Colpa anche di Api, Agip e della coop
pescatori che dai primi anni '50 hanno posizionato le
cisterne e gestito i distributori in diversi periodi di
tempo? Le indagini proseguono. Pierpaolo Belligoni,
commerciante di prodotti petroliferi dal 1976 e gestore per
la concessionaria Esso, in comodato gratuito, dell'ultima
pompa funzionante rimasta, ha spiegato che la derelitta
cisterna afu rimossa dalla Petroltecnica durante lavori
volti a estrarre un vecchio serbatoio da 10 metri cubi e a
posizionarne due analoghi nuovi». Sull'entità della
contaminazione si è espresso il responsabile della "Petroltecnica",
Mario Pompeo Pivi: «Portammo via la cisterna, assieme a 240
tonnellate di terra e campioni di acqua, facemmo due analisi
e comunicammo alla Esso che avevano evidenziato profonde
infiltrazioni sotterranee di idrocarburi». Quanto alla
bonifica, «alla fine si bloccò tutto per il pericolo di
imbatterci in qualche residuato bellico». |
|
CORRIERE DELLA
SERA |
Scarichi in
mare, arresti all’Enichem
«Inquinamento da mercurio per
l’impianto di Priolo». Indagine sui bambini nati malformati
PRIOLO (Siracusa) - Un
normale pozzetto di scolo delle acque piovane. In azienda
qualcuno lo chiamava semplicemente «il pozzetto»: lì
venivano buttati il mercurio ed altre sostanze altamente
inquinanti da smaltire in modo rapido ed economico. Così,
invece di essere portati alle discariche autorizzate, i
rifiuti speciali finivano in mare. E quello che non si
poteva smaltire «via pozzetto», andava nelle discariche
urbane accompagnato da bolle di classificazione dei rifiuti
falsificate. In questo modo l’Enichem di Priolo avrebbe
risparmiato milioni di euro ma, soprattutto, avrebbe ucciso
il mare di Siracusa. Soltanto per il mercurio sono stati
riscontrati residui con concentrazioni ventimila volte più
alte del consentito. E le sostanze inquinanti sarebbero già
entrate nella catena alimentare: «Sono state accertate -
afferma il sostituto procuratore Maurizio Musco - delle
mutazioni genetiche a livello di microrganismi come i
policheti , dei piccoli vermi di cui si nutrono i pesci e
che dunque sono al primo gradino della catena alimentare».
Un campionario di malefatte degno di sfasciacarrozze di
borgata quello che ha travolto l’Enichem. In manette sono
finiti ben tre direttori di stabilimento, Giuseppe Genitori
D’Arrigo e Giuseppe Rivoli, ex ed attuale responsabile dello
stabilimento di Priolo, e Gaetano Claves, direttore a Gela.
Con loro sono stati arrestati altri 14 dirigenti di
primissimo piano ed un funzionario della provincia regionale
di Siracusa, Alfio Caceci. In tutto gli ordini di custodia
cautelare sono 18 (a 10 persone sono stati concessi gli
arresti domiciliari) e ci sono altri 12 indagati. L’accusa è
di associazione per delinquere finalizzata al traffico di
rifiuti. La disinvoltura nell’aggirare le norme sul
trattamento dei rifiuti speciali era tale che all’Enichem
avrebbero continuato a commettere reati anche in presenza
del magistrato inquirente. «Dopo l’avvio dell’inchiesta -
racconta il pm Maurizio Musco - mentre io ero all’interno
dello stabilimento hanno continuato a buttare rifiuti
speciali nel pozzetto confidando forse nella nostra
incompetenza tecnica». Disinvoltura riscontrabile anche
nelle conversazioni telefoniche disposte dalla procura della
Repubblica di Siracusa: «C’era la consapevolezza dei reati
che stavano commettendo», dicono gli inquirenti. «E in più -
aggiunge il procuratore Roberto Campisi - dalle
conversazioni emerge anche il sostanziale disprezzo per il
valore dell’ambiente e dunque della stessa vita umana».
L’inchiesta era cominciata nel settembre del 2001, dopo la
segnalazione di una grossa chiazza rossastra nella rada di
Priolo. I prelievi accertarono che in mare c’era una elevata
percentuale di acido solforico. Da qui si è risaliti fino al
canale di scolo, al pozzetto e a tutti gli altri presunti
illeciti nello smaltimento dei rifiuti speciali. In alcuni
casi sarebbero state falsificate le bolle di
accompagnamento, in altri i rifiuti sarebbero stati nascosti
nel doppio fondo di fusti per il trasporto di scarti
classificati come non pericolosi. Tutto finiva in normali
discariche per rifiuti solidi urbani disseminate in ogni
angolo d’Italia: «Dalla Sardegna al Nord Italia - dice Musco
- abbiamo fatto decine e decine di prelievi trovando tracce
degli scarti di Priolo». Un traffico nel quale sarebbe stato
fondamentale il ruolo del funzionario della Provincia che
avrebbe dovuto vigilare sulle procedure di smaltimento dei
rifiuti. L’inchiesta procede parallela ad un altra,
coordinata personalmente dal procuratore Campisi, sui
bambini nati con malformazioni congenite nel siracusano
(soprattutto nel triangolo industriale Priolo, Augusta,
Melilli). Mille casi tra il ’91 e il 2000: un dato tre volte
superiore alla media nazionale, che fa sospettare
connessioni con l’inquinamento ambientale nell’area intorno
a Priolo. Oggi i tecnici inviati dal ministero dell’Ambiente
inizieranno un sopralluogo nell’impianto che tratta i
rifiuti industriali. Verdi e Legambiente hanno già
annunciato che intendono costituirsi parte civile in un
eventuale processo. Greenpeace chiede che vengano effettuati
test sui pesci per verificare i livelli di mercurio.
«Prendiamo atto della gravità delle accuse - si difende
l’azienda - ed auspichiamo che sulla vicenda si faccia luce
ed al più presto». «L’inchiesta ha individuato una bomba
ecologica - attacca il presidente del Wwf, Fulco Pratesi -.
Questo potrebbe diventare il secondo grande processo alla
chimica italiana dopo quello di Porto Marghera, che
purtroppo si è chiuso senza colpevoli».
«Danneggia il sistema
nervoso centrale»
Silvano Focardi: pesca da
vietare, ci vorrà tempo per tornare alla normalità
«Le prime due cose che
andrebbero verificate sono la forma chimica del mercurio
finito in mare e la sua reale capacità di penetrazione negli
organismi». Come? «Analizzando le carni, e soprattutto il
fegato, di pesci stanziali che vivono in quelle acque». Da
anni il professor Silvano Focardi, preside della facoltà di
Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di
Siena, studia i problemi legati all’inquinamento marino e
alla catena alimentare, nella quale il grande predatore uomo
occupa il gradino più alto. «Uno dei primi casi di
inquinamento da mercurio avvenne nel ’72 in Giappone, nella
baia di Minamata - racconta per telefono dal Cile -. Il
mercurio finì in mare e andò in soluzione nell’acqua.
Nessuno si accorse di nulla finché i gatti della zona non
iniziarono a impazzire, perché mangiavano le interiora dei
pesci. Di lì a poco anche gli uomini cominciarono ad
accusare disturbi». Nella zona di Priolo gli esperti hanno
già trovato tracce di mutazioni genetiche nei policheti
(sono vermi ndr ). Significa che la catena alimentare è
compromessa? «Analizzare i policheti ha certamente un senso,
ma va tenuto presente che questi organismi possono avere
l’intestino pieno di sedimento inquinato. Io farei analisi
su muscoli e interiora dei pesci». E se anche i pesci
fossero contaminati? «Allora tutto dipenderà dai livelli di
bioaccumulo che saranno riscontrati negli animali. Per il
mercurio, la legge stabilisce limiti di 0,5 parti per
milione nei prodotti ittici destinati alla tavola. E i
rischi per la salute aumenterebbero se si fosse già arrivati
alla fase della "biomagnificazione", e cioè al passaggio del
mercurio tra le specie. E’ un fenomeno che può accadere in
tempi relativamente brevi: per questo sarebbe utile anche
capire anche ci troviamo di fronte a un inquinamento recente
o "antico"». Quali sono gli effetti del mercurio? «E’ un
metallo molto tossico che provoca danni a livello cerebrale.
Distrugge le cellule nervose, attacca il sistema nervoso
centrale, può colpire anche i reni». Se i test diranno che
la zona è davvero inquinata, che misure occorrerà prendere?
«Impedire la pesca, individuare i sedimenti avvelenati e
decidere se rimuoverli o aspettare che l’ambiente si
riprenda da solo. Ma ci vorrà parecchio tempo». |
|
LA SICILIA |
Raffineria:
processo a carico di 2 direttori
Imputati Monelli e De Santis
Si apre il 12 febbraio al
Tribunale un processo a carico dell'ex direttore della
Raffineria ing. Renato Monelli e dell'ex vicedirettore ing.
Gaetano De Santis che dal 1 gennaio con la nascita della
nuova società «Raffineria di Gela srl» è il direttore della
raffineria. La vicenda contestata ai due vertici della
raffineria nel decreto di citazione a giudizio emesso dal
Pubblico Ministero dott. Serafina Cannatà riguarda
l'impianto di alchilazione. un impianto della linea di
produzione delle benzine, nel quale non sarebbe stato
installato il rilevatore in continuo dell'acido fluoridrico
come prescritto, invece, dai decreti autorizzativi della
Regione di quell'impianto. Ma viene anche contestato il
sistema di smaltimento dell'Aso, un residuo oleoso della
raffinazione di petrolio classificato come rifiuto
pericoloso. L'Aso veniva smaltito con l'incenerimento a
terra nel forno dell'impianto di alchilazione ed in quelli
di altri impianti del polo petrolchimico. Per tale attività
- sostiene l'accusa in base anche a perizie tecniche, non
sarebbe stata rilasciata la prescritta autorizzazione per
cui l'attività svolta non sarebbe in regola con le leggi in
materia. I fatti contestati, e che ora sono sfociati
nell'attuale processo a carico dei due dirigenti della
raffineria, risalgono al febbraio del 2000 ed a quanto pare
scaturirebbero, anche questi, da esposti presentati
dall'associazione ambientalista Italia Nostra che avrebbe
fatto scattare l'indagine conclusasi con il rinvio a
giudizio degli ingegneri Morelli e De Santis. |
|
IL MANIFESTO |
I traffici
tossici dell'Enichem
Arrestati 18 dirigenti del
petrolchimico di Priolo. «Avevano costituito una stabile
associazione per delinquere finalizzata allo smaltimento
illegale di ingenti quantità di rifiuti pericolosi
contenenti mercurio»
L'unica preoccupazione che
avevano era quella di smaltire illegalmente i rifiuti
tossici, fecendo risparmiare all'azienda svariati milioni di
euro. Per parecchi anni sono riusciti a farla franca,
trasformando il mare e la terra del «triangolo maledetto» in
un'immensa discarica di veleni. Qualcosa però dev'essersi
inceppato nel «complesso meccanismo» che i dirigenti dell'Enichem
di Priolo avevano messo in piedi. E così, dopo più di un
anno di indagini, ieri mattina, in diciotto sono finiti in
manette. Tutti, insieme ad altre ventidue persone indagate a
piede libero, sono accusati a vario titolo di aver
«costituito una stabile associazione per delinquere
finalizzata al traffico illecito di ingenti quantità di
rifiuti pericolosi contenenti mercurio». In pratica, anziché
smaltire i rifiuti industriali secondo la legge in apposite
discariche, li miscelavano con altre sostanze liquide e li
gettavano in mare, anche dai tombini, hanno accertato i
magistrati siracusani. In altri casi, mescolavano gli scarti
chimici fangosi con terriccio e li seppellivano nei terreni.
Per il trasporto utilizzavano falsi formulari indicando
false certificazioni di analisi. Tutto questo, secondo
l'accusa, avveniva con la complicità del funzionario della
Provincia di Siracusa addetto ai controlli che per anni
avrebbe chiuso gli occhi di fronte alle migliaia di
tonnellate di rifiuti prodotti dal petrolchimico.
«L'attività d'impresa -
sottolinea il capo della procura di Siracusa, Roberto
Campisi - era fortemente connotata da una volontà di
riduzione dei costi, sia a livello alto che in quello
intermedio dell'azienda -. Dalle intercettazioni telefoniche
e ambientali è emersa la disinvoltura e il sostanziale
disprezzo per il valore dell'ambiente e dunque della stessa
vita umana», aggiunge il magistrato parlando di «un quadro
probatorio impressionante da un punto di vista processuale
ma anche dal punto di vista umano».
Più di cinquecento sono i
capi di imputazione nei confronti del vertice locale dell'Enichem,
finito in carcere o agli arresti domiciliari.
L'inchiesta, condotta dal pm
Maurizio Musco in seguito alla denuncia di Legambiente e di
altre associazioni, è stata avviata nell'estate di due anni
fa dopo che nel mare davanti a Priolo e Melilli era comparsa
«una enorme macchia color cioccolato». Dalle successive
analisi dell'acqua è venuto fuori che il tasso di mercurio
presente era di ventimila volte superiore ai limiti
consentiti dalla legge. Non è stato difficile individuare la
provenienza, più complicato accertare i responsabili,
inchiodati grazie alla possibilità concessa dal decreto
Ronchi del `99 di usare le intercettazioni telefoniche anche
per indagini ambientali. Le scorie tossiche sono uscite -
con il più che probabile apporto delle ecomafie -
dall'impianto Enichem-Polimeri, una delle tante fabbriche
chimiche presenti nel mega-polo industriale siciliano.
L'impianto, che produce etilene, propilene, ossido di
propilene e clorosoda, è da anni nel mirino dagli
ambientalisti perché vecchio e obsoleto. E' però solo uno
dei tanti impianti pericolosi che da decenni avvelenano la
vita ai 60 mila abitanti di Priolo, Augusta e Melilli. E
l'indagine giudiziaria in questione è solo una delle tante
avviate dalla procura di Siracusa. Lo ha ricordato ieri lo
stesso procuratore Campisi, sostenendo che «l'azione di ieri
non ha precedenti ed è collegata ad altre inchieste che
riguardano l'inquinamento di falde acquifere, malformazioni
neonatali e incremento di patologie tumorali».
La prima delle tre inchieste
citata dal magistrato è la più recente della serie. E' stata
infatti avviata l'anno scorso e ha portato al sequestro
della raffineria dell'Agip, dai cui serbatoi sarebbero
partite le infiltrazioni di petrolio finito nelle falde
acquifere. Le altre due inchieste riguardano invece più
direttamente gli effetti devastanti dell'inquinamento sulla
salute degli abitanti. Le morti di cancro attribuite al
petrolchimico - costruito peraltro in una zona altamente
sismica - sono del 33 per cento. Un allarme è stato lanciato
un anno fa dall'Organizzazione mondiale della sanità, nel
cui studio ha registrato un «eccesso di mortalità del 10 per
cento in più» rispetto alla media regionale per cause
tumorali.
L'altro triste primato -
registrato sempre dall'Oms tra le popolazioni del «triangolo
industriale» - sono le nascite di bambini con malformazioni
genetiche. Nel 2000 la percentuale è stata del 5,6 per
cento, il quadruplo della media nazionale, tre volte oltre
la soglia di allarme fissata dalla stessa Oms. Le
malformazioni maggiormente riscontrate tra i bambini nati
negli ultimi dieci anni sono alla colonna vertebrale, al
cuore, agli organi genitali e al cervello. Un fenomeno -
leggermente leggermente diminuito negli ultimi due anni -
che ha scaturito la quarta e in questo caso inconcludente
inchiesta della magistratura.
|
|
IL MATTINO |
Al bando le
carrette del mare
Matteoli: presto il decreto
Giro di vite contro le
carrette dei mari in circolazione nelle acque italiane, dopo
l’incidente della petroliera Prestige. In tempi brevissimi
sarà pronto il provvedimento per mettere al bando dai porti
italiani le petroliere monoscafo con più di 15 anni di
anzianità. Questo quanto è stato deciso dal ministro
dell’Ambiente, Altero Matteoli e dal viceministro ai
Trasporti, Mario Tassone, nel corso di una riunione che si è
svolta ieri con l’obiettivo di esaminare le misure
necessarie per evitare e prevenire incidenti petroliferi
come quello della Prestige. «È necessario prendere misure
immediate - ha dichiarato Matteoli - per prevenire disastri
come quelli della Prestige che in Italia avrebbero effetti
devastanti sull’ ambiente. Il provvedimento dovrà
allontanare dalle coste italiane le petroliere che non
offrono garanzie di sicurezza». Occorre, ha aggiunto Tassone,
«dare un segnale immediato per evitare disastri come quello
avvenuto al largo della Spagna. Si dovrà poi affrontare con
urgenza anche il problema delle carrette che trasportano i
clandestini sulle nostre coste». Questa accelerazione dei
tempi della messa al bando delle carrette dei mari è stata
facilitata dall’ Unione europea che nei Consigli dei
ministri dei Trasporti e dell' Ambiente del dicembre scorso
ha concluso che il trasporto di idrocarburi pesanti (bitumi,
catrame, olio combustibile, greggio pesante) deve avvenire
unicamente per mezzo di navi cisterna a doppio scafo. |
|
Econews (Verdi) |
Carrette
mare. Lion: passare dalle parole ai fatti
"Ora è necessario passare in
tempi brevi dalle parole ai fatti". Lo afferma Marco Lion,
capogruppo dei Verdi in commissione Ambiente, a commento del
provvedimento annunciato oggi dal Ministro dell'ambiente
sulla messa al bando dai porti italiani delle petroliere
monoscafo con più di 15 anni. "Oltre alla tempestività nel
varo del provvedimento - prosegue Lion - sono necessarie
contemporaneamente norme che impediscano la navigazione
anche alle petroliere con meno di 15 anni di anzianità ma
prive dei necessari strumenti tecnologici di garanzia contro
i rischi di eventuali naufragi. Solo così sarà possibile
salvaguardare l'ambiente da disastri come quello della "Prestige",
che ad oggi continua a perdere olio combustibile dalle falle
presenti nella sua stiva. Inoltre - ricorda Lion - secondo
la normativa in vigore le navi cisterna senza nessun tipo di
garanzia possono continuare a viaggiare in mare sino al
2012. Anche per questo - conclude Lion - ho presentato un
disegno di legge per anticipare l'introduzione delle norme
europee per la sicurezza delle navi che trasportano oli
combustibili, previste dal regolamento n°417/2002 del
Parlamento Europeo e per ridurre drasticamente il numero
degli anni necessari allo svecchiamento delle flotte di
petroliere". |
|
|