RASSEGNA STAMPA 17.01.2003

 

MESSAGGERO
Lavoro a rischio «O si resta a Falconara o l’Api chiude tutto»

Cinque mesi ancora e poi la spada di Damocle sul futuro dell’Api taglierà in due il destino di Falconara. O di qua o di là. Se non sarà rinnovata la concessione alla raffineria il rovescio della medaglia sarà pesante. «Il futuro dell’Api - ha detto al Messaggero il direttore Bellucci - è legato a Falconara». Niente ipotesi di riconversione o di trasferimento (si era parlato anche di Albania). E la logica conclusione sarà che per le maestranze, circa 2000 unità, non potranno in alcun modo essere reimpiegate. «E non è vero che il petrolio non servirà più nei prossimi anni perché verrà impiegato anche per produrre l’idrogeno».

Il futuro non è pensabile altrove. Il servizio è legato all’incremento del fabbisogno locale: nelle Marche sviluppo oltre la media nazionale

FALCONARA - «Il futuro della raffineria è possibile solo qui». E’ l’opinione di Franco Bellucci, direttore dell’Api di Falconara. Quindi se all’Api non venisse concesso il rinnovo della concessione lo stabilimento cesserebbe la produzione. Dopo le tante prese di posizione sulla permanenza o meno del petrolifero in città, le diverse opinioni raccolte, le trattative fra le parti, ancora sul futuro dell’Api non c’è niente di certo. Solo cinque i mesi rimasti per decidere, senza però progetti alternativi. Gli stessi studi in campo, compresi quelli dello Svim, hanno come oggetto la complessità dell’area ad alto rischio e eventuali fonti energetiche sostitutive. Nessuno ha come tesi finale la delocalizzazione dell’industria. I Verdi, compatti, sia a livello comunale, provinciale che regionale, hanno ribadito il loro no al rinnovo della concessione per il forte inquinamento che condizionerebbe, oltre al suolo, anche il mare. Tuttavia neppure loro hanno in mano un progetto alternativo. Ma lo avevano chiesto al consiglio comunale di Falconara dove era stato proposto di destinare parte del disavanzo di bilancio alla realizzazione di uno studio di riconversione - che oggi non c’è - della raffineria, prima della scadenza della concessione. Ora appunto mancano solo cinque mesi, e dopo le battaglie giudiziarie vinte dagli enti locali per annullare la vecchia concessione, rilasciata dal Ministero dell’Industria sopra le loro teste, gli sforzi non sono stati concentrati anche sull’ipotetico dopo Api. Su cosa fare al suo posto. Una mancanza che potrebbe fare la differenza, se nel tempo rimasto nessuno è in grado di tirare fuori validi progetti. La raffineria, dal canto suo, secondo quanto ci riferisce il direttore Bellucci, non sembra aver alcun progetto in cantiere per un’eventuale riconversione dello stabilimento in un altro luogo. Quindi dall’Api nessuna possibilità di reimpiegare i dipendenti che non lavorerebbero più a Falconara. «Questa raffineria è nata qui – spiega Bellucci – l’area tributaria del nostro prodotto è nella regione. Per questo il suo futuro è pensabile solo qui. Il servizio che diamo è in maggior parte locale, la nostra crescita è stata resa possibile grazie all’incremento del fabbisogno regionale. Le Marche infatti hanno avuto un tasso di sviluppo addirittura superiore alla media nazionale». Ma se alla fine non vi rilasciassero la concessione? «Sarebbe la chiusura. Non ci sono alternative». Non avete mai studiato altre dislocazioni? «No». C’è chi ha tirato in ballo qualche tempo fa l’Albania. Vi avevano suggerito di portare là la produzione, davvero non ci avete mai pensato? «Lo stabilimento serve qui. Portare il prodotto petrolifero nella zona facendolo arrivare da altre parti costerebbe molto di più e non converrebbe. E poi non dimentichiamoci dell’energia elettrica che forniamo a tutta la regione». Però tra anni potreste essere costretti a lasciare comunque il sito. Stanno studiando fonti energetiche alternative, il petrolio perderà il suo ruolo centrale e la stessa raffineria potrebbe risentirne. E’ vero? «In realtà i prodotti petroliferi serviranno sempre di più. Le proiezioni tra 50 anni dicono che il petrolio coprirà ancora il 50-60% del fabbisogno». Ma come la mette con l’idrogeno? «Per produrlo serve il petrolio, stiamo già facendo degli studi al riguardo. Certo, dovremmo adeguare gli impianti, ma saremmo in grado di fornirlo». Insomma, come dire, per Bellucci, la raffineria, così o in altra veste, sembra destinata a rimanere e a consolidarsi sul territorio, addirittura grazie alle nuovi fonti energetiche che invece molti indicavano come la possibile causa della morte dello stabilimento. Se consideriamo, poi, che il governo centrale non pare prevedere cambiamenti nel piano energetico nazionale per i prossimi anni, si comprende bene come nessuno abbia intenzione di eliminare l’Igcc, la cui attività però è ben collegata al resto dello stabilimento. Un incastro perfetto, difficile da rompere. Se poi non ci sono ancora oggi alternative valide i lavoratori hanno chiesto «perché, dateci almeno quei 2000 posti di lavoro che ci togliereste e con cui noi andiamo avanti ogni mese».

La situazione

LA STORIA - Una raffineria sviluppatasi fra gli anni 70 e quelli 80, l’api di Falconara inizialmente era nata solo come deposito. Poi lo sviluppo a fronte di una domanda crescente di prodotto petrolifero e di un’area, quella in cui sorgeva il deposito, ideale. Vicina al mare, alla ferrovia e alle principali strade.

LO SVILUPPO - Dai 7 ettari originari del 1954, l’Api comincia a crescere, a costruire serbatoi e a lavorare a pieno regime. Compatibilità ambientale e salvaguardia territoriale sono parole allora poco soppesate. E la raffineria si espande, acquistando anche alcune case verso il mare.

OGGI - Conta 70 ettari, di cui parte inquinati dagli idrocarburi accumulatisi negli anni. Le conseguenze si pagano solo ora con una bonifica costosa, lunga e complessa, ma in cui il Comune crede molto.

I DIPENDENTI - La raffineria occupa oggi 2000 persone tra dipendenti diretti e quelli delle ditte appaltatrici. Diversi gli incidenti accaduti, ma è del 1999 il più grave in cui morirono due operai.

Mandracchio inquinato, il Comune batte cassa

Blob alla Fiera. Il manager dell’azienda petrolifera. «Ma la cisterna era fuori uso da 30 anni». Ingenti quantità di benzina e gasolio penetrate in profondità

Vuole dalla Esso i danni per l’inquinamento del serbatoio colabrodo e le spese per bonificare tutta l’area

Non ci sta il manager del petrolio Salvatore Belfiore a passare come l'Attila del Mandracchio. Il serbatoio colabrodo contro cui impattarono il 13 novembre 2001 gli strumenti meccanici di una ditta di manutenzione di impianti di distribuzione? «Quella cisterna riguardava un impianto sul lato banchina che serviva la Marina e che fu dismesso 30 anni fa» ha dichiarato l'ex responsabile dell'area commerciale Esso per Marche ed Emilia Romagna rispondendo da imputato alle domande del pm Ciccioli. Belfiore è accusato del reato di omessa segnalazione alle autorità di quel pericolo ambientale (previsto dal Decreto Ronchi del 97) poi concretizzatosi nei decenni nella gravissima situazione di inquinamento da idrocarburi di tutta la zona che ha originato il processo apertosi ieri e in cui il Comune si è costituito parte civile chiedendo il pagamento dei danni e delle spese che saranno necessarie per bonificare tutta l'area dall' inquinamento da idrocarburi. Belfiore non ha negato che il relitto rientrasse già all'epoca nell'area in concessione alla sua compagnia. Ma ha precisato che la prassi era di bonificare gli impianti e le strutture non più operative. «E comunque non penso che l'inquinamento possa essere arrivato da lì» ha aggiunto. Diversa l'opinione della procura della Repubblica - ma il dibattimento di ieri è solo uno stralcio della lunga inchiesta aperta - e degli esperti dell'Arpam ritrovatisi poi di fronte a un effetto "blob": l'inquinamento "underground", ovvero concentrazioni di gasolii e benzine ben al di sopra dei tetti di sicurezza di legge in tutta la fascia che va dal passaggio a livello fino all'ingresso della Fiera, compresa la falda e i sedimenti marini, arrivò solo in parte da lì. Nel senso che dopo il 26 novembre, giorno in cui Esso e Petroltecnica allertarono le autorità, la ditta incaricata del piano di caratterizzazione e bonifica si trovò costretta più volte ad aggiornare le stesse autorità, nelle conferenze servizi, sull'esito sempre più inquietante dei sondaggi in corso: i serbatoi diementicati per 30 anni a marcire nelle viscere dell'area erano almeno una quindicina (lo si scoprì anche spulciando carte topografiche dell'immediato dopoguerra) e quindi tutto il Mandracchio aveva i piedi a bagno negli idrocarburi. Un disastro ambientale? Colpa anche di Api, Agip e della coop pescatori che dai primi anni '50 hanno posizionato le cisterne e gestito i distributori in diversi periodi di tempo? Le indagini proseguono. Pierpaolo Belligoni, commerciante di prodotti petroliferi dal 1976 e gestore per la concessionaria Esso, in comodato gratuito, dell'ultima pompa funzionante rimasta, ha spiegato che la derelitta cisterna afu rimossa dalla Petroltecnica durante lavori volti a estrarre un vecchio serbatoio da 10 metri cubi e a posizionarne due analoghi nuovi». Sull'entità della contaminazione si è espresso il responsabile della "Petroltecnica", Mario Pompeo Pivi: «Portammo via la cisterna, assieme a 240 tonnellate di terra e campioni di acqua, facemmo due analisi e comunicammo alla Esso che avevano evidenziato profonde infiltrazioni sotterranee di idrocarburi». Quanto alla bonifica, «alla fine si bloccò tutto per il pericolo di imbatterci in qualche residuato bellico».

 
CORRIERE DELLA SERA
Scarichi in mare, arresti all’Enichem

«Inquinamento da mercurio per l’impianto di Priolo». Indagine sui bambini nati malformati

PRIOLO (Siracusa) - Un normale pozzetto di scolo delle acque piovane. In azienda qualcuno lo chiamava semplicemente «il pozzetto»: lì venivano buttati il mercurio ed altre sostanze altamente inquinanti da smaltire in modo rapido ed economico. Così, invece di essere portati alle discariche autorizzate, i rifiuti speciali finivano in mare. E quello che non si poteva smaltire «via pozzetto», andava nelle discariche urbane accompagnato da bolle di classificazione dei rifiuti falsificate. In questo modo l’Enichem di Priolo avrebbe risparmiato milioni di euro ma, soprattutto, avrebbe ucciso il mare di Siracusa. Soltanto per il mercurio sono stati riscontrati residui con concentrazioni ventimila volte più alte del consentito. E le sostanze inquinanti sarebbero già entrate nella catena alimentare: «Sono state accertate - afferma il sostituto procuratore Maurizio Musco - delle mutazioni genetiche a livello di microrganismi come i policheti , dei piccoli vermi di cui si nutrono i pesci e che dunque sono al primo gradino della catena alimentare». Un campionario di malefatte degno di sfasciacarrozze di borgata quello che ha travolto l’Enichem. In manette sono finiti ben tre direttori di stabilimento, Giuseppe Genitori D’Arrigo e Giuseppe Rivoli, ex ed attuale responsabile dello stabilimento di Priolo, e Gaetano Claves, direttore a Gela. Con loro sono stati arrestati altri 14 dirigenti di primissimo piano ed un funzionario della provincia regionale di Siracusa, Alfio Caceci. In tutto gli ordini di custodia cautelare sono 18 (a 10 persone sono stati concessi gli arresti domiciliari) e ci sono altri 12 indagati. L’accusa è di associazione per delinquere finalizzata al traffico di rifiuti. La disinvoltura nell’aggirare le norme sul trattamento dei rifiuti speciali era tale che all’Enichem avrebbero continuato a commettere reati anche in presenza del magistrato inquirente. «Dopo l’avvio dell’inchiesta - racconta il pm Maurizio Musco - mentre io ero all’interno dello stabilimento hanno continuato a buttare rifiuti speciali nel pozzetto confidando forse nella nostra incompetenza tecnica». Disinvoltura riscontrabile anche nelle conversazioni telefoniche disposte dalla procura della Repubblica di Siracusa: «C’era la consapevolezza dei reati che stavano commettendo», dicono gli inquirenti. «E in più - aggiunge il procuratore Roberto Campisi - dalle conversazioni emerge anche il sostanziale disprezzo per il valore dell’ambiente e dunque della stessa vita umana». L’inchiesta era cominciata nel settembre del 2001, dopo la segnalazione di una grossa chiazza rossastra nella rada di Priolo. I prelievi accertarono che in mare c’era una elevata percentuale di acido solforico. Da qui si è risaliti fino al canale di scolo, al pozzetto e a tutti gli altri presunti illeciti nello smaltimento dei rifiuti speciali. In alcuni casi sarebbero state falsificate le bolle di accompagnamento, in altri i rifiuti sarebbero stati nascosti nel doppio fondo di fusti per il trasporto di scarti classificati come non pericolosi. Tutto finiva in normali discariche per rifiuti solidi urbani disseminate in ogni angolo d’Italia: «Dalla Sardegna al Nord Italia - dice Musco - abbiamo fatto decine e decine di prelievi trovando tracce degli scarti di Priolo». Un traffico nel quale sarebbe stato fondamentale il ruolo del funzionario della Provincia che avrebbe dovuto vigilare sulle procedure di smaltimento dei rifiuti. L’inchiesta procede parallela ad un altra, coordinata personalmente dal procuratore Campisi, sui bambini nati con malformazioni congenite nel siracusano (soprattutto nel triangolo industriale Priolo, Augusta, Melilli). Mille casi tra il ’91 e il 2000: un dato tre volte superiore alla media nazionale, che fa sospettare connessioni con l’inquinamento ambientale nell’area intorno a Priolo. Oggi i tecnici inviati dal ministero dell’Ambiente inizieranno un sopralluogo nell’impianto che tratta i rifiuti industriali. Verdi e Legambiente hanno già annunciato che intendono costituirsi parte civile in un eventuale processo. Greenpeace chiede che vengano effettuati test sui pesci per verificare i livelli di mercurio. «Prendiamo atto della gravità delle accuse - si difende l’azienda - ed auspichiamo che sulla vicenda si faccia luce ed al più presto». «L’inchiesta ha individuato una bomba ecologica - attacca il presidente del Wwf, Fulco Pratesi -. Questo potrebbe diventare il secondo grande processo alla chimica italiana dopo quello di Porto Marghera, che purtroppo si è chiuso senza colpevoli».

«Danneggia il sistema nervoso centrale»

Silvano Focardi: pesca da vietare, ci vorrà tempo per tornare alla normalità

«Le prime due cose che andrebbero verificate sono la forma chimica del mercurio finito in mare e la sua reale capacità di penetrazione negli organismi». Come? «Analizzando le carni, e soprattutto il fegato, di pesci stanziali che vivono in quelle acque». Da anni il professor Silvano Focardi, preside della facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Siena, studia i problemi legati all’inquinamento marino e alla catena alimentare, nella quale il grande predatore uomo occupa il gradino più alto. «Uno dei primi casi di inquinamento da mercurio avvenne nel ’72 in Giappone, nella baia di Minamata - racconta per telefono dal Cile -. Il mercurio finì in mare e andò in soluzione nell’acqua. Nessuno si accorse di nulla finché i gatti della zona non iniziarono a impazzire, perché mangiavano le interiora dei pesci. Di lì a poco anche gli uomini cominciarono ad accusare disturbi». Nella zona di Priolo gli esperti hanno già trovato tracce di mutazioni genetiche nei policheti (sono vermi ndr ). Significa che la catena alimentare è compromessa? «Analizzare i policheti ha certamente un senso, ma va tenuto presente che questi organismi possono avere l’intestino pieno di sedimento inquinato. Io farei analisi su muscoli e interiora dei pesci». E se anche i pesci fossero contaminati? «Allora tutto dipenderà dai livelli di bioaccumulo che saranno riscontrati negli animali. Per il mercurio, la legge stabilisce limiti di 0,5 parti per milione nei prodotti ittici destinati alla tavola. E i rischi per la salute aumenterebbero se si fosse già arrivati alla fase della "biomagnificazione", e cioè al passaggio del mercurio tra le specie. E’ un fenomeno che può accadere in tempi relativamente brevi: per questo sarebbe utile anche capire anche ci troviamo di fronte a un inquinamento recente o "antico"». Quali sono gli effetti del mercurio? «E’ un metallo molto tossico che provoca danni a livello cerebrale. Distrugge le cellule nervose, attacca il sistema nervoso centrale, può colpire anche i reni». Se i test diranno che la zona è davvero inquinata, che misure occorrerà prendere? «Impedire la pesca, individuare i sedimenti avvelenati e decidere se rimuoverli o aspettare che l’ambiente si riprenda da solo. Ma ci vorrà parecchio tempo».

 
LA SICILIA
Raffineria: processo a carico di 2 direttori

Imputati Monelli e De Santis

Si apre il 12 febbraio al Tribunale un processo a carico dell'ex direttore della Raffineria ing. Renato Monelli e dell'ex vicedirettore ing. Gaetano De Santis che dal 1 gennaio con la nascita della nuova società «Raffineria di Gela srl» è il direttore della raffineria. La vicenda contestata ai due vertici della raffineria nel decreto di citazione a giudizio emesso dal Pubblico Ministero dott. Serafina Cannatà riguarda l'impianto di alchilazione. un impianto della linea di produzione delle benzine, nel quale non sarebbe stato installato il rilevatore in continuo dell'acido fluoridrico come prescritto, invece, dai decreti autorizzativi della Regione di quell'impianto. Ma viene anche contestato il sistema di smaltimento dell'Aso, un residuo oleoso della raffinazione di petrolio classificato come rifiuto pericoloso. L'Aso veniva smaltito con l'incenerimento a terra nel forno dell'impianto di alchilazione ed in quelli di altri impianti del polo petrolchimico. Per tale attività - sostiene l'accusa in base anche a perizie tecniche, non sarebbe stata rilasciata la prescritta autorizzazione per cui l'attività svolta non sarebbe in regola con le leggi in materia. I fatti contestati, e che ora sono sfociati nell'attuale processo a carico dei due dirigenti della raffineria, risalgono al febbraio del 2000 ed a quanto pare scaturirebbero, anche questi, da esposti presentati dall'associazione ambientalista Italia Nostra che avrebbe fatto scattare l'indagine conclusasi con il rinvio a giudizio degli ingegneri Morelli e De Santis.

 
IL MANIFESTO
I traffici tossici dell'Enichem

Arrestati 18 dirigenti del petrolchimico di Priolo. «Avevano costituito una stabile associazione per delinquere finalizzata allo smaltimento illegale di ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio»

L'unica preoccupazione che avevano era quella di smaltire illegalmente i rifiuti tossici, fecendo risparmiare all'azienda svariati milioni di euro. Per parecchi anni sono riusciti a farla franca, trasformando il mare e la terra del «triangolo maledetto» in un'immensa discarica di veleni. Qualcosa però dev'essersi inceppato nel «complesso meccanismo» che i dirigenti dell'Enichem di Priolo avevano messo in piedi. E così, dopo più di un anno di indagini, ieri mattina, in diciotto sono finiti in manette. Tutti, insieme ad altre ventidue persone indagate a piede libero, sono accusati a vario titolo di aver «costituito una stabile associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di ingenti quantità di rifiuti pericolosi contenenti mercurio». In pratica, anziché smaltire i rifiuti industriali secondo la legge in apposite discariche, li miscelavano con altre sostanze liquide e li gettavano in mare, anche dai tombini, hanno accertato i magistrati siracusani. In altri casi, mescolavano gli scarti chimici fangosi con terriccio e li seppellivano nei terreni. Per il trasporto utilizzavano falsi formulari indicando false certificazioni di analisi. Tutto questo, secondo l'accusa, avveniva con la complicità del funzionario della Provincia di Siracusa addetto ai controlli che per anni avrebbe chiuso gli occhi di fronte alle migliaia di tonnellate di rifiuti prodotti dal petrolchimico.

«L'attività d'impresa - sottolinea il capo della procura di Siracusa, Roberto Campisi - era fortemente connotata da una volontà di riduzione dei costi, sia a livello alto che in quello intermedio dell'azienda -. Dalle intercettazioni telefoniche e ambientali è emersa la disinvoltura e il sostanziale disprezzo per il valore dell'ambiente e dunque della stessa vita umana», aggiunge il magistrato parlando di «un quadro probatorio impressionante da un punto di vista processuale ma anche dal punto di vista umano».

Più di cinquecento sono i capi di imputazione nei confronti del vertice locale dell'Enichem, finito in carcere o agli arresti domiciliari.

L'inchiesta, condotta dal pm Maurizio Musco in seguito alla denuncia di Legambiente e di altre associazioni, è stata avviata nell'estate di due anni fa dopo che nel mare davanti a Priolo e Melilli era comparsa «una enorme macchia color cioccolato». Dalle successive analisi dell'acqua è venuto fuori che il tasso di mercurio presente era di ventimila volte superiore ai limiti consentiti dalla legge. Non è stato difficile individuare la provenienza, più complicato accertare i responsabili, inchiodati grazie alla possibilità concessa dal decreto Ronchi del `99 di usare le intercettazioni telefoniche anche per indagini ambientali. Le scorie tossiche sono uscite - con il più che probabile apporto delle ecomafie - dall'impianto Enichem-Polimeri, una delle tante fabbriche chimiche presenti nel mega-polo industriale siciliano. L'impianto, che produce etilene, propilene, ossido di propilene e clorosoda, è da anni nel mirino dagli ambientalisti perché vecchio e obsoleto. E' però solo uno dei tanti impianti pericolosi che da decenni avvelenano la vita ai 60 mila abitanti di Priolo, Augusta e Melilli. E l'indagine giudiziaria in questione è solo una delle tante avviate dalla procura di Siracusa. Lo ha ricordato ieri lo stesso procuratore Campisi, sostenendo che «l'azione di ieri non ha precedenti ed è collegata ad altre inchieste che riguardano l'inquinamento di falde acquifere, malformazioni neonatali e incremento di patologie tumorali».

La prima delle tre inchieste citata dal magistrato è la più recente della serie. E' stata infatti avviata l'anno scorso e ha portato al sequestro della raffineria dell'Agip, dai cui serbatoi sarebbero partite le infiltrazioni di petrolio finito nelle falde acquifere. Le altre due inchieste riguardano invece più direttamente gli effetti devastanti dell'inquinamento sulla salute degli abitanti. Le morti di cancro attribuite al petrolchimico - costruito peraltro in una zona altamente sismica - sono del 33 per cento. Un allarme è stato lanciato un anno fa dall'Organizzazione mondiale della sanità, nel cui studio ha registrato un «eccesso di mortalità del 10 per cento in più» rispetto alla media regionale per cause tumorali.

L'altro triste primato - registrato sempre dall'Oms tra le popolazioni del «triangolo industriale» - sono le nascite di bambini con malformazioni genetiche. Nel 2000 la percentuale è stata del 5,6 per cento, il quadruplo della media nazionale, tre volte oltre la soglia di allarme fissata dalla stessa Oms. Le malformazioni maggiormente riscontrate tra i bambini nati negli ultimi dieci anni sono alla colonna vertebrale, al cuore, agli organi genitali e al cervello. Un fenomeno - leggermente leggermente diminuito negli ultimi due anni - che ha scaturito la quarta e in questo caso inconcludente inchiesta della magistratura.

 
IL MATTINO
Al bando le carrette del mare

Matteoli: presto il decreto

Giro di vite contro le carrette dei mari in circolazione nelle acque italiane, dopo l’incidente della petroliera Prestige. In tempi brevissimi sarà pronto il provvedimento per mettere al bando dai porti italiani le petroliere monoscafo con più di 15 anni di anzianità. Questo quanto è stato deciso dal ministro dell’Ambiente, Altero Matteoli e dal viceministro ai Trasporti, Mario Tassone, nel corso di una riunione che si è svolta ieri con l’obiettivo di esaminare le misure necessarie per evitare e prevenire incidenti petroliferi come quello della Prestige. «È necessario prendere misure immediate - ha dichiarato Matteoli - per prevenire disastri come quelli della Prestige che in Italia avrebbero effetti devastanti sull’ ambiente. Il provvedimento dovrà allontanare dalle coste italiane le petroliere che non offrono garanzie di sicurezza». Occorre, ha aggiunto Tassone, «dare un segnale immediato per evitare disastri come quello avvenuto al largo della Spagna. Si dovrà poi affrontare con urgenza anche il problema delle carrette che trasportano i clandestini sulle nostre coste». Questa accelerazione dei tempi della messa al bando delle carrette dei mari è stata facilitata dall’ Unione europea che nei Consigli dei ministri dei Trasporti e dell' Ambiente del dicembre scorso ha concluso che il trasporto di idrocarburi pesanti (bitumi, catrame, olio combustibile, greggio pesante) deve avvenire unicamente per mezzo di navi cisterna a doppio scafo.

 
Econews (Verdi)
Carrette mare. Lion: passare dalle parole ai fatti

"Ora è necessario passare in tempi brevi dalle parole ai fatti". Lo afferma Marco Lion, capogruppo dei Verdi in commissione Ambiente, a commento del provvedimento annunciato oggi dal Ministro dell'ambiente sulla messa al bando dai porti italiani delle petroliere monoscafo con più di 15 anni. "Oltre alla tempestività nel varo del provvedimento - prosegue Lion - sono necessarie contemporaneamente norme che impediscano la navigazione anche alle petroliere con meno di 15 anni di anzianità ma prive dei necessari strumenti tecnologici di garanzia contro i rischi di eventuali naufragi. Solo così sarà possibile salvaguardare l'ambiente da disastri come quello della "Prestige", che ad oggi continua a perdere olio combustibile dalle falle presenti nella sua stiva. Inoltre - ricorda Lion - secondo la normativa in vigore le navi cisterna senza nessun tipo di garanzia possono continuare a viaggiare in mare sino al 2012. Anche per questo - conclude Lion - ho presentato un disegno di legge per anticipare l'introduzione delle norme europee per la sicurezza delle navi che trasportano oli combustibili, previste dal regolamento n°417/2002 del Parlamento Europeo e per ridurre drasticamente il numero degli anni necessari allo svecchiamento delle flotte di petroliere".

 
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