Il grande dilemma

Permettendo al turbocapitalismo di fare a modo suo, come negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, il risultato è un ampliarsi delle disparità di reddito in cambio di una crescita neppure tanto elevata. Opponendosi al turbocapitalismo, mantenendo in vigore una legislazione che tutela il lavoro, il commercio regolamentato e la pubblica proprietà, come in Francia, il risultato è imporre un onere eccessivo ai datori di lavoro, sopprimere lo spirito imprenditoriale e ritardare il processo tecnologico, con la conseguenza di una crescita ancora più lenta e di una notevole disoccupazione strutturale.
Permettere al turbocapitalismo di avanzare indisturbato significa disintegrare le società in una minuscola élite di vincenti, in una gran massa di perdenti di diverso grado di benessere o di povertà e in una categoria di ribelli che delinquono. Non ne risulta eroso soltanto il senso di appartenenza sociale ma anche i legami familiari, che richiedono quel tempo invece impiegato per correre in modo sempre più forsennato. La disgregazione sociale che ne consegue va allora contrastata con leggi severissime, pesanti condanne e carcerazione di massa, allo scopo di togliere dalla circolazione i perdenti insubordinati. Ma opporsi al cambiamento turbocapitalista e alla sua efficienza distruttiva può soltanto tradursi, in un'economia mondiale tanto competitiva, nell'impoverimento della nazione nel suo complesso e nel triste ridursi delle prospettive per i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro
Permettere al turbocapitalismo di trasformare ogni istituzione, dagli ospedali alle case editrici e alle maratone, in aziende finalizzate al massimo profitto ne distorce e ne stravolge il contenuto essenziale, sebbene ne accresca la resa economica. Ma opporsi alla trasformazione in atto condurrebbe all'impoverimento e all'annichilazione di tali istituzioni, perché la società non è più in grado di sostenerle altrimenti, né di sostenere alcunché, poiché è stata essa stessa conquistata dalla propria economia. È proprio questo, in ultima analisi, lo stravolgimento di fondo del turbocapitalismo: la società esiste per servire l'economia, anziché il contrario. Quando tutto il capitale disponibile è attribuito con la massima efficienza a qualunque ente realizzi in cambio il massimo profitto, non ne resta più da riservare a istituzioni che svolgono attività non redditizie in forza di imperativi morali o di pretese moralistiche, etica professionale o altre velleità consimili, supremi ideali o anche mera abitudine.
È questo il grande dilemma del nostro tempo. Fino a oggi quasi nessun governo occidentale è riuscito a proporre di meglio che consentire al turbocapitalismo di avanzare senza limiti, nella speranza che una crescita più rapida possa porre rimedio a ogni sua contriondicazione. Che questo potrà solo accelerare il frammentarsi della società in eroi della Silicon Valley e valli di lacrime risulta evidente con un pizzico di logica, ma l'establishment politico pare ignorarlo.
Se raffrontato alla schiavitù delle defunte economie comuniste, all'alienazione del socialismo burocratico e al grottesco fallimento delle economie nazionalizzate, il turbocapitalismo risulta superiore sul piano materiale e complessivamente non inferiore sul piano morale, nonostante tutti i suoi effetti corrosivi sulla società, sulle famiglie e sulla cultura stessa. Eppure, accettarne il dominio su ogni aspetto della vita, dall'arte allo sport, oltre che su ogni forma di attività economica, non può rappresentare il massimo coronamento dell'esistenza del genere umano. Anche il turbocapitalismo finirà per passare.
p. 274-5 di:
"La dittatura del capitalismo
Dove ci porteranno il liberalismo
selvaggio e gli eccessi
della globalizzazione"
© 1998 Edward N. Luttwak
© 1999 Mondadori, pp 323
Titolo dell'opera originale: Turbo-Capitalism
Traduzione di Andrea Mazza