L'ABUSO
SESSUALE NELL'INFANZIA: UN'ANALISI COGNITIVO-EVOLUTIVA.
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Articolo
pubblicato su " Psicobiettivo", Aprile 1999, anno XIX, N. 1
Enrico Costantini, Giuseppe Miti
Psichiatra e Psicoterapeuta, ARPAS
Piazza Tuscolo, 5 - 00183 Roma
Tel. 06-7049.6660
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L'influenza che il paradigma scientifico dominante esercita sui programmi
di ricerca e sulla costruzione di una sistematizzazione del comportamento
di alcuni aspetti del mondo reale è stata ben descritta da Kuhn (Kuhn
T., 1969). La storia delle scienze della mente non fa eccezione a questa
posizione filosofica, e, nello specifico, il problema dell'abuso infantile
rappresenta un'area emblematica di come i fattori ideologici e paradigmatici
possano influire sull'attenzione, sulla definizione e sul significato attribuito
dalla società scientifica ad un evento osservato.
Quasi con accanimento, si è molto discusso in questi ultimi anni dell'abbandono
da parte di Freud della teoria della seduzione, motivandolo, almeno in parte,
con l'adeguamento ai valori socio-culturali del periodo. Il paradigma psicoanalitico
delle fantasie edipiche ha, in effetti, dominato per buona parte di questo
secolo, contribuendo probabilmente alla scotomizzazione degli abusi reali
sull'infanzia. Sull'onda del cambiamento culturale innescato negli anni '60
è70 da diversi movimenti di liberazione (ad es. il femminismo) e dall'attenzione
maggiore fornita dalla società ai diritti dell'infanzia e ai maltrattamenti,
e contemporaneamente alla crisi della psicoanalisi dovuta anche al sorgere
di nuove teorie, si è andato formando negli anni '80 un nuovo paradigma
esplicativo che ha avuto la sua massima espressione nell'esplosione dei resoconti
scientifici sugli effetti psicopatologici dell'abuso infantile, i cosiddetti
Disturbi Dissociativi.
Un percorso parallelo sembrano aver seguito le teorie sulla coscienza, sulla
memoria e sull'identità. Anche se il pensiero di Janet era largamente
diffuso ed apprezzato verso la fine dell'800, l'importanza che questo Autore
attribuiva alla dissociazione della coscienza, alla utilità di recuperare
i ricordi disaggregati legati ad un trauma infantile, e quindi la descrizione
di una identità non necessariamente unitaria, ma multipla, è stata
accantonata a favore delle spiegazioni della scuola psicoanalitica. Solo
negli ultimi venti anni l'approccio teorico di Janet è stato recuperato
e rivalutato e, in particolare, l'esigenza di ricostruire gli eventi traumatici
e l'origine causale del disturbo psicopatologico è divenuta il punto
centrale degli interventi terapeutici in tutti i disturbi che si suppongono
in relazione eziologica con un abuso infantile.
Tuttavia, la forse eccessiva enfasi su questo aspetto ha generato, soprattutto
negli Stati Uniti, una corrente di pensiero e un movimento di opinione così fortemente
critici che una buona parte degli articoli e dei lavori degli ultimi anni
sono dedicati a ricerche empiriche sull'attendibilità e l'accuratezza
dellèmemorie dimenticatè, la suggestionabilità (iatrogenesi) e
la corroborazione dei ricordi, allo scopo di difendere il paradigma dell'"abuso
dissociato" dalle contestazioni radicali.
All'interno di questo dibattito, il contributo della Teoria dell'attaccamento
e dei Sistemi Motivazionali Interpersonali apporta, a nostro avviso, una
prospettiva che, se non elimina il problema della memoria vera o falsa, allarga
l'ottica con la quale osservare lo sviluppo psicologico e psicopatologico
degli individui, sottolineando la complessità e la qualità delle
relazioni del bambino, e non solo l'impatto di un evento, singolo o ripetuto,
sul suo assetto psichico. L'utilità di questa teoria e di questo approccio
(cioè, di questo paradigma) è talmente evidente da essere riconosciuta
ed apprezzata anche all'interno della scuola psicoanalitica attuale. Secondo
Muscetta, ad esempio (Muscetta S., 1997), "se si modifica il concetto
di inconscio per farlo diventare non solo qualcosa che include specifici
ricordi rimossi e stati conflittuali legati a pulsioni, ma qualcosa che invece
si riferisce a configurazioni internalizzate del Sè e dell'altro in
interazione, è l'intero obiettivo terapeutico che si modifica".
E' anche vero, tuttavia, che sembrano aumentare le richieste di psicoterapia
legate al ricordo o alla percezione di aver subito un abuso nell'infanzia,
così come sembra più frequente nei terapeuti il sospetto che
i disturbi psicopatologici dei pazienti possano essere correlati ad una storia
infantile di abuso. Il problema dell'attendibilità della memoria,
la difficoltà di recuperare i ricordi e i dubbi sul comportamento
da tenere sono cioè reali e spesso rappresentano un punto nodale della
terapia.
Noi, attraverso il resoconto di tre casi clinici, cercheremo di descrivere
alcuni tra gli indizi e i criteri che, nella nostra esperienza, fanno ritenere
possibile o probabile che si sia verificato un caso di abuso infantile, o
che comunque suggeriscono al terapeuta di prendere in considerazione questa
possibilità; quindi illustreremo le diverse evoluzioni del processo
terapeutico in conseguenza della verificabilità e della veridicità del
ricordo; infine, esporremo quelle che ci sembrano essere alcune tra le possibili
linee terapeutiche utilizzabili.
DANIELA: QUANDO IL SOSPETTO RIMANE SOSPETTO
Daniela ha deciso di interrompere il rapporto con Marco, che dura da
sei anni; la decisione è comunque difficile e la relazione si
trascina per qualche mese in un tira e molla indefinito. In questo periodo,
Daniela si sente "in trappola" ed inizia ad accusare sintomi
a tipo attacchi di panico ed agorafobico: la sua libertà di movimento
si riduce, avverte una mancanza di equilibrio quando cammina da sola,
ha vertigini ed è continuamente ansiosa, ha paura di divenire
matta e perdere il contatto con la realtà e il controllo delle
sue emozioni, di sentirsi in totale balia degli altri, dipendente da
loro. Si rivolge ad uno psichiatra che le prescrive una terapia farmacologica
e le consiglia una psicoterapia da un altro psichiatra.
I sintomi di Daniela sembrano confermare l'ipotesi diagnostica del medico
inviante, cioè un disturbo di tipo fobico. La psicoterapia perciò si
orienta su questa linea, analizzando il significato del suo rapporto sentimentale,
la decisione di interromperlo e la qualità del suo rapporto con i
genitori, attraverso la ricostruzione della sua infanzia. Si riesce così a
valutare come l'atteggiamento dei genitori nei suoi confronti sia sempre
stato ipercontrollante e colpevolizzante, come siano sempre stati indisponibili
e chiusi al suo mondo emotivo. I frequenti litigi tra i genitori avevano
poi portato il padre ad abbandonare la famiglia quando Daniela era ancora
piccola.
L'esame della situazione procede per alcuni mesi, delineando una anamnesi
soddisfacente dal punto di vista teorico, ma...Daniela sta sempre male. Anzi,
il rapporto con il medico sembra più difficile, ostacolato da una
scarsa produzione verbale, da un silenzio a volte opprimente. Ci sono momenti
in cui Daniela sembra attanagliata da un'ansia dirompente che le fa torcere
le mani e le toglie le parole. La percezione di una situazione di stallo
suggerisce al terapeuta di ricorrere ad un aiuto farmacologico tramite il
medico inviante, di rivisitare il percorso terapeutico sin lì effettuato
e di chiedere allo stesso medico inviante la possibilità di una discussione
del caso, un peer counseling.
La semplice rilettura degli appunti presi nelle prime sedute permette al
terapeuta di soffermarsi su alcuni dettagli che gli erano sembrati irrilevanti
o che aveva interpretato in maniera errata. Probabilmente, la maggiore concentrazione
per gli aspetti relazionali aveva lasciato sullo sfondo dell'attenzione alcuni
messaggi (inconsapevoli?) della paziente: nel riferire eventi della vita
quotidiana, racconta di essere rimasta molto colpita dalla visione del film
Angel Heart, in cui il protagonista ha ceduto l'anima al Diavolo ed ha cambiato
identità, perdendo il ricordo della precedente; in una scena, si guarda
allo specchio disperato e grida: "Io lo so chi sono!", ma non è vero
e finisce per essere giustamente punito per la sua cattiveria. Daniela commenta
di aver pensato: Anch'io sono così, posso aver fatto qualcosa di male
senza saperlo e verrò punita, meritatamente.
In altre occasioni, racconta di immagini cruente e violente che le si impongono
alla mente e che cerca di cancellare con forza perchè la spaventano
e non riesce a dar loro un significato.
A volte riferisce dei sogni surreali di morte o nei quali qualcuno cerca
di costringerla a fare qualcosa che le ripugna, come prendere in braccio
un rettile.
E, per finire, alcune volte collega l'impossibilità di parlare al
terapeuta di alcuni pensieri disgustosi con la sofferenza e la paura che
ha provato da piccola in episodi di cui non riesce ad avere che ricordi confusi
e parziali, ma che sono tutti legati alla figura minacciosa di uno zio che
viveva con lei.
Grazie all'esame di questi elementi e di altri simili, nella discussione
con il collega viene presa in considerazione l'ipotesi di un abuso sessuale
e riformulata la diagnosi che appare più collegata ad un disturbo
dissociativo (esemplificato dal racconto del film).
Anche Daniela, naturalmente, è consapevole che qualcosa non sta funzionando
nella terapia, e lo esprime a modo suo, silenziosamente. Questa comunicazione
non verbale ha costruito un'atmosfera emotiva nella quale scorrono, tacitamente,
irritazione e rabbia: del terapeuta, che ha la percezione, superficiale ed
erronea, di una paziente non collaborante, e della paziente che, giustamente,
non si sente capita ed aiutata, ma non può esprimerlo perchè se
ne sentirebbe colpevole. Così come si sente colpevole di tutto, anche
di avere paura. Daniela si tiene a distanza in tutto il suo comportamento:
nascosta ed infagottata negli abiti, non guarda mai negli occhi il terapeuta, è in
preda ad un'ansia che sente come paralizzante in tutte le attività,
percepisce e teme il rifiuto in tutte le relazioni, aspettandosi dagli altri
lo stesso disprezzo che si attribuisce da sola. In altri termini, Daniela
esprime continuamente l'emozione della vergogna.
L'ingresso nel processo terapeutico di una terza figura, cioè del
medico inviante che inizia a seguire la ragazza dal punto di vista farmacologico
(ma non solo) e che discute con il terapeuta regolarmente del caso, porta
ad un cambiamento del rapporto e del setting terapeutico. Anche se Daniela
aveva richiesto una terapia farmacologica per non pensare alle cose che la
spaventano, una volta tranquillizzata accetta invece di parlarne e propone
di utilizzare un'intermediazione: di portare, cioè, in seduta un suo
vecchio orsacchiotto tramite il quale esprimere quello che non sa/può dire.
L'idea le è venuta perchè in quei giorni sui giornali era stato
descritto questo metodo per permettere ai bambini maltrattati di raccontare
esperienze dolorose prendendone un po' le distanze.
Così, l'orsacchiotto inizia a divenire una figura dotata di una sua
autonomia ed identità, e a produrre immagini strutturate e ricordi
definiti di molestie e abusi sessuali da parte di familiari della paziente.
Bisogna rilevare come, pur essendo questa tecnica suggestiva di un'induzione
autoipnotica di uno stato di trance, Daniela non sembra affatto in uno stato
alterato di coscienza. Quello che avviene sembrava avere a che fare con la
condivisione di conoscenze tra due parti di lei, contemporaneamente presenti
e separate. Come dirà Daniela dopo qualche tempo, l'orsacchiotto sembra
la parte di me che contiene i segreti, ma è come un dialogo tra me
e me, spesso attivato da immagini. Sono le stesse immagini che avevo prima,
ma che non capivo e che attribuivo a qualcosa di brutto dentro di me e cercavo
di allontanare. Ora ho meno paura, ma sono più triste.
Nonostante ciò, e nonostante alcuni sogni la cui interpretazione e
il cui utilizzo come immagini di un daydreaming consapevole conducessero
verso analoghi contenuti, Daniela è rimasta sempre fortemente dubbiosa:
sull'identità dei protagonisti delle immagini, dei ricordi e dei sogni,
e soprattutto sulla realtà di questi. Probabilmente, la necessità di
mantenere un rapporto accettabile con i genitori, sue uniche figure di riferimento
in un'esistenza povera di relazioni, ha prevalso sul bisogno, che pure sentiva,
di recuperare la memoria del suo passato. Nello stesso tempo, però,
Daniela ha acquisito una maggiore sicurezza che le ha permesso di affrontare
comunque alcuni aspetti di questi rapporti: è riuscita a spiegare
alla madre come si sentisse trascurata da piccola e, quando la madre le ha
chiesto genericamente scusa pretendendo di parlare con il terapeuta, ha trovato
il coraggio di dirle che se vuole alleggerirsi la coscienza deve farlo con
lei e non con il medico. In effetti, il rapporto con i genitori sembra essere
cambiato ed anche il loro atteggiamento si è modificato, diventando
leggermente più affettuoso ed accudente. Ora, Daniela riesce anche
ad arrabbiarsi qualche volta e a farsi rispettare perchè si sente
più forte delle sue paure, ma non riesce mai del tutto a non sentirsi
un po' colpevole quando prova ed esprime emozioni nei confronti delle quali
resta forte un giudizio morale ambivalente: da un lato capisce che ha ragione
a difendere le sue opinioni, dall'altro si considera cattiva, indegna o teme
di subire una qualche punizione per il suo comportamento. Vorrei tanto poter
dare la colpa a qualcuno, però non ci riesco; tutto ricade sempre
su di me.
PAOLA: l'ABUSO REALE
Paola giunge accompagnata dal marito, sinceramente e congruamente preoccupato
per la salute della moglie. Le notizie che seguono sono raccolte da entrambi.
Al momento della prima visita ha 28 anni. E' vestita in modo modesto,
ma ordinato. Non è truccata, è discretamente sovrappeso.
Lo sguardo, all'inizio costantemente rivolto verso il basso ( come se
si vergognasse ), vagherà poi tra me, il marito ed il vuoto ( come se
si estraniasse ). Alterna perplessità, forte angoscia ( le dita vengono
attorcigliate l'una all'altra e quindi il movimento si articola in uno
sfregamento lento, ma violento delle mani, mentre i tratti del viso vengono
alterati da una fortissima tensione) e pianto (si raccoglie su se stessa
e piange, silenziosamente, senza singulti, come se stesse disperatamente
sola di fronte ad un dolore soverchiante ed inevitabile). L'ideazione
è incentrata sulla convinzione assoluta, delirante, che tutti sappiano
che è stata violentata e quindi ammiccano, alludono, la deridono, la
isolano, la rifiutano. Chiarirà poi che tutti sanno perchè i parenti
del marito ed in particolare la sorella," parlano ". Questo
dato sarà molto importante per comprendere il processo che ha portato
alla crisi. A questo punto il marito interviene specificando che la violenza
sessuale c'è stata davvero e si è conclusa con una condanna del padre
di lei a due anni di carcere. Emerge quindi in prima seduta un abuso
sessuale certo, corroborato dalla condanna di un tribunale, portato avanti
dal padre in un periodo che va dai sette ai quattordici anni di età
della paziente. E' chiaro, anche per il contenuto del delirio, che l'abuso
sessuale e la crisi attuale sono collegate, ma come? Perchè la crisi
c'è stata proprio adesso? Queste ed altre domande senza risposta continuavano
a girare nella mia mente. Prescrivo 40 gocce di aloperidolo, 45 gocce
di bromazepam ed un anticolinergico. Fisso l'appuntamento dopo sette
giorni e do' la disponibilità telefonica per qualunque evenienza. Alla
visita successiva la paziente sta inaspettatamente e clamorosamente meglio.
Il delirio non c'è più e devo addirittura abbassare la dose del neurolettico,
perchè è presente una discreta ipertonia. Le migliorate condizioni
psichiche consentono una maggiore collaborazione e cio' permette, nel
corso delle sedute successive, di parlare dell'abuso e di cio' che ha
preceduto la crisi. Quello che segue è un estratto di quanto emerso.
Mi sono limitato a dare una consecutio ai fatti in modo che fossero comprensibili
a chi legge.
La famiglia era composta da padre, madre e due fratelli ed una sorella piu
grandi di lei. Le condizioni economiche erano precarie. La madre faceva lavori
domestici presso altre famiglie. Il padre coltivava un piccolo terreno e
faceva lavori saltuari. La madre era descritta come assente sia fisicamente
che psicologicamente.
"Papà portava me e spesso mia sorella, più grande di tre anni, in campagna
e faceva.........Dottore mi scusi ma ancora non me la sento di parlare di quei
momenti. La violenza termino' intorno ai 14 anni, quando minacciai di denunciarlo.
Seguirono due anni in cui avevo praticamente dimenticato tutto e non riuscivo
a capire perche odiassi mio padre, finchè un giorno lui mi picchio' per un motivo
futile ed io, in preda alla rabbia, ricordai tutto. Poco tempo dopo mia sorella
denuncio' nostro padre ed io fui chiamata a testimoniare. Se avessi confermato
tutto, papà sarebbe andato in carcere, ma se non lo avessi fatto mia sorella
sarebbe passata per visionaria, pazza o mentitrice. Le pressioni per ritrattare
furono fortissime. Ricordo che l'avvocato di papà mi disse che per colpa mia
un brav' uomo sarebbe andato in carcere e la famiglia si sarebbe sfasciata. Mia
madre non sapeva cosa fare e/o dire e piangeva, un fratello mi esortava a tacere,
l'altro a dire la verità. Le persone del quartiere si erano divise in due fazioni.
Alla fine confermai tutto, papà fu condannato, un fratello se ne ando' di casa,
i miei si separarono. Segui un periodo terribile, mi sentivo in colpa, mi vergognavo,
ero additata da tutti e mi isolai, aiutata soltanto da mia sorella Poi incontrai
l'uomo che è diventato mio marito. Dopo poco tempo gli dissi tutto, ma lui,
stranamente, capì e rimase con me. Avevo finalmente un uomo che mi capiva,
mi stava vicino, non mi giudicava e soprattutto mi accettava, nonostante sapesse
della violenza.. Anche la sua famiglia, sebbene grazie al segreto, mi stette
tanto vicino. Finalmente avevo una vera famiglia, mi sentivo accettata. La sorella
di mio marito mi porto' a lavorare con lei. Tre anni fa mi sposai ed andammo
ad abitare nella casa di mia madre, ma passavamo quasi tutto il tempo da mia
suocera".
Seppure tra alcune difficoltà sembrava procedere tutto per il meglio, quando
accaddero diversi fatti: 1) alcuni mesi prima della crisi la cognata, che
in quel periodo aveva seri problemi coniugali, fece una tremenda scenata
di gelosia alla propria madre, accusandola di preferire Paola a lei. Segui'
un brusco raffreddamento dei rapporti con tutta la famiglia acquisita. Qualche
tempo dopo Paola, a partire da alcune frasi realmente dette dalla suocera
e dalla cognata, comincio' ad avere prima il dubbio e poi la certezza che
le due donne sapessero dell'abuso. 2) Circa due mesi prima della crisi Paola
fece la madrina di battesimo alla figlia di un parente del marito. "Fare
la madrina di una neonata è una grande responsabilità,si diventa la figura
più importante dopo i genitori. Oscillavo fra il timore di non essere all'altezza
del compito e l'idea di non esserne degna a causa del mio passato".
3) Circa quindici giorni prima della crisi Paola litigo' fortemente con la
cognata, perchè era stata derisa sul posto di lavoro. 4) Il giorno della
crisi il padre, a suo dire in segno di riconciliazione, ando' a trovarla
portandole in dono un quadro con una donna nuda.
"Appena vidi il quadro pensai che quella donna fossi io. Fui presa da una
grande angoscia. La notte non dormii. Il giorno dopo andai al lavoro, ma non
ce la facevo e tornai a casa . Come in un turbine, cominciai a pensare di essere
tanto cattiva e/o che gli altri potessero pensare cio', poi che potessi abusare
della bambina a cui avevo fatto da madrina e/o che gli altri potessero pensarlo.
Mi sembrava di impazzire, l'angoscia cresceva, cresceva ed io non riuscivo a
fermare il pensiero finchè mi convinsi che tutti sapessero che ero stata violentata
da mio padre, perche mia cognata aveva parlato".
I dati sopra esposti ed altre notizie non riportabili per problemi di spazio,
sembrano sostenere l'ipotesi che Paola, dopo il processo, riusci' a riorganizzarsi
grazie al legame affettivo con il fidanzato ed a quello con la famiglia di
lui.
Negli anni che precedettero la prima crisi Paola aveva strutturato un rigido
e generalizzato perfezionismo volto ad evitare le facili autocolpevolizzazioni,
la vergogna, il timore del giudizio, dello sbaglio e quindi del rifiuto.
A mio avviso le ragioni della rottura psicotica proprio in quel momento,
a parte le cause predisponenti rappresentate forse dalla biologia e certamente
dalla costruzione di particolari e disfunzionali modelli operativi interni
di sè e dell'altro a partire dalla propria storia di sviluppo, sono da ricercare:
a) nella sensazione di solitudine successiva alla fine della "luna di
miele" con la famiglia del marito.
b) nel vissuto di pericolo successivo alla percezione, a mio avviso corretta,
che le due donne avessero saputo dell'abuso.
c) nell'angoscia connessa alle idee di indegnità ed incapacità fatte affiorare
dal madrinato. Forse non a caso, dopo il matrimonio, c'erano stati due inspiegabili
aborti spontanei.
d) nel vissuto di pericolo successivo alla lite scatenata da Paola contro
la cognata in risposta ad una derisione reale. " Me l' avrebbe sicuramente
fatta pagare ".
Alla luce di cio', il regalo del quadro della donna nuda da parte del padre,
appariva l'ultima goccia su un vaso già colmo.
Nei mesi che seguirono la crisi psicotica la paziente, che continuava a prendere
soltanto otto gocce di aloperidolo al di', torno' alla modalità di funzionamento
precedente il periodo critico e soltanto una volta temetti una ricaduta (
aveva detto ad una collega di non fare la " furba " sul lavoro
e subito dopo era scattato il timore che gliela facesse pagare ). Dopo circa
un anno di sedute settimanali mi disse di aver sospeso le medicine perchè
era incinta. Negli ultimi mesi avevamo trattato più volte il desiderio -
timore di una gravidanza.
La gravidanza ando' avanti bene, mentre esploravamo il timore di non essere
una buona madre. Intorno alla fine del quinto mese di gravidanza le fu fatta
un'altra proposta di madrinato "non rifiutabile " e subito dopo
un'ecografia mise in dubbio la normalità del feto . Dopo quattro giorni
il marito mi chiamo' dicendo che Paola stava malissimo. Alla visita, a cui
la paziente era venuta soltanto perchè costretta, si mostro' diffidente,
oppositiva ed in alcuni momenti perplessa. All'ennesima sollecitazione a
parlare da parte del marito, Paola disse : "Questa è una farsa, perchè
mi hai portato dal dottore? Io non sono malata, io sono cattiva, io sono
solo cattiva, è giusto che paghi le mie colpe, devo espiare le mie colpe.
E poi cos'è questa storia che sono incinta? Io non sono incinta. Non voglio
più stare dal dottore, voglio tornare a casa". Data la gravità della
situazione e non senza serie difficoltà, feci ricoverare la paziente. Dopo
quattro giorni andai a trovarla. Come concordato con i medici del reparto,
erano stati somministrati neurolettici a basse dosi ed il delirio era rientrato.
La paziente si scuso' dei problemi creati in occasione del ricovero ed espresse
il timore di potere avere una nuova ricaduta. Era consapevole di essere incinta
e con gioia mi riferi' che l'ecografia fatta nella mattinata escludeva anomalie
fetali. Mi parlo' della grande angoscia provata quando il precedente ecografista
le aveva detto che forse il feto aveva delle anomalie, ma non sapeva come
era scivolata nella condizione successiva. Dopo due giorni tornai a trovarla
e la feci dimettere. Nel corso del colloquio successivo alla dimissione mi
espresse la sua profonda gratitudine per averla fatta ricoverare e per le
visite fatte in ospedale, mi parlo' del desiderio di essere una buona madre
e della conseguente decisione di voler riparlare dell'abuso sessuale di tanti
anni prima. Quello che segue è un estratto di quanto riferito a tutt'oggi
dalla paziente circa l'abuso.
"Mio padre portava me e mia sorella in campagna oppure, quando mamma non
c'era, sul lettto grande. Inizialmente ci baciava il seno......poi comincio'
a mettersi dietro di me e faceva........poi davanti .......e faceva. A volte,
dopo, piangeva e diceva che non l'avrebbe fatto più. A volte mi estraniavo e
non sentivo più niente, a volte il mio corpo provava piacere. La cosa strana
è che di quel periodo ho da un lato ricordi sbiaditi, confusi, come se avessi
dei buchi, e dall'altro dei ricordi vividissimi che, specie in passato, invadevano
all'improvviso la mia mente. Questi ricordi hanno ostacolato a lungo la vita
intima con mio marito. Mi sono sempre sentita in colpa, perchè a volte il mio
corpo ha reagito provando piacere, perchè non ho parlato prima, perchè ho parlato.
Insomma la mia vita era ed è piena di sensi di colpa e spesso non riesco a trovare
il bandolo della matassa. Anche la vergogna è un' emozione che mi ha sempre
accompagnata".
Attualmente la paziente ha una figlia di pochi mesi e si comporta come una
madre molto apprensiva. Credo che bisognerà lavorare ancora a lungo per
cercare di aiutarla a fronteggiare le emozioni che sente " devastanti " ed
a ristrutturare i modelli operativi di sè e dell'altro.
ELENA: L'ABUSO SIMULATO
Il primo incontro con Elena fu decisamente anomalo. Mentre stavo nella
mia casa di campagna venni contattato da un vecchio amico, medico di
famiglia del paese, che non sapeva più cosa fare con la paziente. "Vengo
chiamato continuamente dal marito per i sintomi più vari e qualunque
cosa faccia non funziona. La signora assume psicofarmaci ad alti dosaggi
e mi ha chiesto di poter consultare uno psichiatra di mia fiducia, in
attesa che torni in città e ne trovi uno lei. La famiglia è tornata
in Italia da circa due mesi e gli psicofarmaci che assume sono stati
prescritti da uno psichiatra tedesco. So che non gradisci fare visite
al domicilio del paziente, ma ti prego di accompagnarmi, perchè la paziente
è terrorizzata e non si muove da casa, tanto si tratterà soltanto di
una consulenza". Mi lasciai convincere e mi ritrovai in una vecchia
villa perfettamente ristrutturata. Ad attenderci c'era il marito, un
uomo dall'aspetto giovanile e dall'atteggiamento decisamente manageriale,
che dal nulla aveva costruito un piccolo impero economico. Questi, con
gentilezza, ma con il fare tipico di chi non è abituato a perdere o
a far perdere tempo, riferì che la moglie aveva cominciato a stare
male quattro anni prima con tachicardie, svenimenti, risvegli notturni
in preda al terrore, paura di stare da sola, cefalee.Vennero consultati
cardiologi, internisti, neurologi e quindi psichiatri, senza alcun risultato.
Da circa un mese, dopo un ricovero di cinquanta giorni, era stata dimessa
da una clinica tedesca con la prescrizione di neurolettici sedativi e
benzodiazepine. Nel corso degli anni le diagnosi, fatte da eminenti specialisti,
erano state assai varie: depressione, attacchi di panico, stato crepuscolare,
isteria, ipocondria, psicosi reattiva breve.
Venni portato nella stanza della paziente. Le faceva compagnia la madre,
un'anziana nobildonna elegantemente vestita, dai modi decisi e dall'aspetto
austero, venuta dall'estero per aiutare la figlia che, mostrando di conoscere
la prassi psichiatrica, saluto' e rapidamente ci lascio' soli.
La paziente, fortemente sovrappeso, ordinata nell'aspetto e nella cura della
persona, ma sicuramente poco incline ad occuparsi di quei particolari che
avrebbero potuto valorizzare la propria femminilità, appariva nel complesso
dimessa, fuori posto rispetto al contesto. Mi accolse con cordialità, il
colloquio si protrasse per circa due ore e si concluse con l'espressione
della sua gratitudine perchè nessuno l'aveva mai ascoltata per cosi tanto
tempo. Ritenni che la paziente soffrisse di attacchi di panico il più delle
volte secondari a fenomeni di depersonalizzazione e/o derealizzazione e,
rispondendo alla sua richiesta che impostassi la terapia in attesa che lei
riprendesse il contatto con il precedente psichiatra, prescrissi un antidepressivo
e un ansiolitico e consigliai una psicoterapia. Dopo circa un mese telefono'
dicendo di sentirsi decisamente meglio e chiedendo di essere seguita da me.
Diedi la disponibilità a seguirla farmacologicamente ma, per mancanza di
tempo, confermai l'impossibilità ad iniziare la psicoterapia. Si dichiaro'
disposta ad aspettare. Seguirono sei visite con frequenza mensile, durante
le quali fu possibile scalare le medicine.
Dopo circa due mesi dall'inizio della psicoterapia, preceduta dall'accennare
della paziente a fatti di cui ancora non si sentiva di parlare, ci fu una
seduta drammatica. Mentre sto salutando l'ultimo paziente vengo avvisato
dalla segretaria che nella sala di attesa c'è Elena, giunta con più di
un'ora di anticipo rispetto al previsto. "E' arrivata spettinata, con
uno sguardo strano, non ha salutato, ha chiesto di lei e si è seduta.
Adesso sembra che dorma, è semi-sdraiata sul divano, con le gambe
semi-aperte e fa strani gesti con le mani. Ho provato a chiederle se potessi
fare qualcosa per lei, ma non mi risponde. La situazione è molto imbarazzante
perchè io non so cosa fare ed i pazienti degli altri medici ....".
Mi reco nella sala di attesa e vedo la paziente all'apparenza addormentata.
La saluto e la chiamo. Lentamente sembra svegliarsi, si guarda intorno e
quindi mi segue. Giunta nella stanza si siede e, lentamente, ma con circospezione,
esplora visivamente ogni centimetro dello spazio davanti ed intorno a lei.
Questo comportamento è interrotto soltanto da sguardi intensi rivolti
al terapista. L'impressione è che lo spazio la spaventi e il terapista
la rassicuri. Poi si raggomitola su se stessa, quindi segue una caduta del
tono muscolare e dalla poltrona scivola a terra sbattendo violentemente testa
e spalla. Da questa posizione comincia a farfugliare parole incomprensibili
e poi ad urlare "Basta, andatevene, smettetela", mentre serra violentemente
le gambe e mulina le braccia come per allontanare qualcuno.
Sono interdetto, mi avvicino, è fortemente sudata, mentre continua
la sua lotta. A fatica riesco a calmarla dicendole che sono il dottore, che
sta nel mio studio e che in questo momento non sta accadendo niente di pericoloso.
Lentamente si riprende e la invito a sedersi. Si siede su un lato della poltrona
e con gli occhi rivolti in basso ed una voce da bambina, racconta dello stupro
subito a 11 anni ad opera di amici del fratello. Il racconto è ricco
di rossori al volto, di pause e soprattutto di lacrime. Riferì poi
che, prima della seduta, aveva visto un film particolarmente violento. "La
vista del film mi aveva spaventata, mi sentivo in pericolo e sono fuggita
da casa per venire da lei".
Quella fu la prima di una serie interminabile di sedute con "rivelazioni" sempre
più truculente. Violenze sessuali di amici del fratello, del fratello,
del fratellastro della madre, della madre ed infine del padre. Un vero campionario
di nefandezze raccontate con partecipazione affettiva intensa e congrua.
Nel corso delle sedute si alternavano stati di coscienza normali, forse alterati,
sicuramente alterati, però l'identità della paziente e del
terapista rimanevano stabili e non c'erano grossolani fenomeni amnesici.
Il ricordo delle violenze raccontate permaneva stabile, ciò su cui
si confondeva era la cronologia dei fatti ed i particolari. Più raccontava
e più crescevano i miei dubbi, finchè mi convinsi che mentisse.
La menzogna non era però quella lucida, chiaramente consapevole, perfettamente
organizzata di un adulto. Appariva essere piuttosto la menzogna che può costruire
un bambino che sa di mentire, ma che non ha la capacità di tenere
contemporaneamente presenti tutti gli elementi, i dettagli. L'unica cosa
sicura era il canovaccio sotteso: lei era la vittima inerme, gli altri i
persecutori ed io l'unico possibile salvatore. Chi mi trovavo di fronte?
Cosa potevo aver fatto per incoraggiarla a mentire? Quale era il confine
tra la verità, la fantasticheria e la menzogna? Mi rendevo conto che
mettere in dubbio il racconto della sua vita era una mossa forte dalle conseguenze
non facilmente prevedibili, ma ritenni che non si potesse fare altro. Forte
del convincimento che non fosse psicotica e con l'obiettivo di ristabilire
una sincera collaborazione, decisi di giocare a carte scoperte. Le feci notare
le numerose incongruenze presenti nei suoi racconti, le espressi i miei dubbi
e la convinzione che almeno su alcune cose avesse mentito. Le dissi con chiarezza
che ero disposto a continuare la psicoterapia a patto che finisse quella
farsa che poteva soltanto danneggiarla.
La paziente si arrabbiò, mi insultò, disse che non avevo capito
niente e se ne andò dicendo che ormai non valeva più la pena
vivere. La segretaria fu tempestata di telefonate. Risposi a due delle tante
ribadendo con fermezza i concetti espressi. Alla seduta successiva entrò con
la testa china e con il volto rosso per la vergogna. Si scusò, appariva
sinceramente pentita e cercò di spiegare le motivazioni del proprio
comportamento. "Lei è stato il primo psichiatra che mi ha ascoltata
veramente, senza fretta. Sentivo che ascoltava e partecipava. Sono stata
meglio subito dopo la prima visita. Non mi sentivo più sola. Le visite
successive hanno confermato la prima impressione ed io mi sono innamorata
di lei. Sentivo di stare meglio e cominciai a temere che proprio per questo
lei interrompesse le sedute, e questo mi faceva stare di nuovo male. Cosa
potevo offrirle per garantirmi la sua vicinanza?... E cominciai a fantasticare
e...come mi è sempre accaduto, ho cominciato a confondere realtà e
fantasia e poi a temere che lei si accorgesse...".
Sono passati diversi anni. La paziente non aveva subito alcuna violenza di
tipo sessuale, ma ne aveva subite gravissime sul piano dell'accudimento.
Il padre era un ricco uomo d'affari, perennemente in viaggio, assente emotivamente
anche quando era presente fisicamente. La madre era una bella signora con
tanto tempo libero, impiegato in feste ed amanti, che sembrava ricordarsi
della figlia soltanto quando stava male fisicamente. Il fratello odiava tutti
i membri della famiglia perchè era stato mandato in collegio da piccolo.
La paziente aveva trascorso la propria infanzia con balie efficienti, ma
aride affettivamente. L'unico rimedio alla solitudine apparivano essere state
una ricchissima attività fantastica e/o la malattia fisica. "Quando
stavo male mamma rimaneva in casa e curava personalmente la somministrazione
delle medicine". Andò avanti, tra fantasticherie e malattie per
tutta l'adolescenza, poi aveva conosciuto suo marito, un ragazzo povero ma
ambiziosissimo. L'inizio della malattia era coinciso con il successo lavorativo
ed i viaggi sempre più frequenti e più lunghi del marito, che
avevano fatto sentire Elena troppo sola e le vecchie strategie erano riemerse.
INDIZI E SUGGERIMENTI SULLA STRATEGIA
E' piuttosto nota l'incidenza e la connessione tra una storia di abuso
infantile, in particolare di natura sessuale, e lo svilupparsi di un
disturbo dissociativo nell'età adulta. Seppure frequente, tuttavia,
questa possibilità non rappresenta una regola, perciò va
tenuta presente, ma deve essere considerata un indice di sospetto. Infatti,
non solo possono essere numerosi i casi in cui nella genesi di un disturbo
dissociativo siano altri i fattori in causa, ma bisogna tenere in considerazione
come anche nelle storie di vita di pazienti con altri disturbi sia possibile
riscontrare degli eventi di abuso.
Inoltre, non è infrequente che un disturbo di tipo dissociativo si
presenti con sintomi che simulino alla perfezione altre categorie diagnostiche,
per poi cambiare sintomatologia quasi improvvisamente a distanza di mesi
o anni. Orientare così la strategia terapeutica soltanto in base alla
diagnosi rappresenta un limite e ci impedisce di ascoltare realmente il nostro
paziente.
I casi che abbiamo descritto ci permettono, inoltre, di sottolineare l'importanza
di considerare gli indizi di un abuso veicolati da immagini apparentemente
fuori contesto o da sogni.
L'importanza dei sogni, delle immagini e delle fantasie è forse sottovalutata
nella terapia cognitiva, ma dovremmo invece riflettere sul fatto che i traumi
e gli abusi che avvengono in età infantile e che vengono dissociati,
sono immagazzinati in modalità senso-motorie ed iconiche piuttosto
che verbali, sia perchè sono adeguate allo sviluppo mentale del bambino,
sia per la qualità emotiva dell'evento, di elevata intensità.
La differenza tra le memorie d'infanzia, che sono eidetiche, e quelle adulte,
che sono lineari, suggerisce che, in un adulto abusato da bambino, il ricordo
dissociato possa manifestarsi più facilmente attraverso immagini,
fantasie, sogni, ed anche flashback, acting-out o emozioni violente senza
contenuto, anzichè come ricordi verbali o rappresentazioni lineari.
Alcuni Autori sostengono anche che questa modalità mnemonica particolare
può fornirci la possibilità di distinguere tra fantasie inconsce
e realtà storica, dissociata o meno che sia: la memoria di un trauma
reale avrebbe un'intensità emotiva più carica, una vividezza
e una modalità visiva o sensoriale di presentazione maggiore di quanto
non abbiano altre memorie o fantasie inconsce (Person & Klar, 1995).
In un altro caso, una paziente, che solo in seguito ricorderà delle
molestie sessuali subite in età infantile, riferisce in prima seduta
di un sogno ricorrente nel quale una grande figura maschile, in ombra e perciò non
identificabile, le si avvicina con le braccia aperte; la paziente, bambina
nel sogno, ne è terrorizzata e cerca di chiamare la madre che però non
accorre. Il sogno termina senza soluzione.
Dal punto di vista comportamentale e degli schemi di relazione, poi, non è infrequente
notare quella che gli psicoanalisti chiamerebbero coazione a ripetere: spesso
cioè, le donne che sono state abusate sessualmente da piccole tendono
a cercare e a trovare degli uomini violenti o che le umiliano oppure a trovarsi
in situazioni pericolose, senza rendersene conto consapevolmente. Costruiscono,
cioè, delle relazioni sulla base dei modelli operativi che conoscono.
Allora, nel caso che il terapeuta abbia la sensazione di trovarsi di fronte
ad un paziente abusato, che cosa deve fare? La domanda sembra oziosa, ma
in realtà così non è; la supposta indistinguibilità tra
fantasia e realtà fa dire a Freud (1915-1917) che "se (tali avvenimenti
infantili) fanno parte della realtà, tanto meglio; se la realtà non
li ha forniti, allora vengono elaborati in base ad accenni e completati con
la fantasia. Il risultato è lo stesso, e a tutt'oggi non siamo riusciti
a dimostrare una diversità di conseguenze a seconda che la parte maggiore
in questi avvenimenti infantili spetti alla fantasia oppure alla realtà".
L'ipotesi è che esistano fantasie primarie di origine filogenetica
che rispondono a un bisogno pulsionale. Se si segue questa teorizzazione è evidente
che non è fondamentale esplorare la realtà storica di un evento
riferito.
Tuttavia, anche senza entrare nel merito della teoria, noi non possiamo non
concordare con Wetzler (1985) che fa notare come "il buon senso da solo
suggerisce che gli eventi reali hanno un impatto differente su un individuo
rispetto a quelli immaginati o plausibili". Il che vuol dire che, non
solo non ci sembra utile tralasciare la possibilità di accedere ad
eventi che possono avere giocato un ruolo eziologico nella sofferenza passata
e presente di un paziente; ma anche che non ci sembra etico metterci nel
ruolo, probabilmente già conosciuto da quel paziente, di chi non presta
attenzione ai fatti traumatici di cui è stato vittima.
CONSIDERAZIONI
Circa il tema di questo articolo, l'abuso sessuale, le pazienti di
cui abbiamo parlato esemplificano le tre possibilità che un terapista
puo' trovarsi di fronte: il sospetto, la certezza e la simulazione. Indubbiamente,
oltre agli aspetti comuni, ognuna espone il terapista a problematiche
diverse rispetto alla relazione terapeutica, al che fare, etc.
Daniela presentava tutte le stigmate di un abuso sessuale, ma poteva il terapista
spingersi fino al punto di ipotizzare in maniera esplicita che avesse subito
una violenza sessuale? A nostro parere una tale affermazione non è vietata
di per sè, ma prima di poter essere pronunciata è necessaria un'analisi
attenta dei dati a disposizione, dello stato della relazione, delle condizioni
della paziente, del cosa accadrebbe dopo. In una parola del timing. Noi,
essendo l'uno lo psichiatra inviante e l'altro lo psicoterapeuta, abbiamo
ritenuto che non fosse ancora giunto il tempo, ammesso che giunga. Come sostengono
Weiss & Sampson (1986), ma anche Bowlby (1979), l'apprendimento implicito
della "credenza patogena" che ogni spinta verso l'autonomia, l'autoaffermazione
e la fiducia in se stessa da parte di Daniela avrebbe comportato sicuramente
un abbandono, un rifiuto o un disastro, ha reso finora difficile affrontare
gli aspetti più dolorosi all'origine di tale convinzione. Se è vero
che la non consapevolezza e il mancato riconoscimento di certe rappresentazioni
sono motivate dal desiderio di non danneggiare i vincoli vitali con i genitori,
noi abbiamo scelto di rispettare questa necessità in Daniela. Nello
stesso tempo, però, poichè analoghe convinzioni patogene e
modelli di comportamento si sono presentati nella relazione terapeutica, è stato
possibile discuterne in una condizione di sicurezza maggiore. Il senso di
colpa e di vergogna che Daniela prova ogni volta che arriva in ritardo in
seduta, le angosce di abbandono e rifiuto che sente durante ogni separazione,
la paura di sentirsi disprezzata ogni volta che ha la sensazione di aver
fatto qualcosa di sbagliato e deve raccontarlo al terapeuta, il timore di
una catastrofe (dalla morte dei genitori a un disastro inconoscibile) conseguente
ad ogni anche piccolo successo personale; ognuno di questi episodi ha fornito
la possibilità di affrontare e cercare di disconfermare queste aspettative
disfunzionali, e provare a dargli un senso connettendole con alcune delle
esperienze della sua vita infantile.
Paola porto' sin dalla prima visita il tema dell'abuso sessuale certo, ma
all'interno di un delirio ("tutti sanno che sono stata violentata"),
per cui fu necessaria una particolare scansione della seduta e della relazione
affinchè assumesse i farmaci in quel momento indispensabili. Per il contesto
ed il momento in cui avvenne la prima visita, il terapeuta si trovo' anche
nella condizione di dover rivestire due ruoli che usualmente preferisce tenere
separati: lo psichiatra che prescrive i farmaci e lo psicoterapeuta. Questo
doppio ruolo, ovviamente, si rivelo' particolarmente arduo in occasione della
seconda crisi psicotica quando, pur con tutte le attenzioni e le accortezze
possibili, fu indispensabile il ricovero contro la volontà della paziente.
Questo evento, particolarmente temuto dal terapista perchè rompeva di fatto
la collaborazione cercata e raggiunta, si è invece fino ad adesso rivelato
un vero e proprio asso nella manica, perchè la paziente lo ha poi letto
per quello che era: un atto di protezione. Per dirla con le sue parole: "Per
mia fortuna lei ha capito la gravità della situazione e mi ha ricoverata,
perchè io mi sarei sicuramente uccisa. Anche se in quel momento l'ho odiata,
adesso voglio ringraziarla anche per avere partecipato a tutte le fasi del
ricovero e per aver cercato di rassicurarmi e spiegarmi quello che stava
succedendo. Ormai ho capito che potrebbe risuccedere che io vada fuori di
testa e non è consolante, pero' è rassicurante che oltre a mio marito ci
sia lei che mi puo' aiutare. Lei dice sempre, ed è vero, che io per sentirmi
al sicuro vorrei controllare tutto, devo ammettere che è la prima volta
che non controllo niente e mi va bene". Comunque il nostro parere è
che sia preferibile, laddove è possibile, fare svolgere a due persone diverse
le funzioni psicofarmacologica e psicoterapica. Dal punto di vista teorico
l'impostazione e la lettura della relazione terapeutica con Paola, all'interno
della teoria dei sistemi motivazionali interpersonali di Liotti (1994), risultano
essere particolarmente stimolanti ed articolate proprio per la doppia veste
del terapeuta. Interagire con un paziente in fase psicotica e prescrivergli
un farmaco che si ritiene indispensabile, continuare a prescrivere un farmaco
al di fuori della fase psicotica, decidere un ricovero contro la volontà
del paziente, proprio mentre si porta avanti un lavoro psicoterapeutico fondato
sulla collaborazione, sono tutti atti che facilmente possono essere letti
all'interno del sistema agonistico e quindi suscitare umiliazione, vergogna,
rabbia, rifiuto, oppure possono risultare talmente inaspettati e confondenti
da essere essi stessi fonte di dissociazione della coscienza. Eppure in certi
momenti non si puo' fare altro. Al fine di limitare i danni è indispensabile
tenere presente quanto sopra, interrogarci circa il senso delle nostre emozioni
e dei nostri pensieri di quei momenti per meglio comprendere quelli dell'altro
e tenere come faro della terapia l'obiettivo della collaborazione, per raggiungere
lo scopo comune rappresentato dalla salute del paziente. Se ci si muove lungo
questa via e viene adeguatamente presentato e motivato, anche il provvedimento
violento per antonomasia, il trattamento sanitario obbligatorio, puo' in
un secondo tempo essere letto dal paziente all'interno di una cornice diversa
da quella agonistica e non solo non ostacolare il lavoro psicoterapeutico,
ma addirittura facilitarlo.
Elena, secondo una propria usuale procedura, operante soprattutto nei rapporti
significativi, aveva rapidamente messo la menzogna al centro della relazione
terapeutica. Dal suo punto di vista soltanto mentendo poteva garantirsi la
vicinanza del terapista e poichè aveva bisogno di una grande vicinanza non
poteva fare altro che costruire bugie sempre più grandi. La conseguenza
era che si distanziava sempre più da sè e dalla propria storia e che metteva
a rischio sia la qualità che la continuità della relazione. La colpa, l'imbarazzo,
la vergogna, la paura che si generavano all'interno e all'esterno di una
relazione siffatta, costituivano spesso la causa scatenante, proprio per
la loro insopportabilità e spesso contemporaneità, di un'alterazione dello
stato di coscienza che rimaneva comunque orientato verso la menzogna. In
sintesi, l'ascolto e l'accoglimento della sofferenza della paziente, operato
dal terapista, aveva elicitato nella stessa il comportamento di attaccamento
che, in base alla propria storia ed ai modelli operativi interni di sè,
dell'altro e della relazione, poteva essere soddisfatto e garantito soltanto
tramite la menzogna. Curiosamente, senza saperlo, la paziente condivideva,
con alcuni specialisti del ramo, la teoria che il reale andamento delle esperienze
di attaccamento-accudimento nell'infanzia non fosse particolarmente o sufficientemente
degno di attenzione.
IN CONCLUSIONE
Il problema dell'abuso infantile e delle conseguenze psicopatologiche
nell'adulto è estremamente complesso. Come sostiene Paris (1995)
a proposito del disturbo borderline di personalità, patologia
ad alta incidenza di abuso sessuale nell'infanzia, qualsiasi ipotesi
globale relativa alle cause dovrà essere necessariamente multivariata
ed è chiaro che non esiste un legame causale semplice tra cattiva
funzione genitoriale e psicopatologia dell'età adulta. Kauffman
et al. (1979) hanno addirittura riscontrato come bambini con genitori
psicotici possano divenire competenti, cioè degli adulti sufficientemente
funzionanti. I fattori di rischio ambientali possono così interagire
sia con la scelta dei meccanismi di difesa a disposizione, sia con fattori
costituzionali innati, costruendo una cornice di sviluppo nella quale
ogni individuo esprime la propria vulnerabilità o invulnerabilità agli
eventi di vita.
Questa teoria appare tanto più credibile quanto più grave è il
disturbo psicopatologico del soggetto, e ci porta a fare delle considerazioni
che non possono prescindere da essa.
In primo luogo, dovremmo resistere alla tentazione di adottare una teoria
causale lineare. Disturbi psicopatologici simili possono rivelare processi
evolutivi differenti, così come esperienze infantili analoghe possono
produrre quadri sindromici diversi. Nei casi di maggiore gravità,
come quelli che abbiamo provato a descrivere, la complessità della
sintomatologia ci suggerisce di prendere in considerazione la possibilità di
ricorrere a delle strategie terapeutiche multiple. Non è trascurabile
l'utilità di una terapia farmacologica, soprattutto se ci troviamo
di fronte ad una bouffée delirante, ma anche nel caso di sintomi comunque
invalidanti. Talvolta si rende necessario persino il ricovero in ospedale
per evitare conseguenze pericolose per l'incolumità del paziente.
In molti casi, come abbiamo visto nel caso di Daniela, un rapporto di counseling
tra psichiatra e psicoterapeuta può portare sviluppi e cambiamenti
inaspettati nel processo terapeutico, oltre che fornire al paziente la possibilità di
attivare maggiormente il proprio sistema di attaccamento e quindi di aumentare
il grado di fiducia nella relazione. Analogo risultato può essere
ottenuto consentendo la presenza di un familiare in alcuni momenti della
terapia, come è successo con Paola.
In secondo luogo, se è vero che i meccanismi di difesa che un bambino
adotta di fronte ad un evento traumatico o ad una situazione di rapporto
dolorosa sono adeguati all'età e alle risorse disponibili per la sopravvivenza
fisica e psicologica, questo non implica che, da adulto, gli sia possibile
farne a meno. Se, ad esempio, un bambino utilizza la dissociazione di un
abuso sessuale per mantenere una forma di rapporto con il familiare abusante,
che rimane una figura di attaccamento che gli è necessaria, il percorso
della sua vita potrà portarlo anche da adulto a cercare di mantenere
la prossimità con tale figura, ritenendola ancora indispensabile alla
sua esistenza. In questi casi, un atteggiamento troppo invasivo e di demolizione
delle difese da parte del terapeuta può generare il rischio di un
peggioramento delle condizioni del paziente. Forse certe volte è meglio
rispettare le difese del paziente, anche a costo di mantenere, sia pur parzialmente,
dei modelli operativi disfunzionali.
Per finire, ci troviamo a sfiorare il problema dal quale siamo partiti, cioè il
problema della memoria.
La complessità del problema è accresciuta da molti fattori:
la semi-permeabilità della memoria dissociata, che mostra una forte
resistenza all'esplorazione e alla revisione terapeutica e, nello stesso
tempo, influenza il comportamento, gli affetti e gli altri prodotti della
mente del paziente in modo ambiguo, non chiaro ed equivocabile; i pazienti
con esperienze evolutive difficili, anche se non abusati, possono agire nella
relazione terapeutica secondo schemi fondati sulla mistificazione, l'inganno
e la menzogna, caratterizzati da un assetto complessivo dei Sistemi Motivazionali
Interpersonali alterato e confuso. Come abbiamo visto, in una psicoterapia
possono verificarsi tutte le varianti legate alla veridicità e alla
verificabilità dei ricordi.
Una volta esplorate tutte le strade percorribili, il terapeuta può comunque
scoprire che esistono degli elementi ricorrenti che sembrano accomunare tutti
questi casi. Nella descrizione dei casi citati ad esempio, abbiamo provato
a sottolineare gli aspetti emotivi che ci sono sembrati centrali nella definizione
dell'identità personale dei pazienti e delle relazioni interpersonali.
Come avrete notato, l'esperienza di colpa e/o di vergogna accompagnano in
maniera ricorrente una rappresentazione di sé come "malvagio,
cattivo o ridicolo" e una rappresentazione dell'altro come "danneggiato
oppure rifiutante, controllante e minaccioso". Seppure somiglianti,
questi aggettivi veicolano significati differenti che non è semplice
tenere separati: un paziente, nel tentativo di spiegare la diversità tra
colpa e vergogna, facilmente le accomuna, sostenendo per esempio che "ci
si vergogna perchè si è colpevoli di non aver fatto il proprio
dovere". Esprimendo così sinteticamente la confusione tra Sistemi
Motivazionali attivati contemporaneamente. Indipendentemente dal fatto che
abbiano subito un abuso sessuale nell'infanzia, questi pazienti descrivono
delle esperienze di relazione infantili in cui vari sistemi motivazionali
sono attivati contemporaneamente costruendo dei modelli operativi di sé e
dell'altro incoerenti, fondati su rappresentazioni contemporanee su più livelli,
consce ed inconsce. Il concetto di colpa appartiene infatti al sistema cooperativo
o dell'accudimento, ma spesso viene contrabbandato all'interno del sistema
di attaccamento dove invece finisce per diventare uno dei possibili segnali
di attivazione di un attaccamento invertito e/o del sistema agonistico e
quindi di caratteristiche negative delle rappresentazioni dell'identità personale.
L'indegnità, la colpa e il disvalore attivati da relazioni di (pseudo-)
attaccamento in cui sono attivati contemporaneamente bisogno di sicurezza,
paura, rabbia, sollecitudine e, in alcuni casi, pulsioni sessuali, organizzano
dei modelli operativi multipli e confusi. Ed anche nella relazione terapeutica
il terapeuta può avere la percezione disorientante di improvvise e
apparentemente immotivate variazioni della qualità del rapporto.
Così, gli eventi traumatici di abuso sessuale sembrano avvenire all'interno
di una cornice familiare nella quale le relazioni di scambio affettivo sono
già deformate e incoerenti. L'abuso intrafamiliare contribuisce a
rendere ancora più confuso il tutto, aggiungendo al caos tutte le
componenti emotive, le rappresentazioni e le motivazioni del sistema sessuale.
L'obiettivo terapeutico fondamentale è rappresentato in ogni caso
dalla possibilità di rendere coerente e successivo ciò che è nebuloso
e simultaneo, incrementando la capacità metacognitiva del paziente
per consentirgli di controllare ed operare sulle sue rappresentazioni.
BIBLIOGRAFIA
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what you are not supposed to feel, Canadian Journal of Psychiatry, 24:
403-408.
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Italia Scientifica, Roma.
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American Journal of Psychiatry,136: 1398-1402.
Kuhn T. (1969), La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino.
Muscetta S. (1997), I disturbi dissociativi: una sfida per una psicoanalisi
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42, 4: 1055-1081.
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Wetzler S. (1985), The historical truth of psychoanalytic reconstructions,
International Review of Psycho-Analysis, 12: 187-197.
RIASSUNTO: Il tema dell'abuso sessuale infantile viene trattato attraverso
la terapia con tre pazienti adulte che ne esemplificano le varie possibilità:
il sospetto, la certezza e la menzogna. Gli Autori sottolineano come
l'abuso sessuale infantile intrafamiliare sia quasi sempre la punta dell'iceberg
la cui base vada ricercata nella precoce e poi cronica alterazione del
rapporto di accudimento-attaccamento che, attraverso la costruzione dei
modelli operativi di sè, dell'altro e della relazione, determinerà un'attivazione
eccessiva, fuori contesto o contemporanea dei vari Sistemi Motivazionali
Interpersonali.
SUMMARY: Childhood sexual abuse is discussed through three patients
therapy that illustrates the difference of possibility: suspect, certainty
and lie. The Authors emphasize that parental childhood sexual abuse is
often the tip of the iceberg, but the goal of the therapy remains the
chronic distortion of the pattern of attachment that will determine an
excessive, wrong and simultaneous activation of various behavioral-motivational
systems.