Diciamo la
verità, ci ha sempre dato un senso di disagio ascoltare questo brano di Matteo
sul giudizio finale, con un Gesù che non è quello buono e affascinante della
predicazione e dei miracoli, né quello indifeso e innocente della passione, ma
invece è glorioso e potente e torna alla fine dei tempi ad affermare il Suo
Regno, per dividere le pecore dai capri, accogliendo con sé le prime e
destinando al fuoco eterno i secondi.
E’ un buon segno,
però, se ci sentiamo preoccupati: significa che, al fondo, non siamo poi così
sicuri di essere pecore e non, piuttosto, capri, cioè non siamo così sicuri di
essere perfetti: e allora possiamo leggerla meglio e meditarla proficuamente,
questa Parola.
Che ci dice tante
cose grandi e meravigliose.
La prima – e
forse la più importante - è che questa
è una parola non di paura o di preoccupazione, ma di gioia immensa ed enorme speranza.
Infatti, chi
torna per giudicare i popoli e regnare in eterno è “il Figlio dell’Uomo”:
espressione che nel linguaggio biblico sta a significare più semplicemente
“l’uomo”. Allora, vuol dire che tutta la creazione, appartenente da sempre a
Dio, è consegnata per sempre nelle mani del Suo Figlio, che però è ormai
eternamente anche Uomo e nostro fratello. E questo regno di gioia è l’eredità
preparata per noi fin dalla fondazione del mondo.
Non ci potrebbe
essere, per noi poveri esseri continuamente in pasto al timore della morte, a
quella paura di sparire nel nulla che quotidianamente ci logora nel conscio e
nell’inconscio, una consolazione più grande di questo ritorno del Cristo come
Re dell’Universo.
Qui possiamo
capire che al centro di questo quadro c’è l’Amore infinito del Padre per tutti
noi.
Egli,
l’Onnipotente e l’Eterno, non aveva alcun bisogno di crearci, ma lo ha fatto
per realizzare in un fatto concreto la Sua logica di disinteressato altruismo,
di dono gratuito: e così, ci ha fatto dono della vita e dell’universo ma, come
dice S.Paolo, predestinandoci nel Suo progetto ad essere per sempre Suoi figli
adottivi in Gesù Cristo, il quale ha voluto condividere la nostra condizione
umana in tutto, fuorché nel peccato. E ci ha lasciato liberi di scegliere tra
il Bene il Male, perché il Suo è stato un atto di Amore puro, non un gioco
crudele di teatro delle marionette.
Pensate, un Dio
che anziché sfruttare la Sua naturale superiorità, ci crea liberi di sbagliare
quando, quanto e come vogliamo: e che si autolimita volutamente assoggettandosi
Egli stesso alla possibilità di soffrire (proprio come se fosse uno di noi)
quando ci allontaniamo da Lui e quando lo tradiamo per scegliere falsi idoli.
E’ questa la
chiave di lettura del brano sul giudizio finale, perché ci fa capire che quel
giudizio,così terribile e spaventoso per la sua ineluttabilità e la sua
irreversibilità, non è un giudizio da parte di Dio, ma da parte nostra.
Sembra strano?
No, perché il vero ed unico giudizio di Dio sull’umanità peccatrice e
traditrice è quello di immensa misericordia che si è reso visibile nella Croce
di Cristo: Egli ha dato la sua vita per ognuno di noi e ci ha introdotto alla
salvezza eterna, alla vita senza fine.
Ma quest’altro
giudizio di cui ci parla Matteo dipende solo da noi: il Cristo tornerà soltanto
per constatare quale sarà stata la nostra libera scelta: se cioè abbiamo voluto
aderire a Lui, oppure invece abbiamo preferito il nostro Io e l’abbiamo negato
o bestemmiato.
E’ da notare che
Gesù non ha bisogno di dover distinguere, in mezzo al gregge indistinto, chi
siano le pecore e chi i capri, perché questo è un dato di fatto preesistente:
quindi a Lui spetta solo di separare le une dagli altri, formando due gruppi
irreversibilmente distinti, ma non può fare nulla per cambiare questa realtà,
trasformando cioè quello che è un capro in una pecora o viceversa.
Questo esprime la
totale libertà di cui godiamo, sulla quale neppure Dio può influire: siamo noi
a scegliere se vogliamo essere pecore o capri o, se si preferisce, grano o
zizzania.
E c’è un tempo
nel quale le due realtà coesistono confuse: può darsi che tu ed io fino a ieri
eravamo zizzania, ma ora abbiamo seriamente scelto di essere grano.
Questo tempo è
ancora in corso, ed è un richiamo alla conversione nella nostra vita, ad
interrogarci su questa fondamentale realtà: siamo pecore o capri, grano da
riporre nel granaio o zizzania da bruciare?
Se ci
riconosciamo peccatori, siamo ancora in tempo per ravvederci, nella certezza
che il nostro passato di errore e di peccato verrà cancellato e dimenticato
dalla infinita misericordia del Padre: ma occorre tenere presente che è un
tempo che un giorno finirà, e al momento del ritorno del Signore non ci sarà
più possibilità di cambiare, di passare dalla sinistra alla Sua destra, di
colmare quell’abisso ormai scavato tra l’Inferno e il Paradiso, tra il ricco
Epulone e il povero Lazzaro.
Dipende da noi,
soltanto da noi, perché l’uomo si condanna solo se deliberatamente sceglie di
condannarsi e rinunciare a quel posto che il Padre gli ha comunque preparato
fin dalla sua nascita.
In vista di
questo momento escatologico, il Signore ci offre un aiuto grandissimo: ci
indica, cioè, quale sia la strada per essere pecore e non capri, ed è un aiuto
molto concreto.
Siccome Egli è
Carità e misericordia infinita, anche noi saremo giudicati sulla Carità e
sull’Amore.
E ci indica
alcune opere concrete nelle quali certamente questo Amore si esprime: sono
quelle che la Chiesa chiama “opere di misericordia corporale”, fatti reali e
tangibili, cioè, per eliminare ogni dubbio o equivoco e far sì che il giudizio
sia totalmente trasparente ed ineccepibile.
Come dice
S.Giacomo, vuoi sapere se hai fede? Mostrami le tue opere (che sono fatti
oggettivi), non fare discorsi (sui quali si può sempre discutere e dubitare).
Ci dice il
Signore che non c’è differenza tra Lui e un affamato, un assetato, un
forestiero, un povero svestito, un malato, un carcerato.
E’ verissimo,
perché “Egli da ricco che era si è fatto povero” nascendo in una mangiatoia, ha
sofferto fame e sete nel deserto, è stato rifiutato dai suoi concittadini, è
stato spogliato perfino della sua tunica, è stato ferito e maltrattato, ed è
stato fatto ingiustamente prigioniero e condannato a morte.
Per questo Egli
si identifica nei poveri e li chiama suoi “fratelli più piccoli”, beati perché
di essi è il Regno dei cieli. Dice S.Agostino che Gesù dirà ai malvagi: “Io
avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi: Io, loro capo, sedevo nel
cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se
voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo.
Quando ho posto i miei poverelli sulla terra, li ho costituiti come vostri
fattorini perché portassero le vostre buone opere nel mio tesoro: voi non avete
posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me”.
E Madre Teresa di
Calcutta apriva le cinque dita della mano per ricordare le cinque parole
viatico della Vita eterna: “Lo avete fatto a Me”.
Noi uomini
contemporanei siamo assolutamente fuori da questa logica della povertà come
figura del Signore: tutt’altro, noi predichiamo e pratichiamo ogni giorno la
logica della perfezione, del rifiuto della sofferenza, del culto dell’immagine
e del corpo, della ricerca della comodità e di una dimensione solo
individualistica di vita.
Ci è difficile
riconoscere il Signore. Forse possiamo talvolta intravederlo in una persona
malata o sofferente, ma già è meno facile vederlo in un barbone malvestito,
sporco e puzzolente o in uno zingaro, e ancora più difficile è vederlo in un
carcerato: di fronte a queste situazioni fuggiamo o addirittura esprimiamo
sdegno e disprezzo, evitando accuratamente di sporcarci le mani in alcun modo.
Eppure Lui è
proprio lì, in loro, e attende di ricevere da noi almeno un briciolo di quella
misericordia che ci ha elargito con tanta abbondanza.
Ancora una cosa
da dire. Qui non si tratta di rimboccarsi le maniche e fare appello alle
proprie qualità di volontarismo, perché “se il Signore non costruisce la casa,
invano faticano i costruttori”.
Nel brano
evangelico questo lo si capisce benissimo, perché vi si legge che i giusti non
si sono resi conto di aver beneficato il Signore quando hanno beneficato i
poveri (e dunque non c’è egoismo o doppio fine nelle loro opere). Allo stesso modo anche la domanda che i
malvagi rivolgono al Signore lascia capire che forse essi hanno anche compiuto
opere in favore del Signore, ma non erano mai opere disinteressate, perché non
sono state accompagnate da quelle verso i poveri (e quindi il bene che possono
aver fatto era un bene interessato, era per la loro edificazione personale, per
il loro orgoglio).
Attenzione,
perché questo può capitare molto facilmente a ciascuno di noi, specie se siamo
di quei cattolici osservanti e perbene, che poi finiscono per fare elemosina
per sentirsi a posto o perché qualcuno se ne accorga e ci lodi, oppure vanno a
trovare i malati solo perchè tutti possano apprezzare questa magnanimità.
Il Signore,
invece, vuole che possiamo essere testimoni del suo Amore con la vera misericordia
che anche noi riusciremo a dare, come frutto dello spazio che avremo lasciato
in noi all’azione dello Spirito Santo.
Solo così potremo
condividere con Lui quella meraviglia immensa che è l’averlo come nostro Re e
al tempo stesso come nostro fratello, concittadini di un Regno eterno di gioia
infinita.