Domenica 24 Novembre 2002 XXXIV Domenica del tempo ordinario

 

 

NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO RE DELL’UNIVERSO

 

 

Matteo 25, 31-46   Il Giudizio finale

 

Diciamo la verità, ci ha sempre dato un senso di disagio ascoltare questo brano di Matteo sul giudizio finale, con un Gesù che non è quello buono e affascinante della predicazione e dei miracoli, né quello indifeso e innocente della passione, ma invece è glorioso e potente e torna alla fine dei tempi ad affermare il Suo Regno, per dividere le pecore dai capri, accogliendo con sé le prime e destinando al fuoco eterno i secondi.

E’ un buon segno, però, se ci sentiamo preoccupati: significa che, al fondo, non siamo poi così sicuri di essere pecore e non, piuttosto, capri, cioè non siamo così sicuri di essere perfetti: e allora possiamo leggerla meglio e meditarla proficuamente, questa Parola.

Che ci dice tante cose grandi e meravigliose.

La prima – e forse la più importante -  è che questa è una parola non di paura o di preoccupazione, ma di gioia immensa ed enorme speranza.

Infatti, chi torna per giudicare i popoli e regnare in eterno è “il Figlio dell’Uomo”: espressione che nel linguaggio biblico sta a significare più semplicemente “l’uomo”. Allora, vuol dire che tutta la creazione, appartenente da sempre a Dio, è consegnata per sempre nelle mani del Suo Figlio, che però è ormai eternamente anche Uomo e nostro fratello. E questo regno di gioia è l’eredità preparata per noi fin dalla fondazione del mondo.

Non ci potrebbe essere, per noi poveri esseri continuamente in pasto al timore della morte, a quella paura di sparire nel nulla che quotidianamente ci logora nel conscio e nell’inconscio, una consolazione più grande di questo ritorno del Cristo come Re dell’Universo.

Qui possiamo capire che al centro di questo quadro c’è l’Amore infinito del Padre per tutti noi.

Egli, l’Onnipotente e l’Eterno, non aveva alcun bisogno di crearci, ma lo ha fatto per realizzare in un fatto concreto la Sua logica di disinteressato altruismo, di dono gratuito: e così, ci ha fatto dono della vita e dell’universo ma, come dice S.Paolo, predestinandoci nel Suo progetto ad essere per sempre Suoi figli adottivi in Gesù Cristo, il quale ha voluto condividere la nostra condizione umana in tutto, fuorché nel peccato. E ci ha lasciato liberi di scegliere tra il Bene il Male, perché il Suo è stato un atto di Amore puro, non un gioco crudele di teatro delle marionette.

Pensate, un Dio che anziché sfruttare la Sua naturale superiorità, ci crea liberi di sbagliare quando, quanto e come vogliamo: e che si autolimita volutamente assoggettandosi Egli stesso alla possibilità di soffrire (proprio come se fosse uno di noi) quando ci allontaniamo da Lui e quando lo tradiamo per scegliere falsi idoli.

E’ questa la chiave di lettura del brano sul giudizio finale, perché ci fa capire che quel giudizio,così terribile e spaventoso per la sua ineluttabilità e la sua irreversibilità, non è un giudizio da parte di Dio, ma da parte nostra.

Sembra strano? No, perché il vero ed unico giudizio di Dio sull’umanità peccatrice e traditrice è quello di immensa misericordia che si è reso visibile nella Croce di Cristo: Egli ha dato la sua vita per ognuno di noi e ci ha introdotto alla salvezza eterna, alla vita senza fine.

Ma quest’altro giudizio di cui ci parla Matteo dipende solo da noi: il Cristo tornerà soltanto per constatare quale sarà stata la nostra libera scelta: se cioè abbiamo voluto aderire a Lui, oppure invece abbiamo preferito il nostro Io e l’abbiamo negato o bestemmiato.

E’ da notare che Gesù non ha bisogno di dover distinguere, in mezzo al gregge indistinto, chi siano le pecore e chi i capri, perché questo è un dato di fatto preesistente: quindi a Lui spetta solo di separare le une dagli altri, formando due gruppi irreversibilmente distinti, ma non può fare nulla per cambiare questa realtà, trasformando cioè quello che è un capro in una pecora o viceversa.

Questo esprime la totale libertà di cui godiamo, sulla quale neppure Dio può influire: siamo noi a scegliere se vogliamo essere pecore o capri o, se si preferisce, grano o zizzania.

E c’è un tempo nel quale le due realtà coesistono confuse: può darsi che tu ed io fino a ieri eravamo zizzania, ma ora abbiamo seriamente scelto di essere grano.

Questo tempo è ancora in corso, ed è un richiamo alla conversione nella nostra vita, ad interrogarci su questa fondamentale realtà: siamo pecore o capri, grano da riporre nel granaio o zizzania da bruciare?

Se ci riconosciamo peccatori, siamo ancora in tempo per ravvederci, nella certezza che il nostro passato di errore e di peccato verrà cancellato e dimenticato dalla infinita misericordia del Padre: ma occorre tenere presente che è un tempo che un giorno finirà, e al momento del ritorno del Signore non ci sarà più possibilità di cambiare, di passare dalla sinistra alla Sua destra, di colmare quell’abisso ormai scavato tra l’Inferno e il Paradiso, tra il ricco Epulone e il povero Lazzaro.

Dipende da noi, soltanto da noi, perché l’uomo si condanna solo se deliberatamente sceglie di condannarsi e rinunciare a quel posto che il Padre gli ha comunque preparato fin dalla sua nascita.

In vista di questo momento escatologico, il Signore ci offre un aiuto grandissimo: ci indica, cioè, quale sia la strada per essere pecore e non capri, ed è un aiuto molto concreto.

Siccome Egli è Carità e misericordia infinita, anche noi saremo giudicati sulla Carità e sull’Amore.

E ci indica alcune opere concrete nelle quali certamente questo Amore si esprime: sono quelle che la Chiesa chiama “opere di misericordia corporale”, fatti reali e tangibili, cioè, per eliminare ogni dubbio o equivoco e far sì che il giudizio sia totalmente trasparente ed ineccepibile.

Come dice S.Giacomo, vuoi sapere se hai fede? Mostrami le tue opere (che sono fatti oggettivi), non fare discorsi (sui quali si può sempre discutere e dubitare).

Ci dice il Signore che non c’è differenza tra Lui e un affamato, un assetato, un forestiero, un povero svestito, un malato, un carcerato.

E’ verissimo, perché “Egli da ricco che era si è fatto povero” nascendo in una mangiatoia, ha sofferto fame e sete nel deserto, è stato rifiutato dai suoi concittadini, è stato spogliato perfino della sua tunica, è stato ferito e maltrattato, ed è stato fatto ingiustamente prigioniero e condannato a morte.

Per questo Egli si identifica nei poveri e li chiama suoi “fratelli più piccoli”, beati perché di essi è il Regno dei cieli. Dice S.Agostino che Gesù dirà ai malvagi: “Io avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi: Io, loro capo, sedevo nel cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo. Quando ho posto i miei poverelli sulla terra, li ho costituiti come vostri fattorini perché portassero le vostre buone opere nel mio tesoro: voi non avete posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me”.

E Madre Teresa di Calcutta apriva le cinque dita della mano per ricordare le cinque parole viatico della Vita eterna: “Lo avete fatto a Me”.

Noi uomini contemporanei siamo assolutamente fuori da questa logica della povertà come figura del Signore: tutt’altro, noi predichiamo e pratichiamo ogni giorno la logica della perfezione, del rifiuto della sofferenza, del culto dell’immagine e del corpo, della ricerca della comodità e di una dimensione solo individualistica di vita.

Ci è difficile riconoscere il Signore. Forse possiamo talvolta intravederlo in una persona malata o sofferente, ma già è meno facile vederlo in un barbone malvestito, sporco e puzzolente o in uno zingaro, e ancora più difficile è vederlo in un carcerato: di fronte a queste situazioni fuggiamo o addirittura esprimiamo sdegno e disprezzo, evitando accuratamente di sporcarci le mani in alcun modo.

Eppure Lui è proprio lì, in loro, e attende di ricevere da noi almeno un briciolo di quella misericordia che ci ha elargito con tanta abbondanza.

Ancora una cosa da dire. Qui non si tratta di rimboccarsi le maniche e fare appello alle proprie qualità di volontarismo, perché “se il Signore non costruisce la casa, invano faticano i costruttori”.

Nel brano evangelico questo lo si capisce benissimo, perché vi si legge che i giusti non si sono resi conto di aver beneficato il Signore quando hanno beneficato i poveri (e dunque non c’è egoismo o doppio fine nelle loro opere).  Allo stesso modo anche la domanda che i malvagi rivolgono al Signore lascia capire che forse essi hanno anche compiuto opere in favore del Signore, ma non erano mai opere disinteressate, perché non sono state accompagnate da quelle verso i poveri (e quindi il bene che possono aver fatto era un bene interessato, era per la loro edificazione personale, per il loro orgoglio).

Attenzione, perché questo può capitare molto facilmente a ciascuno di noi, specie se siamo di quei cattolici osservanti e perbene, che poi finiscono per fare elemosina per sentirsi a posto o perché qualcuno se ne accorga e ci lodi, oppure vanno a trovare i malati solo perchè tutti possano apprezzare questa magnanimità.

Il Signore, invece, vuole che possiamo essere testimoni del suo Amore con la vera misericordia che anche noi riusciremo a dare, come frutto dello spazio che avremo lasciato in noi all’azione dello Spirito Santo.

Solo così potremo condividere con Lui quella meraviglia immensa che è l’averlo come nostro Re e al tempo stesso come nostro fratello, concittadini di un Regno eterno di gioia infinita.