Il cieco di Gerico
(Mc 10, 46-52)
E
se anche sulla strada della tua vita un giorno passasse Gesù?
Che
faresti? Lo chiameresti per farlo fermare? E cosa gli chiederesti?
Guardiamo
cosa è successo al cieco di Gerico, Bartimeo, quel giorno in cui Gesù, uscendo
dalla città assieme ad un gran seguito di folla, gli è passato vicino.
In
questo brano del Vangelo ogni parola ha un significato meraviglioso: si
potrebbe dire che perfino le virgole parlano alla nostra vita oggi. Analizziamo schematicamente.
SULLA
STRADA ALL’USCITA DA GERICO. E’ una ambientazione non certo casuale, visto che
Gerico era la città abietta, che Israele aveva espugnato e messo a fuoco,
mentre la strada dove si svolge l’episodio è quella – andando in salita - porta
a Gerusalemme, futura città di Dio. Per leggere questa pagina, dovremmo perciò
anche noi collocarci all’inizio di un cammino verso Gerusalemme: questo ci
aiuterebbe a capire meglio come si possa davvero iniziare questo cammino, e
cioè non come dei giusti che seguono Gesù per aumentare la loro perfezione, ma
come dei poveri disgraziati, consapevoli della loro condizione, che finalmente
vedono una luce di salvezza e vi si aggrappano come naufraghi ad un relitto che
li salvi dall’annegare.
BARTIMEO
E’ CIECO. Questo della cecità fisica è il primo elemento basilare: essa è segno
di oscurità dello spirito, di incapacità di amore, che determina il buio e una
condizione di infelicità.
Tutte
cose che purtroppo conosciamo molto bene anche noi: quante volte ti sei
stancato della tua vita, non solo dei problemi che continuamente ti pone, delle
persone con cui vivi in casa o in ufficio o altrove, ma anche dei tuoi limiti,
della impossibilità di primeggiare sempre come vorresti, della vecchiaia che
incombe, della tua linea che non c’è più e non tornerà mai.
Ci
sono momenti in cui sei così stufo di tutto e di tutti che ti viene voglia di
mollare tutto e andartene lontano, dove nessuno possa ritrovarti ed assillarti
ancora. E sappiamo bene quanta gente – specie nei nostri tempi - si toglie la
vita proprio perché incapace di fronteggiare la sensazione di fallimento e di
non senso dell’esistenza.
Questo
significa essere ciechi: ma, attenzione, ancora non significa affatto averlo
riconosciuto, visto che anzi la condizione più diffusa in giro è proprio quella
di essere ciechi credendo di vederci benissimo (Gesù questo lo dice
esplicitamente ai Farisei).
MA
NON DALLA NASCITA. Come si capisce chiaramente dalla domanda che farà a Gesù
(“che io riabbia la vista”), questo cieco ha vissuto in passato la sua pienezza
di uomo, ma poi l’ha perduta ed è caduto nella povertà e nell’infelicità. C’è
qui un parallelismo impressionante con l’esperienza del figliol prodigo:
anch’egli è uno che stava al sicuro nella casa del Padre, ma poi ad un certo
punto decide di staccarsi da Lui e fare la sua esperienza di vita
autosufficiente, finendo però nella povertà e nella desolazione. E c’è un altro
parallelismo con l’esperienza di Adamo ed Eva, che pure passano, in conseguenza
della tentazione demoniaca, dall’Eden ad una vita terrena di stenti e
sofferenza.
BARTIMEO
MENDICA. Chi è nel buio ha un bisogno incondizionato degli altri, dipende
totalmente da loro. Questo è assai umiliante, ma non c’è scelta: come per il
figliol prodigo, che per mangiare si trova posposto addirittura ai porci dei
quali fa il guardiano. L’uomo cieco di cui ci parla Marco è, dunque, un uomo
fallito e umiliato, non più autosufficiente e quindi, incapace di dare, è
costretto solo ad elemosinare per ricevere qualcosa: non ci ricordano, per
caso, queste coordinate, la condizione in cui anche noi ci troviamo quando
facciamo l’esperienza del peccato, come scelta consapevole di allontanamento da
Dio?
PERÒ
CI SENTE E ASCOLTA. Questo è un dato della massima importanza. Se nella tua
vita, finalmente, comprendi sul serio di essere “povero, cieco e nudo” (v.
libro dell’Apocalisse), perché non riesci a vedere una luce, un senso, almeno
compensa questo deficit mettendoti in ascolto: Dio infatti parla e se tu sei lì
ad ascoltare, potrai riconoscerne la voce quando Egli si fa presente.
Ecco
perché quel cieco, in mezzo a tante voci della folla, riesce a sentire la cosa
più importante per lui, e cioè che “c’è Gesù”.
CHIAMA
GESÙ. In certe situazioni l’essenziale è cogliere la palla al balzo, l’attimo
favorevole ma decisivo, il treno giusto per la nostra conversione, per avere
soccorso da Dio.
In
realtà è sempre Dio che ci chiama e prende per primo l’iniziativa: in questo
caso però, dato che quell’uomo non è nato cieco, ma lo è diventato, è ben
possibile che ora debba essere lui a chiamare Gesù. Non è strano che Gesù,
passando, quasi lo ignori: Egli, come sempre (e torniamo ancora al figliol
prodigo, laddove il Padre pur soffrendo di quella lontananza e dissolutezza non
lo cerca, ma rispetta fino in fondo le scelte del figlio), vuole lasciarci
liberi di chiamarlo soltanto se, quando e come vogliamo noi. Bartimeo ha
conosciuto la dimensione piena della vita umana (che rappresenta la comunione
con Dio e dunque la capacità di amare), ma poi è diventato cieco (cioè, nella
sua vita c’è stata una caduta, una separazione dall’Amore di Dio) e per questo
ora l’iniziativa non può essere altro che sua. Gesù può solo offrirglisi mentre
gli passa vicino, ma è solo lui che può chiamarlo o lasciarlo andar via.
Abramo,
quando gli si posero innanzi i tre uomini, comprese la visione trinitaria e li
implorò: “Signore, ti prego, non passare oltre senza fermarti qui dal tuo
servo”:
“FIGLIO
DI DAVIDE, abbi pietà di me”. E, come Abramo, questo cieco sa riconoscere che
proprio lì su quella strada, teatro della sua desolazione, ora sta passando il
Signore della vita, il Signore dell’intero universo, Colui che ha potere sopra
ogni cosa e che sa dare la sua stessa vita per le sue creature.
Non
può lasciarsi sfuggire l’occasione: solo se avesse avuto la presunzione di
vederci sarebbe rimasto indifferente (come succede ai farisei e, purtroppo,
anche a più d’uno di noi cristiani del terzo millennio, pronti a restare
imperturbati anche quando il Signore dà segni palesi della Sua presenza). E
allora Bartimeo grida verso Gesù, dandogli l’appellativo di “Figlio di Davide,
Signore”: egli con questo sta professando la sua fede e riconoscendo che il
Cristo è davvero il Messia che doveva venire nel mondo, nascendo dalla stirpe
di Davide, come le Scritture e i profeti avevano annunciato, per essere l’unico
Signore dell’universo.
GRIDANDO
“ABBI PIETÀ DI ME”. Guarda quanto è importante e meravigliosa la preghiera:
importante per la nostra conversione, meravigliosa perché è qualcosa in grado
di commuovere il cuore di Dio.
Gesù
non lo sente subito, ma occorre che il cieco gridi ancora più forte, e solo
allora Gesù lo fa chiamare. Non è facile farsi ascoltare da Dio, proprio perché
lui è Dio e non possiamo gestirlo a nostro capriccio, con uno schiocco di dita,
come fa Aladino col genio della lampada: noi vorremmo, è vero, un Dio come
quello, ma quello non sarebbe Dio, non può esserlo per definizione.
Quante
difficoltà per questo cieco per riuscire a ristabilire un contatto con Gesù: la
gente che lo azzitta (forse anche qualcuno degli Apostoli), perché lo ritengono
un minus habens, un rompiscatole, e poi questo Gesù che non lo sente subito.
Allo stesso modo, sappiamo anche noi quanto non sia facile, a volte, uscire da
una condizione di peccato e tornare a riavere un contatto, un legame di
comunione con Dio e con gli altri: occorre davvero quella convinzione profonda
e salda che viene da una maturazione sincera della propria volontà di lasciarsi
convertire.
Il
grido del cieco esprime al meglio questa dimensione della preghiera, in cui esso
è l’indice di intensità della fede. E’ chiaro che qui è un grido vocale, mentre
non minore ascolto ottiene il grido tacito che parte dal profondo dell’anima
quando, anche nel segreto della tua stanza o durante il giorno mentre lavori o
non so dove altro, invochi l’aiuto del Signore, lo inviti con forza a guardare
alla tua infelicità, alla miseria, alla sofferenza, ai tuoi limiti di creatura,
affinché venga con potenza a salvare, a redimere, a convertire.
Abbiamo
mai fatto l’esperienza di questo grido lancinante dell’anima? E’ qualcosa di
stupendo, perché solo allora potremo renderci conto che il nostro Dio non è
come gli altri, è unico e vero, perché non vuole da noi “sacrificio e
olocausto”, ma “uno spirito affranto e umiliato” Egli non disprezza.
Senza
questa fede che grida quasi ossessivamente alle orecchie del Signore, Gesù non
potrebbe mai guarire quel cieco e non potrebbe guarire nessuno, perché Lui non
ti impone nulla, ma sei tu che glielo devi chiedere e credere che davvero in
Lui puoi appoggiarti con la fiducia che saprà darti l’aiuto che ti occorre: la
vedova importuna – maestra nel saper chiedere con insistenza – riuscì ad avere
giustizia da un giudice ingiusto, e noi dubitiamo di avere giustizia dall’unico
Giudice giusto?
E
qual è il contenuto di questa preghiera? E’ quello che ancora oggi è praticato
dai cristiani orientali (ma anche da molti cattolici) e cioè una invocazione di
pietà: occorre infatti, oltre che riconoscere Dio come Signore, riconoscere se
stessi come peccatori. Questo basta per ottenere qualunque misericordia da Dio,
non occorrono meriti aggiuntivi nostri.
GETTO’
IL MANTELLO. E’ un segno potentissimo. Il cieco è povero, non possiede altro
che quel mantello, e non a caso, perché per la legge ebraica il mantello è il
bene impignorabile per eccellenza (cioè, come oggi nessun creditore ti può
portare via il letto o il tavolo o la sedia perché servono i fondamentali
bisogni di dormire e mangiare, all’epoca non si poteva togliere a nessuno
proprio il mantello, come segno di ciò che difende dal freddo e dalla nudità):
eppure Bartimeo lo “getta via”, compiendo un segno di enorme significato.
Con
quel mantello egli corrobora il grido verso Gesù, attestando che vuole gettare
via l’unica sua ricchezza e sicurezza, quello che nessuno avrebbe potuto mai
togliergli: è il segno di S. Francesco, è il segno che invano Gesù aveva
chiesto all’uomo ricco ossequioso della legge, il quale alla richiesta di
liberarsi dei beni aveva risposto con un triste rifiuto.
E’
il segno che non vuole più stare sotto il mantello delle certezze umane, ma
vuole mettersi sotto il manto di protezione di Maria e della Chiesa, desidera
di cuore farsi accogliere nelle dimore del Signore, dove non c’è più né caldo
né freddo, né povero né ricco, né sciocco né intelligente, ma tutto vive e gode
della pienezza di un Dio che basta a qualunque esigenza.
“CHE
VUOI CHE IO TI FACCIA?” Non è casuale che questa identica domanda Gesù l’avesse
fatta a Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, pochissimo tempo prima. Ma
quanto diversa è la risposta! Quelli, che erano apostoli e conoscevano più da
vicino Gesù, gli chiedono di essere i primi nella gloria; questo, che non ha
mai visto Gesù prima d’ora, gli chiede di “riavere la vista”.
Il
che vuol dirci: cosa è importante nella vita, avere successo e gloria, oppure
saper amare, avere gli stessi sentimenti di Gesù, avere gli occhi dell’anima
che ci consentono di vedere in quale direzione Egli si muove, dove possiamo
seguirlo, certi che ci condurrà per una strada di salvezza, la migliore che possa
pensarsi per ciascuno di noi?
La
fede del cieco di Gerico è proprio questa: riconoscere Gesù come il Signore
della sua vita (non a caso, già a questo punto Gesù si è accorto di lui e lo ha
fatto chiamare) e chiedergli per sé non soldi, donne, successo e beni, ma “la
vista”, ossia una vita di comunione con Lui.
Per
questo, come è importante saper pregare! Il pubblicano potrà davvero passarci
avanti nel Regno di Dio, perché, come questo cieco, ha saputo pregare: non è
una questione di cultura o di metodi, è una questione di disposizione
dell’animo, per cui il nostro grido ha un tono sempre più alto e percepibile
quanto più il nostro io si è rimpicciolito e fatto umile dinanzi al Creatore.
E
PRESE A SEGUIRLO. Gesù lo guarisce e lui prende a seguirlo. Quello che esce dal
miracolo non è semplicemente un uomo guarito dal problema della cecità, ma è un
uomo rinnovato completamente nell’amore, che ha compreso dove sta il senso
della vita, la luce dell’esistenza: in questo senso ora ci vede, perché vede
molto meglio i progetti di Dio, la Sua volontà, la Sua benevolenza.
E’
una vicenda che rispecchia esattamente il sacramento della riconciliazione:
riconoscere Dio e riconoscersi peccatori, chiedere il perdono, essere riportati
alla comunione con Dio e tornare a camminare insieme alla Sua Chiesa verso la
vita eterna
E’
allora ovvio che uno che ha finalmente visto dove sta la luce, non voglia mai
più separarsene e prende a seguire quel faro di orientamento, senza perderlo
mai più di vista: quest’uomo sa benissimo che se non segue Cristo, tornerà
nelle grinfie del maligno, ad essere nuovamente cieco. La vista fisica potrà
averla riavuta fino a quando morrà, ma la vera vista, quella la si perde ogni
volta che si lascia la via di Cristo.
Anche
se è vero che questa scelta lo condurrà, dietro a Lui, verso la salita a
Gerusalemme, in un cammino sempre più difficile di sofferenza, ma con la
serenità e la gioia di chi sa dove va e sa che va ad incontrare per sempre il
Signore.
Risuonano,
allora, alla mente e al cuore come vive e vere le parole di quel salmo che a
torto viene identificato con la liturgia dei funerali e che invece esprime una
preghiera meravigliosa a Dio:
“Dal
profondo a Te grido, Signore. Signore, ascolta la mia voce. Se consideri i
peccati, Signore, chi potrà salvarsi? Ma presso di Te è il perdono, soltanto in
Te si trova l’Amore”.
Possa
questa preghiera accompagnare ogni giorno della nostra vita come grido
ascoltato da Dio.