Festa della
dedicazione della Basilica Lateranense (Gv 4, 19-24)
Quella
dei Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista è la basilica eretta da
Costantino nel 324 ed era denominata chiesa madre di tutte le chiese di Roma e
del mondo intero.
Ma
nel giorno della festa ad essa dedicata la Chiesa – saggiamente ispirata dallo
Spirito Santo – ci dona una parola che è tutto fuorché una esaltazione della
grandezza di quel tempio che pure tutti (specialmente noi romani) conosciamo e
la cui bellezza riempie l’occhio e il cuore di qualunque visitatore, anche se
non credente.
Come
dice il saggio re Salomone rivolgendosi a Dio dopo aver eretto il famoso tempio
in Gerusalemme la cui costruzione aveva richiesto ben sette anni di alacre
lavoro, “Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno
questa casa che io ho costruita”.
E,
a conferma di questo, vengono proclamati alcuni stupendi versetti del quarto
capitolo del Vangelo di Giovanni, nell’ambito del dialogo tra Gesù e la donna
Samaritana presso il pozzo di Giacobbe in Sichem.
In
questi non si parla della sontuosità o della centralità del tempio, ma della
essenzialità dell’adorazione di Dio, quale fulcro della fede e del culto.
I
Samaritani, nazione commista ad Israele, che adorava il Signore pur continuando
a venerare i propri idoli, si guadagnò la più profonda ostilità degli
Israeliti, al punto che per questi ultimi la parola “Samaritano” aveva quasi lo
stesso significato di “pagano” o “posseduto dal demonio” (cfr. Gv 8, 48). Essi,
cacciati da Esdra al tempo della ricostruzione, innalzarono il proprio tempio
scismatico sul monte Garizim, che divenne il loro luogo di culto, così come il
ricostruito tempio di Gerusalemme lo era per Israele.
Per
questo la donna Samaritana all’inizio ha un impatto scettico e sospettoso con
Gesù, ma poi, quando Lui le fa una sconvolgente rivelazione sulla sua vita
privata (“Hai detto bene: non ho marito; infatti hai avuto cinque mariti e
quello che ahi ora non è tuo marito”), lo riconosce come Signore e profeta e
gli pone il serio interrogativo che doveva assillare molti a quel tempo.
Indicando
il monte Garizim, dove il suo popolo aveva innalzato il tempio, gli chiede se i
Giudei hanno ragione o meno a considerare quel culto scismatico ed eretico, e
se è vero che Dio può essere adorato solo in Gerusalemme.
Ed
è qui che Gesù, come di consueto, eleva in modo stupefacente il livello del
dialogo, fornendo una risposta che va al cuore del problema e ne svela la vera,
autentica portata.
Gli
Ebrei adorano l’unico vero Dio, ma non è importante dove e in quale luogo
questo avvenga, perché “Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo
in Spirito e Verità”.
Allora,
non conta la chiesa come tempio, come costruzione, e non conta qualsiasi
costruzione e struttura umana che, sia pur nata come supporto della fede,
finisca con il sovrapporsi alla fede e prendere il sopravvento, offuscando la
centralità di Dio.
Ma
conta, invece, “adorare Dio in Spirito e Verità”, perché “il Padre cerca tali
adoratori” (e non altri).
Gli
stessi Ebrei, vuol dirci Gesù, pur avendo avuto il privilegio di conoscere il
Padre, attraverso la legge data a Mosè, hanno sostituito quella Legge a Dio
stesso, facendone una struttura da poter plasmare e gestire come strumento
umano e non più divino: e, così, hanno perduto il senso autentico
dell’adorazione, che era il riconoscersi misere creature dinanzi al Dio di
amore infinito e misericordioso che aveva tratto i padri dalla schiavitù
dell’Egitto e li aveva portati in una terra dove scorreva latte e miele.
E
questo, senza alcuna sostanziale differenza, è il rischio che corriamo tutti
noi oggi: privilegiare al culto di Dio il culto verso il tempio che
frequentiamo, alle verità della fede le nostre verità, all’amore verso il
prossimo la sete di realizzazione del nostro io che ci spinge a divinizzare
l’esteriorità, la struttura, gli strumenti, in luogo del Creatore infinito.
Gesù
dona, nel colloquio con la Samaritana, la vera dimensione della fede,
annunciando il mistero trinitario per il quale la vera adorazione di Dio è solo “in Spirito e Verità”. Ciò
vuol dire che non può prevalere la legge, la regola, il precetto fine a sé
stesso, in una parola il farisaismo e l’esasperazione della volontà umana (come
se qualcuno mai avesse il potere di salvarsi da solo): ma, dato che Dio e lo
Spirito Santo sono una cosa sola, Dio si può adorare solo “in Spirito”; e dato
che Dio e il suo Figlio sono una cosa sola, Dio si può adorare solo “nella
Verità” rivelata, che è Gesù stesso, Divinità incarnata ed inviata dal Padre
per la salvezza del mondo.
Se
non si comprende questo, se si continua a dare a Dio una dimensione umanizzata,
artefatta e plasmata alle nostre piccole convenienze, non si avrà mai la
possibilità di adorarlo veramente e si vivrà una fede di mestiere, monca,
ingannata, fuorviante.
Quanto
questo rischio è presente nelle nostre parrocchie di oggi!
Quante
persone si stanno illudendo di vivere la fede cristiana, ed invece stanno lì
non a costituire un segno dell’Amore che Dio ha per il mondo, ma a fare del
buonismo per fini personali, per realizzarsi e mettere a posto la propria
coscienza con un inganno, schiavi di innumerevoli regole e regolette in base
alle quali chiunque è al di fuori va giudicato e condannato: Grazie, Signore,
che non siamo cattivi come quelli là fuori, ma osserviamo i precetti e ci siamo
costruiti un bell’orticello personale nel quale possiamo vivere come dei re,
coniugando magistralmente il nostro credo cristiano con una bella vita comoda e
rispettata da tutti, buggerandocene di chi è diverso, povero, extracomunitario
e non ha una bella aureola in testa come noi!
Ma
questo è l’esatto contrario di ciò che Gesù ci ha annunciato, questo non è la
fede che salva il mondo, questo non è prendere la croce e le sofferenze altrui
su di sé, come Lui ci ha mostrato per primo, questo non salva nessuno, né noi
né gli altri, perché non ci avvicina a
Dio, ma ci allontana anni-luce dalla sua logica di Amore, dal suo spirito di
donazione totale a costo della stessa vita.
Siamo
tutti fortemente schiavi delle strutture che noi stessi abbiamo costruito,
sotto sotto pensando di poter costringere Dio stesso entro le mura di un
tempio, in modo che uscendo di lì possiamo tornare finalmente liberi di fare il
comodo nostro: e così si spiega quella dicotomia insanabile per la quale dentro
la chiesa è pieno di angioletti con le alucce, ma poi basta uscire dalla messa
la domenica per tornare alla realtà e schifare il povero che sta lì alla porta,
negandogli perfino il più piccolo degli spiccioli che ci navigano in tasca. Per
non dire altro.
Ci
piace tanto avere delle belle liturgie, piene di bei canti, di cori celestiali
ad otto voci, di profumate incensazioni, di riti sontuosi, di belle parole, ma
questo non ha niente a che vedere con l’adorazione che Dio vuole dai suoi
figli, se poi la vita che conduciamo va in tutt’altra direzione.
Non
saremo mai esenti da cadute e da peccati, ma quel che importa è che in ogni
momento della nostra giornata, in ogni ambiente ove operiamo, in ogni
situazione che il Signore ci manda, si veda che siamo “adoratori di Dio”: cioè
che riconosciamo il nostro essere nulla dinanzi a Lui che è tutto per noi, è
l’unica fonte di vita, è Colui che, come ci insegna la sua vera adoratrice
Maria, ha fatto grandi cose sollevandoci dalla polvere della nostra caducità e
miseria ed elevandoci, in Gesù, fino al cielo, fino a Lui, faccia a faccia come
un giorno lo vedremo.
Non
saremo mai veri adoratori se non riconosciamo Gesù Cristo come unico Signore e
Padrone della nostra vita: sì, proprio noi che non ammettiamo di avere alcun
padrone, che siamo sempre pronti a gonfiare come una mongolfiera il nostro io,
invece siamo chiamati a capire che non siamo proprio niente dinanzi a Lui, che
siamo piccoli granelli di polvere, e che la vera ed unica meraviglia non è
nell’appoggiarsi alle nostre misere costruzioni umane, ma è nel fatto che Egli
ha volto il suo sguardo di misericordia su ognuno di noi, nessuno escluso, e ci
considera ciascuno come un tesoro di valore immenso, al quale tiene più che
alla sua stessa vita.
Guardiamo,
allora, a quella garanzia concreta, a quel sigillo indelebile di questo, che è
la Croce gloriosa di Gesù.
Beninteso,
guardiamo alla Croce di Gesù come segno di salvezza nel mare di perdizione al
quale da soli non potremmo mai sfuggire, non già al crocifisso come oggetto.
Le
cronache di questi giorni, laddove si legge che tanti cristiani si sono
“stracciate le vesti” di fronte a qualcuno che voleva rimuovere il crocifisso
dalle aule di una scuola, dovrebbero far riflettere a fondo. Stiamo difendendo
la fede che abbiamo sperimentato o stiamo solo dimostrando di volerci
aggrappare come piovre ad un segno che dimostri la nostra superiorità
culturale, ad una struttura materiale che nessuno può permettersi di toccarci,
perché sarebbe come attentare ad una nostra proprietà?
Ma può mai il cristianesimo fondarsi sulle
nostre imposizioni, se Dio stesso ci ha sempre lasciato tutti liberi di
scegliere come vogliamo?
Abbiamo
perduto un’occasione d’oro per mostrare al mondo, agli interlocutori di altre
religioni, ai laici e ai non credenti che la nostra non è una costruzione umana
come quelle loro, ma è una fede che viene da Dio e si fonda unicamente su di
Lui, non sulle nostre edificazioni esteriori.
La
Croce che i veri adoratori di Dio sono chiamati a mostrare al mondo non è solo quella
appesa ad una parete (peraltro certamente utile e da rispettarsi), ma è
soprattutto quella visibile nella nostra vita, nel modo che abbiamo di porci
dinanzi agli altri, e non tanto quando stiamo buoni buoni e devoti in chiesa,
ma quando l’esperienza di tutti i giorni ci pone in situazioni in cui un vero
adoratore di Dio trova in Lui la forza di prendere posizioni ben diverse da
quelle della corrente in voga.
Mettere
a rischio se stessi, la reputazione, il rispetto al quale tanto teniamo, i
soldi, le comodità; difendere i deboli, aiutare i poveri e gli sfortunati,
soccorrere gli infermi e i disadattati, non disprezzare nessuno, avere rispetto
e misericordia per tutti perchè non siamo migliori di nessuno.
Questo
è adorare il Signore in Spirito e Verità.
Fare
delle scelte chiedendo aiuto e ispirazione al Soffio della Sapienza di Dio,
orientare la vita ad imitazione di Cristo che la sua l’ha donata fino in fondo:
questo è riconoscere Dio come Signore, prostrarsi dinanzi a Lui non solo con la
flessione delle ginocchia, ma con la flessione di quel cuore orgoglioso che
abbiamo e che non vuole piegarsi mai con nessuno.
Chi,
implorando l’aiuto del Signore, riuscirà a fare questa esperienza, potrà
davvero festeggiare anche il tempio in quanto tale, perché esso sarà
esclusivamente uno strumento del culto e non una struttura da utilizzare per la
propria affermazione personale.
Signore,
fammi riconoscere il Tuo volto amoroso e potente, fa’ che io mi senta un nulla
dinanzi a Te, rendimi capace di ascolto ed umile di cuore. E, come la
Samaritana peccatrice, dammi di capire che Tu sei il Messia della mia vita,
Colui che sa trarmi dalla melma della miseria in cui mi agito ogni giorno e può
rendermi annunciatore della gioia immensa che viene dall’averti incontrato come
unico vero Salvatore e Redentore. Fa’ che possa adorarti entro le mura di una
chiesa, ma soprattutto fa’ che il mio io prorompente e indomabile si lasci
finalmente cadere sconfitto, ogni momento della giornata, in ginocchio al
pensiero di Te e dell’Amore che mi doni, e non chieda altro che di entrare
nella Tua volontà come docile strumento, per essere liberato da ogni schiavitù
e dagli idoli muti e vuoti davanti ai quali mi prostro di continuo.
Signore,
fa’ di me, misero peccatore, un Tuo adoratore.