XXIX
Domenica t.o. (Mc 10, 35-45)
Nel
catechismo della prima comunione che tanti di noi ora non più giovanotti
abbiamo studiato da piccoli, c’erano elencate quattro prove dell’esistenza di
Dio (salvo errori di memoria, si trattava della creazione, dell’ordine
naturale, della coscienza e della rivelazione).
Forse
però, a pensarci bene, di prova ce n’è un’altra, che dovrebbe far riflettere
anche i più increduli: ed è il fatto che tutta la storia del cristianesimo –
arrivata ormai alla non comune durata di
ben due millenni – sia cominciata proprio con quelle dodici persone che
conosciamo come Apostoli.
Sì,
perché leggendo i Vangeli, in buona parte scritti da loro stessi, ci si rende
perfettamente conto di che persone davvero povere e limitate si trattava.
O
meglio, di che gente ignorante, incapace e per certi versi addirittura ottusa e
dura di comprendonio si trattava, ma solo fino a quando lo Spirito Santo poi è
sceso con potenza a farne strumenti potenti ed efficaci per la realizzazione
del piano di salvezza del Signore.
Anche
un non credente, messo di fronte alle reazioni degli Apostoli prima e dopo
quell’avvenimento, forse non potrebbe negare una trasformazione che ha davvero
del miracoloso, e che quindi è indice indubbio della presenza e dell’azione
vivificante che solo una potenza divina può realizzare: fosse stato per loro e
per le loro capacità, come avrebbe potuto formarsi una Chiesa che ancor oggi è
una delle istituzioni più vive e vitali?
La
pagina del Vangelo di Marco della XXIX domenica del T.O. è una conferma
concreta di questo genere di riflessione.
Infatti,
come spesso accade alle persone limitate e poco flessibili (siamo sicuri di non
esserci anche io e te?) a volte ci si trova in bocca la tipica frase: “Io non
cambio idea neanche se me lo dice il Padreterno in persona”.
Ebbene,
questa ostinazione testarda ce la mostrano nientemeno che gli Apostoli Giacomo
e Giovanni, ossia uno che diventerà l’evangelizzatore della Spagna e sarà
martirizzato con la spada e un altro al quale Gesù affiderà nientemeno che
Maria Sua madre.
Vanno
infatti da Lui in coppia – sono fratelli – e già l’esordio, nella sua
perentorietà, è tutto un programma: “Vogliamo che tu ci faccia quello che ti
chiederemo”. Come a dire: “Sia fatta la nostra volontà, non la Tua”, Tu sei uno
potente ma questo a noi interessa solo nella misura in cui ci possa essere
utile per realizzare quello che NOI vogliamo. Bella logica, in un rapporto da
creatura a creatore!
Ma
Gesù – che non a caso è Gesù – inizialmente non li contraddice, sta al gioco, e
chiede loro di dirgli cosa vogliono.
E
così, a Lui che sta già da tempo annunciando passione e sofferenza, loro – come
se avessero avuto le orecchie foderate di prosciutto – chiedono posti d’onore e
gloria.
Non
capiscono, oppure non vogliono capire? O forse vogliono solo fare i furbi con
Lui?
Vale,
come è fin troppo facile capire, anche per noi.
Il
Gesù che diciamo di seguire è veramente Dio oppure è solo un superdotato, un
potente più potente di tanti altri, che ci può fare comodo per fare strada?
Se
lo riconoscessimo come Dio, dovremmo naturalmente lasciare che fosse Lui a
gestire la nostra vita, e invece siamo noi a voler gestire Lui, a sfruttare il
suo potere e la Sua disponibilità, proprio come siamo abituati a fare con tutto
il resto: asservire qualsiasi cosa all’obiettivo primario della nostra
realizzazione.
Ed
è una mentalità talmente radicata che ci sembra ovvio tramandarla anche ai
nostri figli, i quali si ritrovano addosso – così come noi – questo elemento
inquinante e fuorviante della sete di realizzazione, di primato, di successo,
di supremazia ad ogni costo e su chiunque altro.
Siccome
lo crediamo noi, trapiantiamo anche sulla nostra discendenza la convinzione e
l’obiettivo di vedere gli altri come potenziali nemici, ostacoli concreti da
abbattere per conseguire quella realizzazione umana che riteniamo possa
assicurarci la felicità e la vita. Che chimera illusoria e fallace!
La
dimostrazione di questo è nella narrazione parallela dello stesso episodio in
Matteo.
Qui
è la direttamente la madre di Giacomo e Giovanni a porre la stessa domanda a
Gesù.
Creazione
davvero unica e meravigliosa è la mamma (tutti i figli lo sanno), al punto che
perfino Dio stesso ha desiderato averne una per sé, per poterne gustarne la
tenerezza incomparabile, sia pur condividendola con l’intera umanità.
Ma
questa di Zebedeo è l’immagine della famiglia borghese dei nostri giorni: lui è
un pescatore, certamente non colto, ma benestante. E la sua sposa, la madre di
Giacomo e Giovanni, è una madre che, proprio come quasi tutte le madri di due
millenni dopo, la cosa fondamentale che desidera per i suoi due figli è il
primo posto: sono i suoi idoli, ma – non concependo per loro la possibilità di
una sofferenza che redime – mostra di non capire affatto dove vada cercato il
loro vero bene.
E
anche essi sono ancora dei poveri illusi e supponenti, perché quando Gesù
replica facendo lo osservare che “non sanno cosa stanno chiedendo”, loro –
irruenti “figli del tuono” (Mc 3, 17) – senza scomporsi gli rispondono che
“possono benissimo bere il suo stesso calice e ricevere il suo battesimo”.
Non
hanno capito per nulla che Cristo sta nuovamente annunciando la sua passione,
ma hanno la presunzione di semplificare e la faciloneria, la spavalderia di
proclamarsi già alla sua altezza.
Non
hanno compreso che stare alla destra o alla sinistra di Gesù significa venire
odiati dal mondo e crocifissi accanto a
Lui, e che allora – nel momento della prova suprema – non sarà così facile
scegliere (proprio come spettò ai due ladroni) se rinnegarlo o restargli fedeli
fino alla morte.
Eppure,
uno di loro è Giacomo. che diventerà Suo testimone e martire, e l’altro è
nientemeno che Giovanni, il “discepolo che Egli amava” e al quale, sotto la
croce, affidò Sua madre.
Allora,
come non notare che Giovanni ha ricevuto, in quel momento supremo di prova,
un’altra madre dopo quella naturale, e quanto diversa dalla precedente: quella
desiderava solo il suo bene egoistico, effimero e umano, questa vuole il bene
eterno per lui e per tutta l’umanità. Quella bramava per i figli un futuro di
gloria e di comando, questa sa che chi segue Cristo va incontro a persecuzione
e prova, anche se poi entrerà con Lui nel martirio e, donando la propria vita,
la ritroverà in eterno.
A
questo punto ci si aspetterebbe che le parole di Gesù a Giacomo e Giovanni
abbiano almeno fatto riflettere gli altri Apostoli.
Nemmeno
per idea, perché la reazione degli altri dieci è quella di sdegnarsi con i due
per aver cercato di accaparrarsi per primi dei posti d’onore a fianco del
Messia, cosa che, casomai, deve spettare anche a tutti loro.
Insomma,
sono proprio tutti uguali nella loro cecità, pertinaci e ostinati nel chiudere
l’orecchio quando Gesù parla di sofferenza e di passione e proiettati verso il
loro ideale gretto e umano di trionfo e di gloria.
Ma
sono poi così lontani dal modo con cui tanti di noi cristiani – specialmente
quelli che gravitano nelle parrocchie -
vivono la loro realtà odierna, cercando solo il riconoscimento del
proprio buonismo e dei propri meriti umani, piuttosto che una donazione
disinteressata della vita al servizio degli altri?
Ecco
perchè, di fronte a questo inganno profondo, a questa grave illusione che tutti
indistintamente gli Apostoli mostrano di sperimentare, Gesù è indotto a parlare
più chiaro e a spiegare senza mezzi termini che la logica del mondo e quella di
chi segue Lui sono due cose completamente opposte l’una con l’altra. I capi
delle nazioni dominano ed esercitano il potere sugli altri uomini, ma “fra voi
però non è così”, perché voi siete chiamati a servire tutti, dal primo
all’ultimo, così come è per il servo sofferente di Jahvè di cui parla il
profeta Isaia e come è per il Figlio dell’uomo, la cui missione salvifica è
appunto nel “servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.
Dove
quel “molti” significa “tutti”, ma è limitato dal fatto che quel riscatto –
siccome non è e non può essere un’imposizione per nessuno - avrà effetto solo per coloro che liberamente
avranno l’umiltà di accettarlo, riconoscendosene umilmente bisognosi.
Allora,
che significa tutto questo?
Certamente
è un richiamo a non esaltarci nella superbia, a non giocare più con la nostra
fede, trattandola alla stregua di tutti gli altri affari e le incombenze della
vita quotidiana: essa non coincide con il crearsi una zona di comodo, un’area
di tranquillità della coscienza, un crogiolarsi nel senso del proprio
perbenismo, ma è un mettersi in un cammino dietro a Gesù, nel quale
l’itinerario è quanto di più incerto e sorprendente, mentre l’unica cosa davvero
certa è il punto di arrivo, ossia la salita a Gerusalemme per sperimentare il
suo stesso battesimo: la croce; e bere il suo stesso calice: la volontà di Dio.
Una
volta compreso questo, la scelta rimane solo nostra.