Dimenticare l’Italia

da Tirana

 (© Copyright Sandro Petrone 2000)

Tirana - Antonio è in cerca di alcune radio e televisioni da acquistare. Ha detto proprio così al giornalista svizzero incontrato sul volo Zurigo-Tirana e al quale chiede in modo estemporaneo aiuto e consulenza in materia. “Alcune radio e televisioni albanesi”, ripete mentre spiega la sua attività di imprenditore edile genovese. “Ma, ormai vivo a Montecarlo”, precisa. E transita ogni tanto dalla Svizzera, facile immaginare perché, soprattutto quando è in rotta per o dall’Albania, dove acquista terreni e costruisce enormi palazzi. Stessi progetti orribili e sbrigativi che da un po’ di tempo le autorità italiane non gli consentono più di portare a termine in Liguria.

   Tra i mille edifici che stanno spuntando dappertutto a Tirana, sui larghi viali dissestati, oppure strangolati tra decine di altre costruzioni nelle stradine sterrate, alcuni sono suoi. Ce n’è uno anche a poche centinaia di metri da piazza Skandenberg, il cuore brulicante della capitale, dove maggiormente si percepiscono i segni di questa accelerazione nella ricostruzione. Così, Antonio ora parla come un piccolo Berlusconi all’indomani dell’edificazione di Milano Due, pronto per la scalata televisiva.

   “Sa, io sono interessato ad investire nei mezzi di comunicazione”, torna a dire ogni tanto, mentre il giornalista svizzero lo porta in visita nell’autorevole Media Institut, una struttura moderna ed efficiente dove gli addetti all’informazione albanesi, giovani e meno giovani, ricevono una preparazione da far invidia al Journalist Training della Bbc. E guarda con l’interesse di un rapace una quindicina di cronisti radio televisivi albanesi che hanno appena terminato con successo un corso avanzato di formazione, patrocinato da un programma di cooperazione del governo elvetico.

   Antonio, rappresenta il prototipo dell’imprenditore italiano della prima ora, quelli piombati qui dal 1992 per lanciarsi nella colonizzazione stracciona di un paese rimasto chiuso al mondo per cinquant’anni, stretto in un regime comunista, dopo aver fatto parte dell’Impero italiano dei tempi del fascismo. Decine di avventurieri che pretendono di realizzare a basso costo i sogni di gloria e di ricchezza proibiti in patria. E’ il fenomeno inverso, speculare, di quello dei primi immigrati albanesi arrivati in Italia, i protagonisti del racket, della prostituzione, del traffico di droga, all’arrembaggio di un benessere che per anni hanno potuto guardare solo in tv, captando i programmi della Rai.

   I tanti Antonio, soprattutto meridionali, ma in buon numero anche settentrionali, con le loro fabbrichette mordi e fuggi, traffici e speculazioni di ogni tipo, sono fra i principali responsabili dell’immagine distorta che gli albanesi hanno dell’Italia e del ruolo che il nostro paese sta giocando nella loro ricostruzione. Esattamente come gli albanesi che riempiono le cronache nere italiane, sono in buona parte responsabili dell’idea tutta in negativo che abbiamo del Paese delle aquile.

   “Mashtrues, truffatori!” taglia corto Rezear Xhaxhiu, direttore dell’informazione di Telearberia. Arberia, l’antico nome dell’Albania, un’emittente che da tre anni sviluppa il dibattito sull’identità e sulla crescita albanese. “Un esercito di truffatori. Hanno guadagnato tanti soldi e sono andati via. E hanno lasciato un sapore amaro negli albanesi. Deve essere accaduta la stessa cosa con i nostri sbarcati in Italia nel primo esodo, alla ricerca dell’occasione buona per smerciare un po’ di droga”. Nell’ufficio spartano ricavato in un’ala del palazzo tirata su di recente a mattoni grezzi, Enkel Demi, 28 anni, uno dei giornalisti di punta di Telearberia, aggiunge: “Quando parliamo tra amici, concludiamo sempre che l’Italia sta perdendo una grande occasione per giocare in Albania il ruolo che le spetta come quinta potenza industriale del mondo”.

   Quella che si raccoglie dappertutto a Tirana, fra i giovani e fra gli anziani, fra la gente semplice e fra gli intellettuali, fra chi l’Adriatico è riuscito a varcare e chi no, è una sorprendente delusione, un’incredibile frustrazione da promessa disattesa. Un mal d’Italia diffuso che progressivamente sta prendendo il posto del Sogno italiano, a mano a mano che cresce e si delinea in modo più distinto la Nuova Albania, fatta di gente che vuole costruire qui e che, comunque, comincia a guardare ad altri modelli alternativi a quello tricolore, in primo luogo a quello americano.

   “Per i nostri genitori fin dagli Anni Sessanta e per noi negli Anni Novanta, l’Italia rappresentava la prima terra diversa oltre l’Adriatico”, spiega Blerta, 21 anni, studentessa di giurisprudenza, che si paga gli studi lavorando sodo alla reception dell’Hotel Tirana International. “Poi, siamo rimasti scottati come con qualcosa che hai desiderato per molto tempo e scopri diverso da ciò che credevi”. Cioè, dall’idea che si erano fatti guardando la tv, dalla quale Blerta, come tantissimi albanesi, ha imparato anche a parlare l’italiano. “Abbiamo scoperto che c’è dell’altro, che si può andare anche negli Stati Uniti”, dice Blerta con un sussulto di durezza nella voce. La parola d’ordine è: dimenticare l’Italia.

   “Per quasi cinquant’anni, gli albanesi hanno vissuto l’Italia solo attraverso le leggende collettive e, poi, attraverso la tv. Il problema è che così si creano tanti tasselli di un qualcosa che poi vuoi che esista davvero”, spiega Adlej Pici, un ragazzone di 36 anni, laureato in giurisprudenza a Bologna, in grado di discettare di tutti i protagonisti della cultura italiana dagli Anni Settanta in su, di programmi radiofonici e televisivi, di calciatori e pensatori, come di grandi eroi e modelli che hanno foggiato il suo mondo interiore. “Gli albanesi presumevano di conoscere il vostro paese, e ora scoprono una realtà nuova filtrandola attraverso sentimenti antichi. Il primo è l’egualitarismo, eredità dell’ideologia comunista. Il secondo, la pietà. In sostanza, supponevano di dover ricevere a mani tese, anche in base all’immagine che si erano formati dell’Occidente: il ricco e generoso che aiuta il povero. Hanno trovato, invece, una società che non corrisponde alle loro aspettative”.

   Dimenticare l’Italia? Sì, ma il rischio è che si sostituisca una mancata terra promessa vicina con un’altra più lontana, per esempio gli Stati Uniti. Un mito distante, non immediatamente verificabile, che non permette di attivare un senso critico. Una nuova chimera da sognare, anziché vivere la propria realtà. “Così, in un paese dove tutto è da ricostruire, i modelli organizzativi e i principi della cultura anglosassone sono acquisiti come genericamente positivi, visto che a breve termine mostrano grande efficacia –conclude Adlej- senza la possibilità di valutare i lati negativi, di guardare più a fondo nella società che quel modello propone: giustizia, economia, solidarietà, esigenze sociali, opportunità diffuse. Insomma, senza capire in che misura ci si allontana dalle caratteristiche e dalle esigenze proprie della società albanese”.

    Insomma, il pericolo che l’Albania ricada nell’illusione del benessere facile, comprato o rubato all’estero sbrigativamente. L’immagine che viene subito alla mente è quella che colpisce chiunque arrivi a Tirana per la prima volta. Una concentrazione assolutamente straordinaria di automobili di lusso, Mercedes, Bmw, Audi dei modelli più costosi, che percorrono le strade scalcinate e polverose. Auto rubate all’estero e immatricolate con il sistema più rapido del mondo: basta scegliere una targa albanese di proprio gradimento tra le mille nuove di zecca appese alle tante bancarelle dei venditori di ricambi.

   Tutti, qui a Tirana, concordano che l’Italia è la nazione elettivamente più vicina alla loro realtà e che deve giocare un ruolo di primo piano in una crescita vera, non drogata. Ma, la gente si sente respinta, allontanata, discriminata dal nostro paese. Questioni piccole e questioni grandi. Da un lato il muro della burocrazia, i visti di ingresso difficili da ottenere; dall’altro il trattamento negativo, l’ostilità che gli albanesi sentono di subire da parte degli italiani.

   La delusione si trasforma di colpo in rabbia quando si affronta il tema “andare in Italia”. “Io non vado in Italia, il problema è questo –risponde con risentimento Blerta- perché per arrivarci devo fare qualcosa di illegale, qualcosa che ha a che fare con la corruzione”. Il riferimento è al traffico di visti scoperto tempo fa. Ma, anche a come si è trattati all’arrivo in Italia. Soprattutto le donne. Un accenno che fa comparire il rossore sul bel viso di Blerta, capelli biondi, lunghi e crespi, un fisico da indossatrice, E le impedisce di dire di più.

   “Tutti pensano alla prostituzione o al racket, i poliziotti ti controllano cento volte i documenti anche se sono in regola, fanno allusioni, ti danno del tu e rivolgono una sfilza di domande personali senza ragione, come se parlassero a una che si sa bene cosa è venuta a fare in Italia”, spiega chiaramente Ilva Tare, una giornalista televisiva che passa spesso la frontiera. “E poi, sorrisetti e ammiccamenti ironici quando gli dici che sei lì per studiare o per lavoro”, aggiunge.

   “Volevo mandare mio nipote a studiare in Italia. Ma, mi ha risposto di no, perché ci disprezzano”, racconta Sabri Godo, considerato il politico più saggio qui nella capitale per le sue posizioni indipendenti ed equilibrate. Seduto ad un tavolino del bar interno dell’Hotel Tirana, riceve continui attestati di stima dalle persone che si fermano a salutarlo. Sabri Godo, posizioni di centro, che ha rifiutato di entrare nelle alleanze di governo, di destra prima, di sinistra ora, perché riteneva che l’affarismo e le connessioni con il malaffare avrebbero prevalso sul programma da portare avanti per il benessere del paese. Sembra più anziano della sua età, come afflitto dalla stanchezza per le lotte politiche, parla con gli occhi arrossati semichiusi.

   “La stampa esagera un po’. O, almeno, racconta solo una parte della storia –dice Godo- Ho sentito il servizio di una tv italiana su una rapina in Puglia. ‘Questa volta i ladri non erano albanesi’, affermava il giornalista, come se normalmente non possano che esserlo”.

   L’altro grande colpevole, insomma, sarebbe la mancanza di informazione, la storia a senso unico che in Albania come in Italia si fa di ciò che accade dall’altra parte. Non è solo quello che si dice in negativo. Ma, soprattutto, quello che non si dice, che nessuno racconta o fa vedere. Perciò molti albanesi vorrebbero ora dimenticare l’Italia, come l’Italia dimostrerebbe di dimenticare l’Albania.

   Al di là della cronaca nera, il nulla, il silenzio, dichiara Tritan Sheu, oggi deputato di opposizione, in passato vice-premier, ministro degli esteri, della sanità e presidente del Partito democratico, oggi più amico dell’ex presidente Sali Berisha, in opposizione al quale ha dato vita ad una formazione per il rinnovamento del partito. Secondo Sheu c’è una generale reticenza dei politici italiani e, di conseguenza, della stampa, nel mostrare qual è la realtà dei rapporti fra i due paesi. E questo perché Roma vivrebbe una sorta di complesso del passato coloniale. Soprattutto ora che c’è un governo di sinistra, si sarebbe diffuso il timore di accuse di egemonismo in stile fascista, voglia di ventunesima regione italiana.

   “Se il problema è questo, colonizzateci pure! Prego, accomodatevi”, scherzano in molti, come Rexhep Shahu, 39 anni, di Kukes, confine col Kosovo: “Non possiamo dimenticare che l’Italia fascista fu il primo paese ad unificare la nostra nazione e permise un’educazione albanese in tutte le regioni”. E oggi Roma resta un alleato naturale, dice Shanhu, anche perché non ha pretese di espansione religiosa, a differenza della Grecia, ortodossa e vicina ai serbi. “Ma, i segnali nei nostri confronti sono poco incoraggianti”, ammette con delusione Shanu.

   E Tritan Sheu pone apertamente la questione politica. “L’Italia ha una politica estera timida, non compatibile con le sue dimensioni economiche, di quinta potenza industriale del Pianeta, incapace di sfruttare il terreno fertile che c’è qui, il ruolo di porta sui Balcani che l’Albania può giocare per il vostro paese”.

   “Slovenia, Croazia, Macedonia sono già andate verso Germania ed Austria”, aggiunge Sheu, “la mancanza di coraggio da parte del governo italiano nell’esprimere con forza volontà politiche e nel tradurle in azione ha creato molte perplessità nella nostra gente. Gli albanesi sentono che stanno perdendo una grande opportunità di sviluppo perché il paese più vicino, più forte e con più legami non si è trasformato in locomotiva, in motore per la nostra integrazione in Europa. Eppure, è interesse italiano avere un’Albania stabile, moderna, integrata. E’ necessario un cambiamento psicologico nella vostra nazione”.

   Un cambiamento soprattutto psicologico. Perché anche Sheu e l’opposizione al governo di sinistra, ora al potere a Tirana, sono costretti ad ammettere che, alla prova dei fatti, questa percezione della situazione si dimostra assolutamente non corrispondente alla realtà dei rapporti fra i due paesi. La cooperazione italiana è di gran lunga la più consistente, Roma è il primo partner commerciale di Tirana e copre il 35% del capitale investito in attività economiche e industriali. Questo vuol dire circa la metà dell’intero capitale straniero. In Albania sono presenti oltre 600 imprese italiane o miste per un investimento complessivo di 600 miliardi di lire, il triplo di quanto fanno imprese greche e statunitensi.

   “Dal 1998 l’Albania ha compiuto enormi progressi e grandi passi in avanti che si riscontrano anche nella stabilizzazione economica, politica e sociale”, ha rilevato il ministro degli esteri italiano, Lamberto Dini, quando la Commissione mista tra i due paesi è tornata a riunirsi nel luglio scorso. “Nell’ultimo anno, la crescita economica di Tirana è stata superiore all’otto per cento, con un tasso di inflazione di poco superiore a quello di gran parte dei paesi europei”. E anche nella cooperazione contro la criminalità si sono fatti importanti passi in vanti. Così, da parte italiana sono entrate in campo le grandi imprese, come Enel e Montedison, per gli interventi infrastrutturali nei settori dell’energia e stradale sui quali l’Albania punta per consolidare la crescita. E, confortata da questi risultati, Roma spinge decisamente Tirana verso l’Europa, ne promuove un’associazione sempre più stretta all’Unione.

   Ma, a dispetto di questa riconversione proclamata dai governi, da una politica di emergenza a quella della ricostruzione, anche se si sta passando dai piccoli interventi tampone, ai grandi interventi infrastrutturali di medio e lungo termine, come le reti idriche, elettriche, stradali, fino alle strutture sanitarie e sociali, la gente percepisce esattamente il contrario. Un senso di allontanamento.

   Lungo la grande arteria alberata intitolata ai martiri, luogo d’incessante passeggio con capolinea in piazza Skandenberg, ai tavolini di bar-pizzerie alla moda per i giovani, come Juvenilia o Arthur, mentre un neo-rocchettaro alterna sulla tastiera Roland pezzi storici del Pop americano Anni settanta e brani etnici albanesi, l’argomento ricorrente continua ad essere la difficoltà di andare via. Anche se quella dei visti che non si riescono ad ottenere è diventata una specie di favola metropolitana. Basta un sopralluogo al nostro consolato per rendersi conto che le procedure si sono molto snellite e che, se si riescono a presentare i dieci documenti previsti dal trattato di Shengen, si tratta solo di attendere un po’ (“Certo, tutte quelle carte sono un ostacolo, molti albanesi non riescono a raccapezzarsi, ma è una procedura uguale per tutta Europa”, spiegano in ambasciata). E poi, l’apertura di un consolato di prima classe a Valona ha obiettivamente aumentato le possibilità di varcare l’Adriatico e i soli permessi di lavoro stagionali, tra i 20giorni e i nove mesi, sono seimila l’anno (nessun tetto per le altre richieste).

   Ma, se da un lato, nonostante tutto la questione dei visti impossibili resiste come uno degli argomenti simbolici più diffusi per descrivere le ragioni per cui “dimenticare l’Italia”, dall’altro, dietro la facciata dei discorsi che si trascinano uguali, la sostanza del problema dei giovani albanesi sembra finalmente prendere una forma del tutto nuova.

   “Non come si può fare ad andare lì, ma cosa si può fare restando qui”, sintetizza Alban Dudushi, 27 anni, giornalista. E spiega: “E’ un problema di business. All’inizio gli Albanesi andavano in Italia per cercare quello che qui non c’era. Ora, a Tirana come a Roma le possibilità non mancano. Emigrare in Italia è diventato un po’ come andare a Durazzo. Non guadagni molto, sei sempre senza documenti e resti per tutti il solito albanese che loro conoscono e trattano male”.

   “Qui c’è un fatto importante che non comprende neppure il nostro governo”, conferma Sabri Godo scuotendo il capo. “La leggenda è finita: se si va da emigrante, non ci si arricchisce, si è pagati poco e trattati male. Non si riesce neppure a mantenere la famiglia –aggiunge Godo- Anziché coltivare pomodori in Grecia per una paga da fame, meglio tornare. E’ questo che molti stanno tentando di fare e bisogna aiutarli”

   C’è tutta la rinascita dell’orgoglio albanese nelle parole di questo anziano leader, immagine del “beautiful looser”, del meraviglioso perdente che sognava il grande centro in contrapposizione alle due forze politiche di destra e di sinistra, con il 40 per cento dell’elettorato che ad ogni votazione oscilla fra l’una e l’altra.

   “Abbiamo lo stesso clima della Puglia, ma possediamo acqua in abbondanza, sufficiente anche ad alimentare il Sud d’Italia –dice Godo- E, invece, finiamo per importare risorse idriche. Così come importiamo quattro volte ciò che esportiamo. E’ in questo punto il segreto della svolta”.

“I ventimila albanesi che vogliono tornare alle campagne abbandonate, chiedono solo un credito di 10-15mila dollari a famiglia. Un’operazione che potrebbe essere condotta istituendo una banca per il credito agricolo. L’Italia avrebbe interesse a muoversi in questa direzione. Si creerebbe una ricaduta per migliaia e migliaia di persone che non penserebbero più all’emigrazione”.

   Altro che paghe da duecentomila lire al mese ad operaio e sogni di berlusconismo straccione di palazzinari d’assalto. Dimenticare l’Italia per costruire in Albania, è la parola d’ordine tra i giovani che credono nella nuova opportunità da cogliere.

   Bevendo un the freddo da Juvenilia, Anita, 20 anni, confessa di non avere ancora un fidanzato. Minuta, dai modi delicati, con la carnagione bianchissima e lo sguardo franco, spiega che dei ragazzi albanesi non ne vuole sapere. “Cercano solo una cosa da noi donne e trascorrono tutta la giornata seduti al bar a far nulla”. Ma, non è il solito luogo comune, la premessa per svelare che preferirebbe un giovanotto italiano, magari ricco e che la porti in Italia, così come vuole l’iconografia maschilista dei “pastasciutta conquistadores”.

   Anita nel nostro paese vuole venire, ma solo in vacanza appena avrà guadagnato abbastanza soldi con il suo lavoro da quattrocento dollari al mese in un istituto culturale finanziato dalla cooperazione, una vera fortuna. “Cerco un buon partner, magari straniero, ma qui a Tirana”, spiega Anita. E aggiunge con un sorriso: “Per tornare al discorso tra i nostri paesi, non dovrebbe essere così anche l’Italia per l’Albania?”