Riforme
Istituzionali
SENTENZA N. 41 - ANNO 2003
REPUBBLICA ITALIANA
In nome del Popolo italiano
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-
Riccardo CHIEPPA
-
Gustavo ZAGREBELSKY
-
Carlo MEZZANOTTE
-
Fernanda CONTRI
- Guido NEPPI MODONA
- Piero Alberto CAPOTOSTI
-
Annibale MARINI
-
Franco BILE
-
Giovanni Maria FLICK
-
Francesco AMIRANTE
-
Ugo DE SIERVO
-
Romano VACCARELLA
- Paolo MADDALENA
- Alfio FINOCCHIARO
|
Presidente
Giudice
”
”
”
”
”
”
”
”
”
”
”
”
|
ha
pronunciato la seguente
SENTENZA
nel
giudizio di ammissibilità, ai sensi dell'art. 2, primo comma, della
legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, della richiesta di referendum
popolare per l'abrogazione:
-
dell'art. 18, comma primo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata
“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi
di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall'art. 1 della
legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle sole parole “che in ciascuna
sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha
avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più
di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di
imprenditore agricolo” e all'intero periodo successivo che recita: “Tali
disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori
e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più
di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito
territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna
unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali
limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore,
che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro”;
-
dell'art. 18, comma secondo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata
“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi
di lavoro, e norme sul collocamento”, come modificato dall'art. 1 della
legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Ai fini del computo del numero
dei prestatori di lavoro di cui al primo comma si tiene conto anche dei
lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori
assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario
effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo
delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla
contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i
parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e
in linea collaterale”;
-
dell'art. 18, comma terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata
“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi
di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall'art. 1 della
legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Il computo dei limiti occupazionali
di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni
finanziarie o creditizie”;
-
dell'art. 2, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina
dei licenziamenti individuali”, che recita: “I datori di lavoro privati,
imprenditori non agricoli e non imprenditori, e gli enti pubblici di cui
all'articolo 1 della legge 15 luglio 1966, n. 604, che occupano alle loro
dipendenze fino a quindici lavoratori ed i datori di lavoro imprenditori
agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori computati
con il criterio di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300,
come modificato dall'articolo 1 della presente legge, sono soggetti all'applicazione
delle disposizioni di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, così
come modificata dalla presente legge. Sono altresì soggetti all'applicazione
di dette disposizioni i datori di lavoro che occupano fino a sessanta dipendenti,
qualora non sia applicabile il disposto dell'articolo 18 della legge 20
maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge”;
-
dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, titolata “Norme sui licenziamenti
individuali”, come sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge 11 maggio
1990, n. 108, che recita: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli
estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore
di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il
termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli
un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo
di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa,
all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento
e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità
può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore
di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità
per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni,
se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori
di lavoro”;
-
dell'art. 4, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina
dei licenziamenti individuali”, limitatamente al periodo che così
recita: “La disciplina di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970,
n. 300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge, non trova
applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono
senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale,
ovvero di religione o di culto”; giudizio iscritto al n. 134 del registro
referendum.
Vista
l'ordinanza del 9 dicembre 2002 con la quale l'Ufficio centrale per il
referendum presso la Corte di cassazione ha dichiarato conforme
a legge la richiesta;
udito
nella camera di consiglio del 14 gennaio 2003 il Giudice relatore Gustavo
Zagrebelsky;
uditi
gli avvocati Alberto Piccinini e Pier Luigi Panici per i presentatori Paolo
Cagna Ninchi, Pier Luigi Panici, Giacinto Botti e Pietro Alò.
Ritenuto in fatto
1.
– L'Ufficio centrale per il referendum costituito presso la Corte
di cassazione, in applicazione della legge 25 maggio 1970, n. 352, e successive
modifiche e integrazioni, esaminata la richiesta di referendum popolare
presentata in data 28 febbraio 2002 da quattordici cittadini italiani –
quale risultante dall'annuncio pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
del 1° marzo 2002, n. 51 – per l'abrogazione (a) di parte del comma
primo e dei commi secondo e terzo dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970,
n. 300 (Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi
di lavoro e norme sul collocamento), (b) del comma 1 dell'art. 2 della
legge 11 maggio 1990, n. 108 (Disciplina dei licenziamenti individuali),
(c) dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti
individuali) e (d) di parte del comma 1 dell'art. 4 della citata legge
n. 108 del 1990, ne ha verificato la regolarità e, rilevata (con
ordinanza del 21 ottobre 2002) la necessità di alcune integrazioni
e correzioni formali del quesito, con ordinanza del 9 dicembre 2002 ha
dichiarato che la richiesta di referendum è conforme alla
legge.
Il
quesito referendario, quale risultante dalle integrazioni e correzioni
disposte, è così formulato:
«Volete
voi l'abrogazione:
-
dell'art. 18, comma primo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata
“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi
di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall'art. 1 della
legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle sole parole “che in ciascuna
sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha
avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più
di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di
imprenditore agricolo” e all'intero periodo successivo che recita: “Tali
disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori
e non imprenditori, che nell'ambito dello stesso comune occupano più
di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito
territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna
unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali
limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore,
che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro”;
-
dell'art. 18, comma secondo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata
“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi
di lavoro, e norme sul collocamento”, come modificato dall'art. 1 della
legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Ai fini del computo del numero
dei prestatori di lavoro di cui al primo comma si tiene conto anche dei
lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori
assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario
effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo
delle unità lavorative fa riferimento all'orario previsto dalla
contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i
parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e
in linea collaterale”;
-
dell'art. 18, comma terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300, titolata
“Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi
di lavoro e norme sul collocamento”, come modificato dall'art. 1 della
legge 11 maggio 1990, n. 108, che recita: “Il computo dei limiti occupazionali
di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni
finanziarie o creditizie”;
-
dell'art. 2, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina
dei licenziamenti individuali”, che recita: “I datori di lavoro privati,
imprenditori non agricoli e non imprenditori, e gli enti pubblici di cui
all'articolo 1 della legge 15 luglio 1966, n. 604, che occupano alle loro
dipendenze fino a quindici lavoratori ed i datori di lavoro imprenditori
agricoli che occupano alle loro dipendenze fino a cinque lavoratori computati
con il criterio di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300,
come modificato dall'articolo 1 della presente legge, sono soggetti all'applicazione
delle disposizioni di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, così
come modificata dalla presente legge. Sono altresì soggetti all'applicazione
di dette disposizioni i datori di lavoro che occupano fino a sessanta dipendenti,
qualora non sia applicabile il disposto dell'articolo 18 della legge 20
maggio 1970, n. 300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge”;
-
dell'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, titolata “Norme sui licenziamenti
individuali”, come sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge 11 maggio
1990, n. 108, che recita: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli
estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore
di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il
termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli
un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo
di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto
riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa,
all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento
e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità
può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore
di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità
per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni,
se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori
di lavoro”;
-
dell'art. 4, comma 1, della legge 11 maggio 1990, n. 108, titolata “Disciplina
dei licenziamenti individuali”, limitatamente al periodo che così
recita: “La disciplina di cui all'articolo 18 della legge 20 maggio 1970,
n. 300, come modificato dall'articolo 1 della presente legge, non trova
applicazione nei confronti dei datori di lavoro non imprenditori che svolgono
senza fini di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale,
ovvero di religione o di culto”»?.
Con
la medesima ordinanza del 19 dicembre 2002 l'Ufficio centrale ha stabilito,
in applicazione dell'art. 32, ultimo comma, della legge n. 352 del 1970,
la seguente denominazione del referendum: «Reintegrazione
dei lavoratori illegittimamente licenziati: abrogazione delle norme che
stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l'applicazione dell'art.
18 dello Statuto dei lavoratori».
2.
– Ricevuta comunicazione dell'ordinanza dell'Ufficio centrale, il Presidente
di questa Corte ha fissato, per la deliberazione in camera di consiglio
sull'ammissibilità del referendum, la data del 14 gennaio
2003, dandone comunicazione ai presentatori della richiesta e al Presidente
del Consiglio dei ministri, a norma dell'art. 33, secondo comma, della
legge n. 352 del 1970.
3.
– I presentatori della richiesta hanno depositato in data 9 gennaio 2003,
a norma dell'art. 33, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, una memoria
nella quale, richiamati alcuni precedenti della giurisprudenza di questa
Corte, si conclude per l'ammissibilità del referendum, in
particolare sotto i profili della omogeneità, della chiarezza e
della univocità del quesito proposto.
4.
– Nella camera di consiglio del 14 gennaio 2003 i rappresentanti dei presentatori
hanno insistito per una pronuncia di ammissibilità della richiesta
di referendum popolare.
Considerato in diritto
1.
– La richiesta di referendum abrogativo popolare, sull'ammissibilità
della quale questa Corte è chiamata a pronunciarsi, investe quattro
disposizioni in materia di disciplina dei licenziamenti individuali di
lavoratori operanti nel settore privato, e precisamente:
(a)
l'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della
libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale
e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento)
(c.d. statuto dei lavoratori), nel testo risultante dalle modifiche apportate
dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, del quale si propone l'abrogazione
limitatamente a parte del comma primo e ai commi secondo e terzo;
(b)
l'art. 2, comma 1, della citata legge n. 108 del 1990 (Disciplina dei licenziamenti
individuali);
(c)
l'art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali),
nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990;
(d)
l'art. 4, comma 1, secondo periodo, della stessa legge n. 108 del 1990.
2.1.
– A differenza di quanto stabilito dall'art. 2118 cod. civ., che prevedeva
il cosiddetto recesso ad nutum dal rapporto di lavoro, la materia
dei licenziamenti individuali è oggi regolata, in presenza degli
artt. 4 e 35 della Costituzione, in base al principio della necessaria
giustificazione del recesso e del potere di adire il giudice, riconosciuto
al lavoratore, in caso di licenziamento arbitrario. Tale principio, affermato
con la legge n. 604 del 1966 e confermato con la legge n. 300 del 1970
(nonché con la legge n. 108 del 1990, modificativa delle due precedenti),
è stato peraltro svolto per mezzo di due forme di garanzia:
a)
la cosiddetta garanzia obbligatoria, prevista dall'art. 8 della legge n.
604 del 1966, che comporta l'obbligo del datore di lavoro di riassumere
il lavoratore o, in alternativa, di corrispondergli un'indennità
quando il licenziamento risulti privo di una giusta causa (art. 2119 cod.
civ.) o di un giustificato motivo (art. 3 della medesima legge del 1966);
b)
la cosiddetta garanzia reale, prevista dall'art. 18 della legge n. 300
del 1970, che, per il caso di licenziamento ingiustificato, inefficace
e nullo, stabilisce, per il datore di lavoro, l'obbligo di «reintegrare»
nel posto di lavoro il lavoratore e di corrispondergli un'indennità
a titolo di risarcimento del danno subito, e, per il lavoratore, la possibilità
di rinunciare al «reintegro» e di ottenere, in alternativa
a esso, un'ulteriore indennità.
Tutela
obbligatoria e tutela reale differiscono dunque profondamente circa le
conseguenze del licenziamento arbitrario: l'una è incentrata sulla
garanzia patrimoniale, sul presupposto dell'idoneità del recesso
illegittimo a risolvere il rapporto di lavoro; l'altra, sulla continuità
del rapporto di lavoro, garantita dal diritto al reintegro, sul presupposto
dell'inidoneità del recesso illegittimo a risolverlo.
2.2.
– Apprestando le due forme di garanzia, il legislatore ne ha altresì
definito gli ambiti di applicazione. Dopo l'intervento della legge n. 108
del 1990, essi risultano configurati come segue.
La
tutela reale trova applicazione nei confronti dei datori di lavoro, imprenditori
e non imprenditori, che occupino più di quindici dipendenti in ciascuna
unità produttiva, come individuata dalla legge, e, in ogni caso,
quando occupino più di sessanta dipendenti; per i datori di lavoro
imprenditori agricoli, il limite numerico è stabilito in più
di cinque dipendenti (art. 18, primo comma, della legge n. 300 del 1970).
La
tutela obbligatoria opera invece in tutti i casi in cui non vale la tutela
reale, cioè (art. 2 della legge n. 108 del 1990) nei confronti dei
datori di lavoro che occupino fino a quindici lavoratori (computati secondo
i medesimi criteri previsti ai fini della tutela reale) ovvero fino a cinque
dipendenti, se imprenditori agricoli; nonché nei confronti dei datori
di lavoro che comunque occupino fino a sessanta dipendenti, sempre che
non sia applicabile la garanzia reale.
La
tutela reale, inoltre, è prevista in tutti i casi di licenziamento
dettato da ragioni discriminatorie (art. 3 della legge n. 108 del 1990).
Accanto
a questa disciplina generale, basata (a parte l'ultima ipotesi menzionata)
sul criterio del numero di occupati, esistono norme che (a) escludono dall'ambito
di applicazione della garanzia reale i lavoratori che prestano la loro
opera alle dipendenze di datori non imprenditori che svolgono, senza fini
di lucro, attività cosiddette di tendenza, cioè «di
natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione
o di culto» (art. 4, comma 1, secondo periodo, della legge n. 108
del 1990), (b) escludono altresì dall'ambito di applicazione tanto
della garanzia reale quanto di quella obbligatoria – valendo per esse la
regola residuale del recesso ad nutum – alcune categorie
di lavoratori come: i lavoratori domestici (art. 4, comma 1, primo periodo,
della legge n. 108 del 1990); i lavoratori ultrasessantenni in possesso
dei requisiti pensionistici e che non abbiano optato per la prosecuzione
del rapporto (art. 4, comma 2, della stessa legge); i dirigenti (ex
artt. 10 e 2, quarto comma, della legge n. 604 del 1966, e 3 della legge
n. 108 del 1990); i lavoratori in prova, fino all'assunzione definitiva
e comunque per non oltre sei mesi dall'inizio del rapporto (art. 10 della
legge n. 604 del 1966).
2.3.
– Tramite la soppressione delle disposizioni e delle parti di disposizioni
indicate nell'esposizione del fatto, il referendum abrogativo la
cui ammissibilità costituzionale deve qui essere vagliata è
rivolto in primo luogo all'estensione della garanzia reale contro i licenziamenti
ingiustificati ai lavoratori che attualmente, in conseguenza dei limiti
numerici sopra ricordati, godono esclusivamente della garanzia obbligatoria.
Questo obiettivo è perseguito, da un lato, attraverso l'eliminazione
dei limiti numerici che impediscono attualmente alla garanzia reale di
operare in favore dei lavoratori impiegati nelle piccole strutture produttive;
dall'altro, parallelamente a questa estensione, attraverso l'abrogazione
della norma che attualmente assicura a questi lavoratori soltanto la garanzia
obbligatoria.
Il
referendum mira altresì all'estensione della medesima garanzia
reale anche ai lavoratori dipendenti da datori di lavoro non imprenditori
che svolgono senza fini di lucro attività «di tendenza».
Restano
invece fuori della portata del referendum altre categorie di lavoratori
del settore privato per le quali valgono discipline particolari (come i
lavoratori domestici, i lavoratori ultrasessantenni, i dirigenti, i lavoratori
in prova).
3.
– La richiesta di referendum è ammissibile.
3.1.
– Le norme oggetto del quesito referendario sono estranee alle materie
in relazione alle quali l'art. 75, secondo comma, della Costituzione preclude
il ricorso all'istituto del referendum abrogativo.
3.2.
– La domanda posta agli elettori con il quesito referendario è inoltre
omogenea. Essa concerne, nel suo nucleo centrale, disposizioni e parti
di disposizioni che, nell'ambito della disciplina dei licenziamenti individuali
e alla stregua dei criteri dimensionali sopra indicati (paragrafo 2.2.),
definiscono l'ambito e i limiti di operatività della tutela reale
apprestata dall'art. 18 della legge n. 300 del 1970 in favore del lavoratore
illegittimamente licenziato.
Investendo
contemporaneamente (a) la norma che prevede la garanzia obbligatoria, avente
originariamente portata generale (art. 8 della legge n. 604 del 1966),
(b) la connessa previsione che successivamente ha delineato i limiti numerici
al di sotto dei quali si applica la medesima garanzia (art. 2 della legge
n. 108 del 1990), nonché (c) la speculare determinazione dei limiti
dimensionali al di sopra dei quali si applica la tutela reale (art. 18,
primo comma, della legge n. 300 del 1970, nelle parti indicate), la domanda
di abrogazione in esame chiarisce la propria obbiettiva ratio unitaria
consistente, conformemente al titolo assegnato al referendum dall'Ufficio
centrale, nell'estensione della garanzia della reintegrazione e del risarcimento
del danno contenuta nell'art. 18 dello statuto dei lavoratori, in modo
da comprendere in essa anche l'ambito in cui oggi vale la tutela obbligatoria.
La
domanda referendaria coinvolge inoltre disposizioni strettamente conseguenziali,
dettate ai fini del computo dei dipendenti e per l'applicazione di agevolazioni
finanziarie e creditizie indipendentemente dal limite numerico (commi secondo
e terzo dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970), le quali perderebbero
ogni ragion d'essere una volta espunto dal sistema il criterio dimensionale
al quale esse fanno riferimento.
3.3.
– Il quesito è omogeneo, pur concernendo altresì la disposizione
(art. 4, comma 1, della legge n. 108 del 1990) che esclude l'applicabilità
della garanzia di stabilità reale per i dipendenti da datori di
lavoro, non imprenditori, che esercitano un'attività «di tendenza».
L'esistenza di una matrice razionalmente unitaria è comunque assicurata
dall'obiettivo comune di estendere l'ambito di operatività della
garanzia reale in settori nei quali essa attualmente non opera.
3.4.
– Non incide poi sulla completezza del quesito – e quindi sull'esigenza
della sua non-contraddittorietà rispetto all'intento referendario
– ma solo sull'estensione della sua portata abrogatrice, rimessa evidentemente
alla discrezionalità dei proponenti, la circostanza che esso non
concerna la posizione di alcune categorie particolari di lavoratori, come
ad esempio quelle previste dall'art. 4 della legge n. 108 del 1990 o da
normative speciali.
3.5. – La domanda referendaria si presenta, per quanto detto, chiara
e univoca nella sua struttura e nei suoi effetti. Essa propone al corpo
elettorale un'alternativa netta tra il mantenimento dell'attuale disciplina
caratterizzata dalla coesistenza di due parallele forme di tutela, quella
obbligatoria e quella reale, e l'estensione della seconda.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
ammissibile la richiesta di referendum popolare per l'abrogazione,
nelle parti indicate in epigrafe: dell'art. 18, commi primo, secondo e
terzo, della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della libertà
e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività
sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), nel testo risultante
dalle modifiche apportate dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108
(Disciplina dei licenziamenti individuali); degli artt. 2, comma 1, e 4,
comma 1, secondo periodo, della legge n. 108 del 1990; dell'art. 8 della
legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), nel
testo sostituito dall'art. 2, comma 3, della legge n. 108 del 1990; richiesta
dichiarata legittima, con ordinanza del 9 dicembre 2002, dall'Ufficio centrale
per il referendum costituito presso la Corte di cassazione.
Così
deciso in Roma, il 30 gennaio 2003.
F.to:
Riccardo
CHIEPPA, Presidente
Gustavo
ZAGREBELSKY, Redattore
Giuseppe
DI PAOLA, Cancelliere
Depositata
in Cancelleria il 6 febbraio 2003.
Il
Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
Indice "Referendum
2003"