Maria  Cristina  Magni

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Viaggio in Sicilia

 

 

1 9 9 3   -   V I A G G I O   I N   S I C I L I A

 

 

 

LETTURA IN VIAGGIO

 

20 Marzo, Sabato

 

Il nostro viaggio inizia alla stazione Centrale nel primo pomeriggio di una limpida giornata di sole primaverile, quando io e la mamma  saliamo sul treno e ci sistemiamo nel vagone letto riservato al nostro gruppo. Gli scompartimenti purtroppo sono molto più stretti di quanto ci fossimo immaginate al momento della prenotazione e non possiamo sederci l'una di fronte all'altra, ma solo affiancate, con la vista limitata da uno squallido tramezzo; così per sentirci meno ingabbiate lasciamo aperta la porta e ci spostiamo spesso in corridoio a scambiare quattro chiacchiere con la coppia a fianco. Le lunghe ore di viaggio rappresentano una buona occasione per documentarci sui luoghi che visiteremo nei prossimi giorni: non potremo vedere tutto in una sola settimana e dovremo selezionare con cura i posti da visitare. La giornata passa velocemente nella lettura di un bellissimo libro sulla Sicilia ricco di fotografie (l'autore è Pierre Sébilleau) e nella consultazione della guida del Touring. Verso le nove di sera consumiamo i panini portati da casa e poi ci addormentiamo quasi subito cullate dal rollio regolare del treno in corsa.

 

 

VERDI PALME MEDITERRANEE

 

21 Marzo, Domenica

 

Il nostro treno è giunto puntuale a Palermo verso le dieci del mattino. Siamo state fortunate: i turisti della scorsa settimana sono incappati in uno dei tanti scioperi che affliggono il nostro paese ed hanno dovuto sopportare una decina di ore di ritardo. Ci accoglie in stazione una ragazza giovane, sorridente, dai lunghi capelli bruni e ricci: si chiama Marni e ci accompagnerà per tutta la settimana; nei prossimi giorni sarà il nostro punto di riferimento costante e spesso, alternandosi alle guide locali davanti alle rovine che visiteremo, ci riassumerà gli eventi storici e la vita delle antiche civiltà che hanno convissuto e si sono succedute sull'isola con una competenza e un entusiasmo stupefacenti.

Questa mattina siamo libere di fare ciò che più ci aggrada: molliamo quindi i bagagli in albergo e ci dirigiamo verso il centro di Palermo. Sembra che qui gli scippi siano all'ordine del giorno e Marni ed il personale dell'albergo ci raccomandano di lasciare al sicuro in camera borse e macchine fotografiche. Per fortuna abbiamo ignorato tutte queste raccomandazioni ed ora siamo in grado di mostrare agli amici le foto scattate.

La nostra prima meta è la chiesa della Martorana; è abbellita sulle volte da stupendi mosaici bizantini di epoca normanna, dai quali spiccano solenni personaggi biblici sullo sfondo di un cielo blu punteggiato da stelle d'oro. Affiancata alla Martorana spunta tra le palme la chiesetta di S. Cataldo, adorna di tre cupolette rosate. Poco più in là si incontra la fontana cinquecentesca ricca di statue di Piazza Pretoria, e più avanti la raffinata scenografia barocca dei Quattro Canti. Infine  il museo archeologico: un piccolo chiostro, all'ingresso, è rinfrescato da una fontana nella quale un fauno marmoreo si disseta portando alle labbra una conchiglia; dietro si intravede un secondo chiostro, rettangolare e più profondo, dove, attorno ad una vasca poligonale, si addensano disordinatamente palme, tronchi della felicità e piante di banana, in un guazzabuglio che ricorda una serra di piante tropicali. La visita è necessariamente veloce, abbiamo comunque tempo sufficiente per soffermarci dinanzi alle metope scolpite dei templi di Selinunte e per contemplare l'ariete in bronzo di Siracusa.

Lasciato a malincuore il museo arriviamo a colazione con cinque minuti di ritardo. Siamo le ultime e dobbiamo affrettarci perchè non servono in tavola finché tutto il gruppo non è al completo. Il ristorante, all'ultimo piano di fronte alla terrazza che guarda sul porto, è allegro e vivace, con tanta luce e tante piante.

 

Quando ci ritroviamo per la visita guidata ci attende la prima delusione: il Palazzo dei Normanni e la Cappella Palatina sono chiusi la domenica pomeriggio, e parimenti sono chiusi tanti altri monumenti di Palermo. In cambio ci portano nelle catacombe umide di un orribile convento dei Cappuccini, dove centinaia (o forse migliaia?) di mummie protendono le braccia scarnificate verso l'inerme turista. Non possiamo far altro che uscire e attendere irritate che il resto del gruppo completi la macabra visita. Poi finalmente ci aspetta Monreale.

Il duomo è stato innalzato sulla collina dove solevano andare a caccia i re normanni, nel punto in cui, secondo la leggenda, la Vergine apparve a Ruggero II indicandogli la presenza di un tesoro. E' stato edificato in pochi anni con il lavoro di maestranze cristiane e mussulmane e di artisti bizantini. I mosaici ricoprono le volte e le pareti della chiesa, con drammatiche figurazioni di scene bibliche su di un fondo d'oro, antico vangelo dei semplici e degli illetterati. Una stretta scaletta all'inizio della navata laterale destra porta ad un terrazzino da cui si può dare uno sguardo sul chiostro, ornato da capitelli romanici realisticamente scolpiti che sorreggono la base di archi leggermente lanceolati alla maniera islamica, e da una fonte preziosa che lo rinfresca in un angolo. Dietro alla chiesa l'abside è decorata da un ricamo arabescato. Qui a Monreale la molteplicità culturale del regno normanno si riflette nella molteplicità artistica del duomo, fondendo con esito felice l'arte romanica, islamica e bizantina in un monumento originale.

Rientrando a Palermo non possiamo fare a meno di rimpiangere la brevità del nostro soggiorno, che ci priva del piacere di visitare tanti altri capolavori, e maturiamo il proposito di tornare qui, in futuro, con piu' calma, per conoscere più a fondo questa antica metropoli cosmopolita del mondo mediterraneo. Il pullman passa a fianco della chiesa di S. Giovanni degli Eremiti, dalla cupole rosate come S.Cataldo, e si ferma sulla piazza della cattedrale. Qui nel corpo della chiesa ritroviamo affiancati molti degli stili artistici che sono fioriti a Palermo. Dalla piazza sarebbe bello camminare ancora un po' a piedi fino al nostro albergo, ma è tardi, le strade si van facendo buie e deserte, e alla fine ci tocca rientrare col pullman insieme al resto del gregge.

Domani Marni ci compenserà in parte dei disguidi organizzativi permettendoci di visitare, prima di lasciare definitivamente Palermo, la Cappella Palatina, ricolma di capolavori, vero gioiello dell'arte bizantina del mosaico. Le saremo sempre riconoscenti per questa variazione sul programma.

 

 

ELIMI E GRECI

 

22 Marzo, Lunedì

 

Dopo la visita alla Cappella Palatina partiamo per Segesta. Il tempio inizia a mostrarsi in lontananza, isolato sulla cima di un colle, già diversi minuti prima di giungervi in prossimità; appare, scompare, riappare un po' più grande e più vicino per scomparire di nuovo, fin quando il pullman non si arresta sul piazzale sottostante. Il tempio è nascosto, più dalla conformazione del rilievo che dalla scarsa vegetazione, ma, dopo pochi passi fatti inerpicandosi sulla stradina di accesso lastricata in pietra, ecco che improvvisamente si erge solitario in cima al colle, perfettamente conservato, dritto sulle massicce colonne doriche. Siamo in aperta campagna, immersi nella natura; il cielo è sereno, intensamente azzurro; un paio di corvi svolazzano tra le colonne e sentiamo il canto di uccelli che noi, cittadini, non sappiamo più identificare. Anticamente qui sorgeva una città, oggi sopravvivono solo il tempio e, più lontano, i resti del teatro greco.

Segesta fu fondata verso il 630 a.C. dagli Elimi, popolazione sicula di origine ignota, probabilmente asiatica. Essi si dichiaravano discendenti dei Troiani e fecero prosperare la loro città in piena zona cartaginese. Non sappiamo bene quali fossero i rapporti con i vicini greci e cartaginesi. Il tempio, dorico nonostante la origine asiatica dei suoi costruttori, si discosta in parte dai canoni greci: non c'è traccia del naos interno, la zona riservata alla divinità, né di incavi nell'architrave per reggere eventuali travature del tetto, travature che del resto non avrebbero potuto reggersi, all'epoca, senza il sostegno fornito dalla struttura del naos. Il tempio, dunque, sembra essere solo un peristilio, destinato probabilmente al culto di divinità locali.

Non sappiamo perchè mai gli Elimi abbiano sentito il bisogno di adottare l'arte dei greci: fu forse per ammirazione, o per ingraziarsi i vicini nel desiderio di una alleanza, o forse solo per assimilazione culturale dei modelli greci ? Tutta la città è andata persa, distrutta, con il suo bagaglio di testimonianze. Il tempio rimane, maestoso, e rimane anche il teatro greco, più discreto, nascosto un po' più in là su una altura. E solo dall'alto è possibile intravedere tra la vegetazione le tracce dell' antica città.   

 

 

EROS E NUVOLE

 

La prossima tappa è Erice, a mille metri di altezza, su di un monte che domina l'incontro delle coste settentrionale ed occidentale della Sicilia.  Anticamente sulla sommità del monte sorgeva il santuario di Astarte, la dea della fecondità dei fenici (i greci la chiamarono Afrodite e i romani la chiamarono Venere). Il santuario era famoso in tutto il mondo antico, e molto ricco, grazie alle ierodule, le sacerdotesse, che praticavano la prostituzione sacra. Sulle rovine del santuario venne poi edificato in epoca medioevale un castello, i cui ruderi dominano oggi la rocca. In basso sulla sinistra risplendono illuminate dal sole le saline di Trapani.

Lasciata Afrodite siamo libere di scorrazzare per nostro conto nelle strette stradine medioevali, lastricate a nuovo, e di riposarci infine più in basso nel punto più bello di Erice, la piazza dove sorge la chiesa Matrice. La facciata in pietra è ingentilita da un piccolo rosone romanico; nei lati del piccolo portico innanzi al portale si aprono arcate ogivali; sulla sommità della facciata e dei fianchi si stagliano contro il cielo piccole merlature. La torre campanaria si alza poco più in là, insolitamente separata dal corpo della chiesa.

 

La sera dal terrazzo della nostra camera si distinguono nitidamente le luci di Trapani giù in basso, e il percorso e lo snodarsi delle strade principali: lo spettacolo è talmente bello che restiamo ad ammirarlo diversi minuti prima di rientrare.  Ma quando poco dopo ci riaffacciamo  restiamo di sasso perchè non si vede più nulla, il nostro sguardo si perde in una voragine di buio; infine ci rendiamo conto che una fitta coltre di nubi si è frapposta fra noi e la città e quando l'occhio a poco a poco si abitua alla oscurità, le nubi, illuminate dal basso,  ci appaiono come un manto luminescente che avvolge la città di Trapani. A poco a poco le nuvole si diradano di nuovo e tornano a intravedersi, nella nebbia, le tracce luminose delle vie principali.

Al mattino, quando ci svegliamo, il cielo, assolutamente sereno, è arrossato da bagliori infuocati.

 

 

 

 

UN GIOVANE GRECO TRA I FENICI

 

23 Marzo, Martedì

 

Lasciando Erice diretti verso la costa meridionale si susseguono, prima in basso e poi al nostro fianco, le saline di Trapani e della sua provincia. La produzione del sale è infatti una delle risorse economiche di questa zona. Sul molo donde ci preleva la barca per Mozia osserviamo da vicino queste vasche che potrebbero richiamare alla mente le risaie in Lombardia se non fosse per degli strani capanni che emergono in un lato e che altro non sono che cataste di sale protette fino al pelo dell' acqua da una copertura di tegole.

Mozia è un'antica colonia fenicia, di cui oggi rimane qualche frammento delle mura, un piccolo bacino rettangolare di carenaggio (il cothon), la necropoli, un antico mosaico e diversi reperti degli scavi radunati nel piccolo museo al centro dell' isola. Ci troviamo quasi sulla punta occidentale della Sicilia; se osserviamo la cartina geografica comprendiamo immediatamente l'importanza strategica del sito: perchè l'isoletta di S. Pantaleo, su cui sorge Mozia, si trova al centro di una laguna, chiamata Lo Stagnone, ed è protetta dal mare aperto  dall'Isola Grande, un' isola a forma di L rovesciata che delimita lo spazio della laguna a settentrione e ad occidente. Una terza isoletta, l'isola di S. Maria, stretta e allungata, si interpone come barriera tra l'imbocco dello Stagnone a nord e l'isola di Mozia. L'acqua è talmente poco profonda che a volte con la bassa marea è possibile traversare a guado questo braccio di mare per un lungo tratto, partendo dalla costa siciliana. La conformazione geografica non era molto diversa duemilacinquecento anni or sono: le navi nemiche non potevano avvicinarsi a porre l'assedio alla città senza rimanere incagliate sul fondo dello Stagnone, e Mozia rimase per diversi secoli una colonia imprendibile.

L' escursione a Mozia è piacevole per tanti aspetti: è una giornata tiepida e soleggiata, rinfrescata tuttavia da un filo di vento. Fiori gialli, rosa, azzurri, lilla, rossi fioriscono disordinatamente ai margini del sentiero che segue quasi tutto il perimetro dell' isola, e sui resti delle mura e della necropoli. Sul sentiero in diversi punti si trovano conchigliette affusolate, lunghe non più di un centimetro, testimonianza residua di violente mareggiate. Un ultimo gioiello ci attende al museo: la statua marmorea di un giovane fisicamente perfetto drappeggiato in una tunica aderente, attraverso la quale risalta ancora più viva la precisione dell'esecuzione artistica; le braccia si sono perse, ma l'armonia del corpo resiste inalterata, più forte dello sfregio. Chissà come è arrivata questa statua greca in una casa fenicia? Forse un bottino militare, o un oggetto di commercio, o forse scolpita da un artista greco prigioniero tra i fenici? Quante relazioni, ancora in buona parte ignote, si allacciavano tra le molteplici civiltà del Mediterraneo !

La nostra barca riparte inesorabilmente alla una del pomeriggio. Abbandoniamo Mozia con il cuore che batte e il respiro affannoso, a causa della corsa cui siamo costrette per raggiungere in tempo l'imbarcadero e, come al solito, siamo tra gli ultimi.

 

 

INTERMEZZO

 

Chi legge si chiederà forse il motivo per cui non racconto mai nulla della cucina siciliana. Eppure in genere sono curiosa e cerco sempre di assaggiare i piatti tipici dei paesi che visito. Ma temo che i viaggi organizzati non siano fatti per i piaceri del palato, non fosse altro che per il fatto che il menù è quasi sempre fissato in anticipo e studiato in modo da accontentare un po' tutti. Non c'è scelta né originalità nei nostri pasti, non c'è nulla di particolare o di insolito che io possa ricordare e descrivere, se non forse i grossi aranci tarocchi, gustosissimi e senza semi, che troviamo dovunque.

Lasciata Mozia seguiamo la costa meridionale fino a Marinella di Selinunte, dove ci fermiamo e pranziamo in una trattoria sulla riva del mare. Il padrone è un tipo bruno, sanguigno e piuttosto grasso. Forse non capita tanta gente da queste parti: il ristorante è tutto a nostra disposizione e dunque si festeggia, col padrone che canta e suona la chitarra ad un tavolo vicino. Le arance tarocche arrivano in tavola in abbondanza alla fine del pranzo, tanto che ne approfittiamo per portarcene via un paio per il pomeriggio.

     

 

UN ULIVO SOLITARIO

 

Nell' antichità dovevan essere ben visibili già da lontano, ancora in mare aperto, i numerosi templi dell'acropoli grandiosa di Selinunte,  monito di potenza per eventuali nemici e punto di riferimento per le navi greche. Le rovine si trovano densamente distribuite su tutta un'area molto vasta che abbraccia due colli vicini. Selinunte fu fondata dai Megaresi verso il 650 a.C. e divenne presto una delle più potenti colonie greche del Mediterraneo. Fu distrutta dai Cartaginesi una prima volta nel 409 a.C. e fu definitivamente rasa al suolo da un terremoto 160 anni dopo. Nel secolo scorso vennero ricostruiti alcuni templi rimettendo in piedi, in parte arbitrariamente, i pezzi sparsi sul terreno; non è più possibile sapere a chi essi fossero dedicati e così ora li si identifica con le lettere dell' alfabeto. Marzo è il mese ideale per visitarli: su tutta la vasta area archeologica crescono solo arbusti bassi: è facile immaginare le rovine spazzate da un vento impetuoso in inverno e arroventate dal solleone in estate. Un unico albero di ulivo tutto contorto sorge solitario ad offrire un po' d'ombra all'ingresso del parco, meta contesa di tutti i gruppi turistici. Marni ci racconta con la vivacità consueta le vicende dei Megaresi e dei Cartaginesi, poi siamo libere di aggirarci tra le rovine per oltre un'ora.

 

Ci aspettano ancora diversi chilometri di strada: al nostro fianco sulla sinistra si susseguono alture brulle e scoscese intervallate da coltivazioni di arance; a destra balena a tratti tra i promontori l'azzurro del mare. Infine al tramonto giungiamo ad Agrigento, in tempo per vedere il tempio di Hera, sulla sommità del colle, illuminato dai raggi dorati del sole morente.

Di notte i templi sono ancora ben visibili alla luce dei riflettori. Non ci è consentito purtroppo percorrere a piedi la strada che li fiancheggia e dobbiamo limitarci ad ammirarli dal pullman che gira loro attorno un paio di volte nella strada sottostante, al suono di una cassetta, "Frank Pourcel in Concert", che cercherò più tardi senza successo nei negozi discografici prima di Taormina e poi di Milano.

 

 

ESSERE O APPARIRE

 

24 Marzo, Mercoledì

 

Siamo ad Agrigento, l' antica Akragas: la valle dei templi si apre dolcemente maestosa davanti ai nostri occhi sui colli fuori dell'abitato. Il pullman si ferma in cima al colle più alto, presso il tempio di Hera, e da lì si scende a piedi, di tempio in tempio, a fondo valle, percorrendo una stradina ombreggiata qua e là da alberi di ulivo. Nel muro di pietra a sinistra si aprono per tutto il percorso finestre di forma irregolare, al di là delle quali ci si affaccia sulla valle, mentre in altri punti del muro sono scavati dei fori ciechi: sono i resti della necropoli paleocristiana che trovò anticamente in questa valle silenziosa la sua collocazione ideale.

Di tutti i templi il più ammirato è il tempio della Concordia, del V secolo, che si staglia nitido sullo sfondo del cielo azzurro. E' mirabilmente conservato e anche grazie ad esso possiamo comprendere meglio l'arte dell'antica Grecia. Gli architetti greci mirano alla perfezione, vuoi nell' armonia dell'insieme, vuoi nell'esattezza e nel rigore dei rapporti geometrici. Ma esiste, al di là della perfezione reale concreta, una perfezione ideale astratta cui si ispira la realizzazione dell'opera; ed esiste una percezione dell'opera mediata attraverso i sensi: lo spirito greco, imbevuto di filosofia, è ben cosciente della distinzione tra questi mondi, tra questi livelli diversi di realtà. Paradossalmente proprio l'opera più perfetta, nell'esattezza delle forme e delle proporzioni geometriche, apparirebbe goffa e sproporzionata a causa degli errori introdotti dalla percezione visiva. Ma per gli artisti greci ciò che conta è l'aderenza al modello ideale, la percezione della perfezione al di là della perfezione stessa. Così la costruzione reale deve deformarsi: le linee rette si incurvano e le misure si alterano, affinché possa ricostituirsi dinanzi ai nostri occhi l'immagine ideale costituita da linee rette e rapporti geometrici esatti.

La ricerca della bellezza porta alla creazione di canoni che verranno universalmente accettati: innanzitutto deve esserci armonia nelle relazioni volumetriche dell'insieme: il numero delle colonne laterali deve essere pari al doppio più uno del numero di colonne frontali, in modo che la larghezza appaia adeguata alla profondità. Affinché poi sia giustamente proporzionata anche l'altezza ed il tempio non appaia troppo tozzo o troppo esile, deve essere possibile inscrivere un triangolo equilatero nel rettangolo formato da tre colonne adiacenti. Infine occorre correggere gli errori visivi con diversi artifizi; il primo cui ricorrono gli architetti consiste nella cosidetta "entasis": se osserviamo da vicino lo spazio vuoto tra due colonne appare la sagoma di un' anfora rovesciata; le colonne sono  conformate a botte anziché essere esattamente cilindriche ed hanno a circa un terzo dell'altezza partendo dalla base il punto di massimo diametro, al fine di apparire perfettamente diritte viste da lontano. La base del tempio e l'architrave si incurvano con la convessità verso l'alto, e l'asse delle colonne più esterne converge leggermente verso l'interno. L'ultimo artifizio tecnico è volto a rendere uguali le dimensioni delle metope sul fregio: i triglifi, che scandiscono lo spazio tra le metope, sono collocati in asse sulle colonne e nello spazio tra due colonne adiacenti, ad eccezione dei due triglifi laterali, necessariamente fuori asse in quanto appoggiati al bordo esterno a chiudere il fregio. Ma le due metope laterali in questo modo risulterebbero più larghe: allora gli architetti correggono l'errore diminuendo gradatamente l'interasse delle colonne verso l'esterno: il nostro occhio non riesce a percepire il piccolo errore di distanza tra una colonna e l'altra, e sul fregio metope e triglifi si alternano perfettamente regolari.

Il tempio della Concordia è costruito in tufo, molto sobriamente, ed era originariamente ricoperto di stucco; le colonne scanalate sorgono direttamente dal basamento del tempio, e sono sovrastate da semplici capitelli dorici formati da una tavoletta quadrata, detta abaco, appoggiata su di un echino arrotondato. Le metope sono lisce, scandite da triglifi intagliati con tre semplici nervature verticali. Nelle pareti del naos sono stati successivamente aperti degli archi, ed il tempio è stato utilizzato come chiesa cristiana. Dobbiamo probabilmente a questa circostanza se esso è sopravvissuto agli ordini di distruzione giungendo pressoché intatto fino ai nostri giorni.

Lasciando il tempio della Concordia si scende ancora fino alle rovine del colossale tempio di Giove Olimpico, unico tempio periptero del sito, il cui architrave era sostenuto da giganteschi telamoni.

Fotografiamo il calco di un telamone adagiato sulla destra del tempio e diamo un ultimo sguardo in lontananza ai resti del tempio di Castore e Polluce, giù in fondo alla valle, simbolo di Agrigento.

Gli ultimi frettolosi minuti sono dedicati all'acquisto di cartoline e guide sulle bancarelle. Indi ripartiamo.

 

 

 

L' ARTE DEL MOSAICO

 

Lasciamo ora la costa per puntare verso l'interno della Sicilia, meta Piazza Armerina in provincia di Enna. Il viaggio dopo Caltanissetta diventa un po' un'avventura, perchè incappiamo in una serie di blocchi stradali che ci costringono a tornare indietro e cambiar strada per almeno due volte. Impossibile sapere il motivo dello sciopero, ci restano il disagio e, per un po' di tempo, il timore di dover amputare una parte del programma.

A Piazza Armerina visitiamo la villa Filosofiana del Casale, dimora nel III secolo di un ricco notabile romano. La villa sorge in un sito umido e boscoso, condizione eccezionale nell'arida provincia di Enna. I pavimenti delle numerose stanze sono decorati da una varietà di mosaici di soggetto differente, in tono con la destinazione del locale in cui si trovano. Essi rappresentano temi pagani e mitologici, dalle corse coi carri alle scene di caccia, dalle scene amorose ai motivi geometrici e floreali. L'arte del mosaico scomparirà di lì a breve in Italia e in Sicilia, travolta dalla decadenza generale; sappiamo che sopravviverà ancora nell'Impero Romano di Oriente con capitale Bisanzio. Da lì tornerà  sull'isola diversi secoli più tardi, completamente mutata nell'impianto compositivo e nel contenuto.

 

Lasciata alle spalle anche Piazza Armerina la nostra strada punta ora verso la costa orientale. Attraversiamo Catania: la strada è fiancheggiata da blocchi neri di lava solidificata, residuo di una disastrosa eruzione avvenuta tre secoli or sono. In serata, distrutti dalla stanchezza, arriviamo a Taormina. Dormiremo qui per le ultime tre notti e questo riposo darà al nostro viaggio un ritmo più rilassato.

 

 

IL VALORE DELLA POESIA

 

25 Marzo, Giovedì

 

Oggi è prevista la escursione a Siracusa. Per comprendere bene come questa città, fondata dai Corinzi già alla fine dell'ottavo secolo a.C., abbia potuto diventare una delle metropoli del mondo mediterraneo, osserviamo ancora una volta la carta geografica; la penisola della Maddalena a sud e l'isoletta di Ortigia a nord si protendono l'una verso l'altra delimitando il mare in un grande bacino naturale di forma pressoché ellittica: qui nasce Siracusa, sull' isoletta di Ortigia. E proprio da Ortigia inizia la nostra visita, con una puntata breve e sfortunata alla cattedrale, la prima chiesa della cristianità occidentale della città, incastrata tra le colonne doriche di un preesistente tempio di Atena. Attraversiamo il centro e sostiamo alla fonte Aretusa, che ora purtroppo è un laghetto addomesticato dove tuttavia cresce ancora il papiro; siamo molto a sud (quasi alla latitudine di Tunisi) e secondo la nostra guida solo qui, nei dintorni di Siracusa, il papiro trova il clima caldo di cui necessita. Troviamo infatti papiri a volontà, forse nemmeno siciliani, sulle bancarelle che si affollano all'ingresso della zona archeologica; l'esecuzione dei disegni è grossolana e imita i soggetti dei papiri egiziani. Finalmente vediamo anche, nella confusione, un autentico carretto siciliano tutto dipinto a tinte vivaci in cui dominano il rosso e il giallo. C'è una gran ressa tra le bancarelle, dove è in vendita ogni genere di paccottiglia per turista incolto; noi che ci consideriamo, forse con un po' di presunzione, turisti colti, ci limitiamo all'acquisto di cartoline ed entriamo nel parco archeologico.

Le tappe obbligate sono l'ara di Ierone, talmente grande che vi si potevano sacrificare contemporaneamente un centinaio di buoi, l'anfiteatro romano a pianta ellittica, il teatro greco a semicerchio che sfrutta il pendio naturale della collina volgendosi verso il mare, e naturalmente l'orecchio di Dionisio, profonda fenditura scavata nella roccia, e le latomie, cave di pietra in cui languirono in schiavitù e morirono duemilacinquecento anni fa i prigionieri ateniesi. Narrano che al crudele destino si sottraessero soltanto coloro, tra i prigionieri, che mostrassero di conoscere i versi di Omero, graziati e liberati in omaggio alla poesia.

 

In serata rientriamo a Taormina. Il nucleo più antico dell'abitato sorge in alto sul monte Tauromenio e dall'alto si gode un magnifico panorama su tutto il golfo. E' facile orientarsi, perchè il paese si sviluppa linearmente lungo un'unica strada principale. Il nostro albergo ha una grande terrazza affacciata verso il mare, sulla quale sostiamo dopo cena allietati dalle luci del golfo sottostante.

 

 

UN INFERNO MODERNO

 

26 Marzo, Venerdì

 

Sono le otto del mattino: scendiamo a piedi con calma dall'albergo fino al parcheggio dei pullman all'inizio del paese, guardando le vetrine e fermandoci a prendere un caffè in un barettino minuscolo. Il tempo si è guastato proprio sul più bello e ne verrà in parte rovinata la gita sull'Etna. Infatti salendo col pullman sulle pendici del monte troviamo frequenti banchi di nebbia e quando arriviamo su al rifugio a 2000 metri sta nevicando. E' giocoforza rinunciare all'escursione vicino ai crateri a quota 3000 metri, perchè la funivia è chiusa; intanto che attendiamo davanti all'impianto un vento gelido ci sferza il viso. Il paesaggio è singolare: predomina il colore grigio bruno della roccia nuda, alternato agli strati neri di lava solidificata. Chiazza bianche di neve sono dovunque nei punti più in ombra. Aiutata da un compagno di viaggio abituato alla montagna arrivo fin quasi alla sommità di un largo sperone roccioso che sormonta un cratere conico; il vento è tanto forte che stento a reggermi in piedi. Infine cedo al freddo e raggiungo il rifugio.

 

Rientriamo a Taormina abbastanza presto e ne approfittiamo per visitare meglio il centro storico. Il punto più caratteristico è la piazza della chiesa, che si apre quasi al termine della via principale. La piazza è ornata da una fonte circolare formata da due vasche sovrapposte sorrette da putti marmorei e sovrastata dalla figura di una centaura. Attorno ad essa quattro cavalli sono accovacciati su colonnine sottili che reggono altre quattro vaschette circolari. La chiesa in pietra, di impianto romanico a croce latina, ricorda un piccolo castello, forse a causa delle merlature che guarniscono, come ad Erice, i bordi superiori della facciata e delle navate laterali. Il piccolo rosone della facciata è troppo in alto appena sotto le merlature, e solo il portale di ingresso e due finestre ogivali in corrispondenza delle navate laterali si aprono nel muro massicio. Sul lato opposto della chiesa sale una larga scalinata: percorrendola raggiungiamo in pochi minuti di nuovo al nostro albergo.

 

 

GRECI E ROMANI

 

27 Marzo, Sabato

 

Dedichiamo la mattina alla visita del teatro greco. Una sera magica di tanti anni fa venni qui con alcuni amici a sentire la nona sinfonia di Beethoven. Seduta sulle gradinate tra la folla, ascoltando la musica, potevo intravedere al di là della breccia sullo sfondo le luci del golfo di Taormina, che brillavano come mille lumini nell' oscurità. Oggi, alla luce brillante del sole, si assapora il trionfo del paesaggio mediterraneo, esaltato del sapore salmastro portato dal vento, e dai promontori verdi che si tuffano nel luccichio azzurro dell'acqua. I greci, col loro innato senso artistico, orientarono il loro teatro verso il mare, affinchè si potesse godere insieme dello spettacolo naturale e dello spettacolo umano delle vicende teatrali. All'epoca dei greci il muro di scena, anche se presente, doveva essere di altezza modesta; furono i romani, sprovvisti della sensibiltà artistica dei greci, ad aggiungere uno sfondo di scena alto in muratura, aperto soltanto da due grandi arcate ai lati. Il tempo questa volta ha reso giustizia ai greci, riaprendo quella grande breccia al centro del fondo di scena attraverso la quale possiamo di nuovo godere della visione originaria del golfo.

 

E' arrivato il momento di accomiatarci dalla Sicilia: il treno del ritorno ci preleva poco prima del tramonto. Un paio d'ore più tardi siamo già sullo stretto di Messina; Le carrozze vengono imbarcate nel ponte più basso del traghetto e quando la manovra è finalmente completa possiamo scendere dal treno e salire sul ponte all'aperto, tenendo bene a mente il numero della scala da cui saliamo per il rientro. Non sarebbe più possibile ritrovare il vagone giusto scendendo da una scala differente, poiché il ponte inferiore della nave è diviso in tronconi non comunicanti tra loro.

Quando saliamo sul ponte, all'aria aperta, il sole è già tramontato e le luci delle due coste brillano nel buio le une di fronte alle altre. E' l'ultimo ricordo che possiamo fissare della Sicilia, per i venti minuti della traversata, perchè dobbiamo risalire sul treno prima di entrare nel porto di Villa S. Giovanni.

Domattina alle nove saremo di nuovo a Milano.

 

 

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