Maria  Cristina  Magni

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Tre poesie di Giovanni Pascoli

 

IL GELSOMINO NOTTURNO

 

 

E s’aprono i fiori notturni,

nell’ora che penso ai miei cari.

            Sono apparse in mezzo ai viburni

            Le farfalle crepuscolari.

 

Da un pezzo si tacquero i gridi:

là sola una casa bisbiglia.

            Sotto l’ali dormono i nidi,

            come gli occhi sotto le ciglia.

 

Dai calici aperti si esala

L’odore di fragole rosse.

            Splende un lume là nella sala.

            Nasce l’erba sotto le fosse.

 

Un’ape tardiva sussurra

trovando già prese le celle.

            La Chioccetta per l’aia azzurra

            va col suo pigolio di stelle.

 

Per tutta la notte s’esala

l’odore che passa col vento.

            Passa il lume su per la scala;

            brilla al primo piano: s’è spento …

 

E’ l’alba: si chiudono i petali

un poco gualciti; si cova,

            dentro l’urna molle e segreta,

            non so che felicità nuova.

 


LA MIA SERA

 

 

Il giorno fu pieno di lampi;

ma ora verranno le stelle,

le tacite stelle. Nei campi

c’è un breve gre-gre di ranelle.

Le tremule foglie dei pioppi

trascorre una gioia leggiera.

Nel giorno, che lampi! che scoppi!

            Che pace, la sera!

 

Si devono aprire le stelle

nel cielo si tenero e vivo.

Là, presso le allegre ranelle,

singhiozza monotono un rivo.

Di tutto quel cupo tumulto,

di tutta quell’aspra bufera,

non resta che un dolce singulto

            nell’umida sera.

 

E’, quella infinita tempesta,

finita in un rivo canoro.

Dei fulmini fragili restano

cirri di porpora e d’oro.

O stanco dolore, riposa!

La nube nel giorno più nera

fu quella che vedo più rosa

            nell’ultima sera.

 

Che voli di rondini intorno!

che gridi nell’aria serena!

La fame del povero giorno

prolunga la garrula cena.

La parte, sì piccola, i nidi

nel giorno non l’ebbero intera.

Né io … e che voli, che gridi,

            mia limpida sera!

 

Don… Don… E mi dicono, Dormi!

mi cantano, Dormi! sussurrano,

Dormi! bisbigliano, Dormi!

là, voci di tenebra azzurra …

Mi sembrano canti di culla,

che fanno ch’io torni com’era …

sentivo mia madre … poi nulla …

            sul far della sera.

 

 


L’ORA DI BARGA

 

 

Al mio cantuccio, donde non sento

se non le reste brusir del grano,

il suon dell’ore viene col vento

dal non veduto borgo montano:

suono che uguale, che blando cade,

come una voce che persuade.

 

Tu dici, E’ l’ora! tu dici, E’ tardi,

voce che cadi blanda dal cielo.

Ma un poco ancora lascia che guardi

l’albero, il ragno, l’ape, lo stelo,

cose ch’han molti secoli o un anno

o un’ora, e quelle nubi che vanno.

 

Lasciami immoto qui rimanere

fra tanto moto d’ale e di fronde;

e udire il gallo che da un podere

chiama, e da un altro l’altro risponde,

e, quando altrove l’anima è fissa,

gli strilli di una cincia che rissa.

 

E suona ancora l’ora, e mi manda

prima un suo grido di meraviglia

tinnulo, e quindi con la sua blanda

voce di prima parla e consiglia,

e grave grave grave m’incuora:

mi dice, E’ tardi; mi dice, E’ l’ora.

 

Tu vuoi che pensi dunque al ritorno,

voce che cadi blanda dal cielo!

Ma bello è questo poco di giorno

che mi traluce come da un velo!

Lo so ch’è l’ora, lo so ch’è tardi;

ma un poco ancora lascia che guardi.

 

Lascia che guardi dentro il mio cuore,

lascia ch’io viva del mio passato;

se c’è sul bronco sempre quel fiore,

s’io trovi un bacio che non ho dato!

Nel mio cantuccio d’ombra romita

lascia ch’io pianga sulla mia vita!

 

E suona ancora l’ora, e mi squilla

due volte un grido quasi di cruccio,

e poi, tornata blanda e tranquilla,

mi persuade nel mio cantuccio:

è tardi! è l’ora! Sì, ritorniamo

dove son quelli ch’amano ed amo.

 

 

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