Vincenzo Caporale fanno bella mostra il colorato «Calendario storico della Guardia di Finanza» e quello più austero dei Carabinieri.

«La sera prima della manifestazione del 21 febbraio», racconta, «tenemmo una riunione per decidere se dovevo o meno partecipare: circolavano voci su possibili intimidazioni o provocazioni da parte della polizia e si temeva che queste potessero essere mirate contro di me. Alla fine decisi che sarei andato. Eravamo in 15 mila. Il raduno era a piazza Garibaldi, davanti alla stazione centrale. Il corteo attraversò l’intero corso Umberto, giunse in piazza Municipio per fermarsi in piazza Matteotti. Si protestava contro l’uccisione di Franceschi e contro il fermo di polizia. Non era previsto un comizio finale se non la lettura di qualche comunicato e di una lettera di Mario Capanna. Una prima parte del corteo era già arrivata a destinazione, un’altra stava passando dinanzi alla Questura quando le jeep della polizia iniziarono una serie di caroselli e il lancio di lacrimogeni. Fino ad allora non era successo nulla. A un tratto, la polizia iniziò a caricare e non si limitò a disperdere i manifestanti, ma inseguì gli studenti fin dentro i vicoli dei Quartieri spagnoli. Io stavo a piazza Matteotti. Cercavo di recuperare il servizio d’ordine e di mantenere la calma. Sulla scala della posta centrale io e altri due o tre vedemmo arrivare un gruppetto di quattro o cinque poliziotti e provammo a raggiungere l’ingresso del palazzo, ma fui colpito alle spalle, caddi a terra carponi e mi colpirono alla testa. Persi conoscenza».

UN MANOSCRITTO INCOMPIUTO. In seguito, con l’idea di scrivere un libro sulle sensazioni che si affastellano nella mente di una persona che è stata in coma profondo, Caporale ha più volte cercato di fissare su carta quei momenti. Poi ha desistito e ha gettato il manoscritto.
«Ho un’immagine molto nebulosa dell’interno dell’ufficio postale e il ricordo di un suono molto lungo. Probabilmente qualcuno mi ha tirato dentro, qualcun altro deve aver fermato un automobilista che mi ha trasportato al pronto soccorso. Il rumore forse era quello provocato dalla macchina durante il tragitto. Come medico una spiegazione poi l’ho trovata: si è trattato di un’amnesia retrograda dovuta al trauma cranico. Poco dopo è arrivato mio padre. Il neurochirurgo gli disse che l’unica possibilità di sopravvivenza era di sottopormi a un intervento di decompressione cranica. Le condizioni erano disperate: ero in coma profondo con un elettroencefalogramma quasi piatto. Colpito con il calcio di un moschetto, ho avuto lo sfondamento della base cranica, rottura della dura madre – due episodi rarissimi perfino negli incidenti stradali – ematoma extradurale, contusione e lacerazione del cervelletto e contusione del tronco encefalico. L’intervento sostanzialmente è consistito nell’allargamento di questa breccia ossea per evitare che si potesse determinare un’ipertensione endocranica tale da compromettere ulteriormente un quadro già delicato; poi hanno proceduto alla ripulitura del cervelletto dove c’erano pezzettini di cranio, asportazione di materiale cerebellare – fortunatamente non mi è stato asportato alcun nucleo cerebellare per cui il controllo delle funzioni è rimasto anche se non avevo più né equilibrio né coordinamento, ero atassico insomma. Oggi ho ventiquattro centimetri quadrati di cranio in meno. Ero in respirazione automatica e dalla cartella clinica ho letto che ho avuto anche un arresto cardiaco nelle prime 24 ore, e 48 ore dopo mi fu praticata la tracheotomia».

Qualche lieve miglioramento sembra essere incoraggiante anche se dovranno trascorrere un paio di settimane prima che il giovane studente esca dal coma profondo e poi altre due ancora per vederlo riprendere conoscenza. «Impiegai più di una giornata nel rendermi conto che la persona che stava in quel letto ero io, che io ero Vincenzo Caporale e che Vincenzo Caporale era lo studente che aveva partecipato alla manifestazione. Associare me nel letto immobile alla mia identità e a ciò che era avvenuto fu veramente difficile».
Il ragazzo ha il lato destro paralizzato e non riesce a muovere la testa. I genitori di Vincenzo si danno un gran da fare per ottenere un posto alla riabilitazione dell’ospedale Niguarda di Milano, all’epoca uno dei pochi centri a cui erano annessi sia la rianimazione che la neurochirurgia. «In aprile, con l’ambulanza mi portarono in aeroporto – ero su una sedia a rotelle – e a Milano c’era ad accogliermi l’assessore alla Sanità Carlo Tognoli (il sindaco era Aldo Aniasi). Qualche settimana dopo riuscii a tenermi in piedi con il deambulatore. Alle sei del mattino, alla sveglia nel reparto, mi facevo aiutare dagli infermieri e cominciavo ad andare su e giù per i corridoi fino alle 9 quando apriva la palestra e affrontavo gli esercizi di riabilitazione». Parla pacatemente, l’espressione è seria, ma senza pieghe di sofferenza. La guarigione, col tempo, gli ha disteso il volto. «Facevo progressi e a maggio mi dimisero: pesavo quaranta chili. Andai in convalescenza ad Atena Lucana, il paese d’origine dei miei, in collina, al confine tra il Salernitano e il Potentino, dove restai a lungo. Era un centro molto tranquillo, ma non riuscivo a camminare in strada da solo e non potevo girare la testa: se lo facevo perdevo l’equilibrio e spesso ero assalito da atroci mal di testa che mi hanno tormentato per anni».

La posta centrale di Napoli ospita anche l’emeroteca Tucci, una delle più antiche e fornite. Nell’articolo sulla manifestazione pubblicato in prima pagina dal Mattino il 22 febbraio 1973 vengono riportate le versioni contrastanti rese prima dal vicequestore e poi dal questore. Si dice di un gruppo di manifestanti che si sarebbe avvicinato al vicequestore e ad alcuni agenti rivolgendo loro «slogan offensivi» come «polizia fascista» e che, quindi, «tutto lasciava presupporre che di lì a poco li avrebbero aggrediti». «Si è sentito un colpo di pistola, forse una scacciacani», giura invece il questore, «lo scoppio ha determinato un clima di tensione tra i manifestanti che hanno iniziato una sassaiola contro la polizia a cui gli agenti hanno risposto». Le testimonianze ufficiali sono «diverse e contrastanti», scrive il cronista Ciro Paglia, «ma», aggiunge, «da esse trapela che gli scontri potevano essere evitati». In ospedale, con ferite lacero-contuse da manganello, finisce anche Vincenzo Biancolillo, allora studente ventiquattrenne, oggi medico. Le indagini vengono affidate al sostituto procuratore Italo Ormanni.

«La maggior parte delle testimonianze fu resa spontaneamente», riprende Vincenzo Caporale. «Persone che stavano nell’ufficio postale, ma anche funzionari della Provincia, la cui sede è proprio in piazza Matteotti, si recarono dal giudice per raccontare quanto era accaduto. L’istruttoria fu chiusa con un non luogo a procedere solo perché non era stato identificato l’ignoto agente di pubblica sicurezza che aveva inferto il colpo con il calcio del moschetto. Subito dopo la sentenza, intentai una causa civile contro il ministero dell’Interno per le responsabilità oggettive. Ottenni un risarcimento danni di poche decine di milioni di lire, sufficienti per coprire le spese sostenute dai miei che, tra l’altro, mi avevano seguito a Milano nel periodo della riabilitazione».

LE IDEE RESISTONO. Alla fine del 1974 il movimento studentesco inizia a sfaldarsi, Caporale che ha ripreso gli studi (si laurea in Medicina, si specializza in igiene e prevenzione) lascia il gruppo ma porta avanti le sue idee. Lo fa successivamente anche nell’attività professionale quando, assieme ai colleghi delle guardie mediche, crea un sindacato e firma nel 1980 con il ministro della Sanità Aniasi, il primo contratto di categoria. La tappa più recente di questo percorso lo vede impegnato a realizzare nel 2004 con l’Asl 2 di Salerno il «Day-service», ossia la possibilità di effettuare nello stesso giorno e in una stessa struttura tutti gli esami prescritti da un medico di base al paziente, facendo in modo che la persona venga seguita da un sanitario che verifichi e coordini in tempo reale la necessità e i risultati degli accertamenti. «Non dobbiamo mai perdere di vista le persone, e l’assistenza va continuamente ridisegnata secondo le necessità sociali», dice con un sorriso Vincenzo Caporale, sperimentando così nel Salernitano un modello opposto alla concezione lombarda della corsa all’aumento dell’offerta. Perché la meglio gioventù ha la pellaccia dura...