La principessa Mastina

C'era una volta un re che aveva una figlia e un cane. Questo re era triste e allegro: triste perché tanto sua figlia che il suo cane erano stati malati da piccoli; allegro perché erano creature eccezionali.

Fra i sei e gli otto anni la principessa era stata costretta a letto da una malattia immaginata dai medici di corte. Per procurarsi il favore del re questi gli assicuravano che la figlia aveva solo un grave raffreddore, ma poi -invidiosi l'uno dell'altro- facevano a gara a inventare cure impegnative e rimedi complicati e costosi. Solo quando il suo babbo si stancò di loro e li mandò via la fanciulla fu libera di guarire. Aveva capito che i medici erano maligni e che dicendo di volerla curare l'avevano resa delicata e un po' fragile. E a volte, bambina ancora, aveva un tono duro nella voce e diventava quasi aggressiva quando qualcuno si azzardava a dirle che cosa doveva fare, o anche solo a darle dei consigli. Forse, proprio per i casi sfortunati della sua infanzia, la sua mente era particolarmente viva, fantastica e al tempo stesso concreta. Quando ne ascoltava i ragionamenti, nei quali splendeva una luce di serietà e d'impegno che faceva sperare il meglio, per lei, nell'età adulta, il re si sentiva l'uomo più fortunato del mondo.

Il cane, un bastardo nato da una mastina napoletana con un nobile pedigree e da non si sa quale altro animale, entrato nel canile reale da un grosso strappo della rete metallica, poi scoperto dal giardiniere, era un gigantesco animale dal pelo nero, che dalla nascita aveva una zampa difettosa. Per questo il re, fin dall'inizio, lo aveva preso a benvolere, scoprendo poi che questo cane era una bestia molto particolare: "Gli manca solo la parola. Ma non importa: è talmente intelligente che si fa capire anche senza", soleva dire con soddisfazione. Pur essendo zoppo, riusciva a correre, a modo suo, e ad azzannare con un balzo le quaglie che si nascondevano nei campi di grano. Certo riusciva a prendere solo quelle piccole, che ancora dovevano imparare a salvarsi e si levavano in volo esitando, e andava poi a deporle ai piedi del re, che esclamava: "Ma guardatelo il mio cane guardatelo: sembra proprio un uomo!". Altre volte catturava certe talpette cieche, frugando il terreno con le zampe anteriori in modo quasi umano, con grande divertimento del re. Era libero di andare in giro per tutta la casa e a volte dormiva sotto il letto della principessa, che gli voleva molto bene e giocava spesso con lui. Si teneva pulito, quasi come un gatto, e in genere imparava ogni cosa con straordinaria rapidità. Una volta il figlio del giardiniere reale gli aveva insegnato a fumare una sigaretta dopo pranzo. Un'altra volta lui aveva preso coi denti il rastrello e imitato il giardiniere che lavorava, rastrellando qualche foglia. Contentissimo, il re aveva preso a chiamarlo come il giardiniere, Drago. Quest'ultimo si era un po' offeso. Ma il re era il re, la vita andava avanti, e dopo qualche tempo nessuno ci fece più caso. Il nome rimase.

La regina la teneva presso di sé la figlia dodicenne. Vicino al camino, lei scherzava con il fuoco e si sporcava con la cenere, la mamma le raccontava piano le storie delle donne della famiglia e le insegnava i lavori di casa. Una notte la vecchia balia sentì un respiro pesante nella camera della piccola e vide, socchiudendo la porta, Drago, che era salito sul letto vicino alla padroncina addormentata e la leccava con la sua grossa lingua. La balia trovò la cosa sconveniente e cercò di mandarlo via. Ma Drago ringhiò e la balia ebbe paura. Il giorno dopo raccontò la cosa alla regina, che l'ascoltò con sorpresa e ne parlò al re. Ma questi si mise a ridere. E Drago rimase libero di girare per la casa, con la sua camminata zoppa.

Volgeva la dolce stagione della primavera, e la fanciulla era sempre più bella. Giocava spesso col cane, sotto gli occhi soddisfatti dei genitori. Una domenica che il re si divertiva all'antico gioco di tirare lontano un bastone e di farselo riportare, il bastone cadde lontano da Drago e vicino alla bambina. Lei si chinò, lo prese fra i denti e corse a portarlo ai piedi del babbo. Il re rideva raccogliendo il bastone, ma la mamma la sgridò e le ordinò di non metterlo più in bocca. "Perché?" chiese la bambina con la durezza che le era solita quando riceveva un consiglio che non le andava. La mamma le spiegò che Drago, così intelligente, era pur sempre un cane. La bambina non disse nulla.

Col passare dei mesi i genitori si accorsero che i suoi giochi avevano qualcosa di inconsueto e di stranamente infantile per la sua età. A tavola usava le mani più volentieri delle posate ed era contentissima se le lasciavano leccare il piatto. Andava scalza quando poteva e in camera sua la trovavano a fare i compiti sul tappeto. Detestava le formalità sociali, alle quali la madre voleva pure introdurla, e amava invece accompagnare il padre in campagna. La mamma non si dava pace, e ora anche il babbo rimaneva in silenzio, quando gli riferivano sempre più spesso che la fanciulla prendeva in bocca cose da terra, e andava in giro a quattro zampe, anche quando Drago dormiva o seguiva il re nelle cacce. Una volta la madre la scoprì che rosicchiava un osso che aveva appena preso dalla scodella di Drago, rannicchiata in un cantuccio della cucina. Con un urlo glielo strappò di bocca e cominciò a sgridarla. La piccola la guardava con i grandi occhi, bellissimi e assenti. Finito che ebbe di sgridarla, la madre buttò l'osso nella scodella del cane, ma lei con una mossa fulminea lo riprese al volo e indietreggiò. Allora la madre la colpì sulla testa, cosa che non aveva mai fatto e della quale si pentì subito, e cercò, imbarazzata, di riprendere l'osso. D'improvviso la bambina le addentò il braccio.

Venne spedita in castigo in camera sua e la sera si decise di mettere fine ai suoi giochi con Drago, che fu legato a una catena nella corte, vicino alla casa del giardiniere. Di notte Drago latrava, e tutti lo sentivano.

Lei era diventata scontrosa e intrattabile, e cominciò a comportarsi veramente come un cane. Non mangiava più altro che da una scodella, rannicchiata sotto il tavolino della cucina, trascinando coi denti il cibo per terra. I genitori, preoccupati sempre più seriamente, mandarono di nuovo a chiamare i medici di corte. Questi arrivarono, osservarono, discussero, pronunciarono gravemente una quantità di parole difficili e si sedettero sulle sedie della cucina, attorno al tavolo di sotto il quale la fanciulla, impaurita, non si voleva più muovere. Cercavano di spiegarle che lei non era un cane, che non doveva fare così, che gli esseri umani erano bipedi eretti e via di seguito. Tentarono anche di usare la forza, le diedero delle polpette con una quantità di pasticche che lei non voleva ingoiare, la tirarono per le braccia e per le gambe finché il re, disgustato, li cacciò via. La fanciulla aveva smesso di parlare e si lasciava curare dalle donne di casa, cercando di leccare loro le mani, ma poi tornava sotto il tavolo della cucina e non voleva muoversi.

I giovani principi del circondario le portavano fiori e regali, che lei annusava e lasciava lì. Uno di essi, figlio dell'imperatore di un grande stato confinante e che trattava tutti dall'alto in basso, offeso forse dall'indifferenza con la quale la principessa aveva accolto il suo regalo, un trionfo d' oro, d' argento e d'avorio con scene mitologiche, prese da un piatto sul piano di marmo della cucina una bistecca e gliela tirò. Lei lesta l'addentò al volo, fra le risa dei presenti. Si trovava per caso nella cucina in quel momento il figlio del giardiniere, un ragazzo magro e un po' chiuso, che aveva solo un anno più della fanciulla e al quale il padre aveva messo, per fare onore al suo signore, il nome stesso del re, Luigi. Questi si slanciò con i pugni chiusi sul principe che aveva fatto l'orribile scherzo della bistecca, e solo con difficoltà riuscirono a separarli. Ne nacque uno spiacevole caso diplomatico che solo gli abili ministri di re Luigi misero a tacere. Il figlio del giardiniere fu rimproverato senza troppa convinzione, ma poco dopo venne promosso alfiere, addetto alla principessa-cagna.

Una tristezza amara era caduta sulla casa. Solo Drago continuava, con indifferenza di cane, a trascinare la sua catena e a correre dietro ai polli. Forse avvertiva anche lui confusamente che qualcosa di grave era successo, perché nelle notti di luna non latrava più, ma faceva dei lunghi guaiti. Il re mandava messi a chiamare i sapienti dai regni più lontani. Arrivavano, guardavano, parlavano. Ma nessuno riusciva a trarre di sotto al tavolino la sventurata fanciulla. Alla fine tutti dichiaravano la loro sconfitta, intascavano il compenso pattuito e il rimborso delle spese di viaggio, ma non il premio promesso, e ripartivano verso i paesi dai quali erano venuti, in lunghe carovane che s'incrociavano all'orizzonte con quelle in arrivo: maghi, indovini, sciamani, zingare con gli occhi dipinti, fachiri e domatori di belve, sibille, attori e cinofili, sacerdoti di religioni sconosciute, nani vestiti d'oro, primari di cliniche psichiatriche, barbuti professori delle più rinomate università.

Nella fanciulla ormai si vedeva la donna, ma la sua bellezza in fiore non era motivo di maggior gioia, ma di più cupa costernazione. La vecchia balia la curava amorevolmente, lavandola, pettinandole i lunghi capelli castani, fasciando le unghie che spesso lei si spezzava sulle pietre del pavimento. Il figlio del giardiniere si occupava del suo cibo. Puliva il pavimento e la scodella e le accarezzava la testa. Quando non c'era troppa gente in giro, le diceva piccole parole affettuose, le diceva che l'amava, e di ritornare donna per amor suo. In condizioni normali non lo si sarebbe permesso. Ma ormai tutti consideravano dentro di sé la fanciulla una povera pazza, e nessuno ci faceva gran caso. Lei non sembrava capire. Gradiva le carezze e i giochi che il giovane alfiere si inventava. Questi doveva forzarsi per non scoppiare in lacrime quando riusciva con qualche trucco a produrre in lei una risata quasi umana. Perché l'amava davvero, e sapeva che solo condizioni così strane e sciagurate gli permettevano di esprimere il suo amore. Passava le giornate seduto su una sedia presso il tavolino, allontanandosi solo per nutrire anche Drago, ma piuttosto malvolentieri.

Una sera fu visto confabulare con un vecchio che si faceva vedere di tanto in tanto in paese e che viveva organizzando giochi e divertimenti in occasione delle feste e dei matrimoni. Parlarono brevemente, sotto l'albero dei pettirossi. Poi il giovane prese le mani del vecchio fra le sue e si separarono. Tornato a casa andò dal re, che sedeva solo, nella grande sala del trono, e gli disse "Maestà, chiedo il permesso di provare anch'io". Il re lo guardò incredulo, ma gli voleva bene perché sapeva che era sinceramente affezionato alla loro famiglia. Gli chiese cosa intendeva fare. Il giovane rimase in silenzio, con gli occhi fissi a terra, poi li rialzò e si guardarono per un tratto, alla luce delle candele. "Prova pure, Luigi", disse il re, chiamando il ragazzo con insolita confidenza, e gli nacque il pensiero di chiamarsi Luigi anche lui, e che quella frase sembrava indirizzata tanto al giovane figlio del giardiniere, che tutti giudicavano lunatico e non maturo che a se stesso, un vecchio senza speranze. "Prova anche tu, Luigi", ripeté, cercando di infondere a tutti e due coraggio, con il tono della sua voce.

Luigi trascinò in cucina un tavolo, lo sistemò vicino a quello della fanciulla, vi pose sotto una stuoia e una scodella e vi si accucciò. Si mise a quattro zampe e addentò, non senza un certo disgusto, un osso che aveva messo nella scodella. Dopo che ebbe mangiato un poco, alzò gli occhi e vide la fanciulla che lo guardava. Tacque e si mise a dormire coricandosi su un fianco. La mattina dopo si era sparsa la notizia per la casa, la gente andava a vedere il secondo uomo-cane, alcuni protestavano che così invece di un problema ce n'erano due, e gli invidiosi si dicevano a bassa voce l'un l'altro che l'alfiere aveva trovato un modo per mettersi in mostra e alla pari con la figlia del re. Si sprecavano fantasiose malignità. Accorse il giardiniere, chiamando il figlio per certi lavori di cui aveva bisogno, lo rimproverò e cercò di tirarlo via per un braccio. Il giovane reagì ringhiando. Alla fine il re mandò via tutti d'autorità. La ragazza sembrava non farci caso, e, come un cane, restava indifferente a tutto.

Dopo molti giorni Luigi tirò fuori da sotto la sua stuoia una forchetta e mangiò con quella. Quando ebbe finito, la ragazza prese in mano la forchetta, ma poi la buttò via. Questo fatto fu riportato subito al re, che venne personalmente in cucina a vedere. Ma trovò i due intenti a mangiare rumorosamente, proprio come due cani affamati, e se ne andò via senza dire nulla. Passavano le settimane e i mesi. Verso la fine dell'autunno Luigi tirò fuori una matita e un foglio di carta e si mise a scrivere. Questa volta la ragazza era incuriosita. Lui scrisse un poco, poi rimise il foglio sotto la stuoia e si buttò a dormire. Il giorno dopo fece lo stesso. Di nuovo la ragazza lo guardò attenta. Si avvicinò e da dietro diede un'occhiata al foglio.

"Che cosa stai scrivendo?, chiese.

"Cose da cani, rispose il giovane. Ma poi se vuoi te le leggo."

Nella cucina si era fatto un silenzio improvviso. Le donne si guardavano tenendosi una mano sulla guancia e non dicevano nulla. Per la prima volta dopo undici anni avevano sentito la voce della loro principessa, che non aveva nulla di canino, ma era franca, allegra, melodiosa. Più tardi il giovane finì di scrivere e tese i fogli alla fanciulla. E lei cominciò a leggere, con vera voce di donna: "C'era una volta un re, che era triste ed allegro...". Intanto tutti erano accorsi alle porte della cucina e guardavano la scena in silenzio. Ma per quel giorno la cosa finì presto: Luigi aveva scritto solo qualche riga. Giunta la notte si buttarono a dormire sulle loro stuoie. La mattina dopo, per riprendere le loro normali attività, tutti gli abitanti della casa aspettarono silenziosi la fine del loro sonno.

Trascorsero anni dormendo sulle stuoie, mangiando carne cruda, abbaiando. Ogni tanto si dicevano qualcosa, e ogni cosa veniva riportata al re e annotata accuratamente dallo scrivano reale su un libro che egli teneva nel suo studio. La sera sfogliava per ore le poche pagine scritte e le molte rimaste bianche. Un giorno, sul declinare della loro giovinezza, l'alfiere si fece portare un paio di scarpe e cominciò a mettersele ai piedi.

"E cosa sono quelle?, chiese lei.

-Scarpe, rispose Luigi, servono a camminare diritti. Da diritti si vedono molte più cose".

La vecchia balia, pronta, si sfilò le pantofole e le spinse accanto alla sua bambina con il movimento quasi impercettibile di una gamba. Lei se le mise ai piedi con un leggero imbarazzo, poi uscì da sotto il tavolo e per la prima volta, dopo tanto tempo, si levò in piedi.

"Bello, disse, e girò lo sguardo su tutti i presenti. Ma voi, mamma, babbo, balia, giardiniere, perché piangete? E tu, Luigi, perché piangi? E Drago, dov'é?".

Tutti la osservarono uscire leggera verso il vecchio compagno di giochi. Il re si sorprese a desiderare che il suo cane fosse morto. Drago, ormai cieco, dormiva nel cortile e la notte sotto le stelle si sentiva il suo respiro pesante. Di giorno rimaneva legato alla sua grossa catena, assicurata con un anello di ferro ad un tozzo ceppo di legno piantato in terra. Drago passava le giornate appoggiandosi ad esso e l'aveva rozzamente arrotondato mordendolo con i suoi denti ancora forti, con i quali riusciva ancora a spezzare le ossa che trovava nella sua ciotola, facendo degli strani rumori e spargendone frammenti tutt'intorno.

"Drago, Drago, mi riconosci?" disse la principessa accarezzandogli la testa. E Drago emise un guaito lungo, cercando ora qua ora là con i suoi occhi privi di sguardo.

"E' cieco Drago, non vede più, ma la riconosce, principessa" balbettò Luigi, contento tutto sommato di aver accudito quella bestia, alla quale la principessa mostrava di essere ancora così affezionata.

All'udire la voce di Luigi Drago guaì più forte, quasi abbaiò, con un rantolo sordo dei suoi vecchi polmoni, che tutti interpretarono come ennesima conferma della perspicacia dell'animale.

"Abbine sempre cura, Luigi", disse la principessa, e prendendo il braccio che sua madre le offriva si avviò su per le scale del palazzo. Il tono della sua voce era oramai sicuro, la sua bellezza piena, i modi degni di lei. Luigi abbassò gli occhi e quelli di casa cominciarono a ripetersi l'un l'altro, sulle prime con esattezza, poi ognuno limitando il racconto ai particolari più consoni al proprio carattere, la storia delle due metamorfosi della loro sovrana.

Presto arrivarono offerte di matrimonio dai principi ancora scapoli del circondario e la scelta cadde su di uno di essi, un giovane mite che andò ad abitare nella reggia con la principessa e al quale il re affidò la conduzione dello stato.

Una mattina Luigi, che continuava personalmente ad occuparsi di Drago, trovò alcuni anelli della catena spezzati -pareva- dai denti del vecchio cane, che era scomparso. Lo cercarono inutilmente per qualche mese, seguendo tracce che parevano le sue e interrogando i contadini che assicuravano di averlo visto correre in qualche bosco, o giuravano di averne riconosciuto l'ululato, in una notte di luna piena. Così Drago entrò nella leggenda. Le mamme se ne servivano per spaventare le figlie, quando volevano che rientrassero a casa presto. Le bambine si racontavano in segreto storie completamente inventate, in cui Drago era sempre il protagonista.

La vita era tornata normale. Talvolta il re tirava fuori dal suo cassetto il libro con le prime frasi pronunciate da sua figlia e lo teneva senza aprirlo sulle ginocchia, mentre aspettava che si facesse notte seduto nel suo giardino. Luigi aveva avuto compiti di responsabilità. Dopo la morte del padre e la scomparsa di Drago era diventato ministro. La principessa osservava allo specchio le prime rughe formatesi attorno agli occhi e pensava all'educazione dei suoi due bambini.

La giovinezza svanisce, come un leggero velo di nebbia.