Siviglia

Roma, 4 marzo 1991

Arabi, cristiani ed ebrei non si sono sempre fatti la guerra. Essi si sono amati, fino a sentirsi sul punto di generare un nuovo credo, intreccio superiore delle loro tre religioni. Gli antichi cabalisti, i saggi andalusi del Medioevo, le menti più vive del Rinascimento proclamarono con fierezza ed entusiasmo questo superamento meta ultima dei loro sforzi, ciascuno cercando gli altri nel proprio testo sacro. Dopo le recenti tempeste atlantiche, non è forse inutile lanciare la rete nelle acque limacciose dell'incomprensione, nel tentativo di pescare qualche motivo di ottimismo.

L'occasione è offerta dall' Esposizione Universale del '92, che acquista uno spessore proporzionale alla storia della città che la ospiterà, Siviglia, e della regione di cui è capoluogo: l'Andalusia. E' qui che i credenti in un dio unico rivelato nei libri si sono dichiarati per la prima volta il loro reciproco amore. E' anche da qui che prese avvio l'epopea americana. Il titolo della manifestazione, "El Descubrimiento", trae spunto dal quinto centenario della scoperta delle "Indie".

Nelle ruspanti polemiche nostrane attorno all'Expo a Venezia, Siviglia sembrava una soluzione di ripiego offerta dalla coincidenza delle celebrazioni colombiane. E' dunque con lieve e piacevole sorpresa che chi scrive, senza aver potuto disporre in precedenza di altra fonte di informazione che la stampa italiana, si è trovato a visitare, nel capoluogo andaluso, il gigantesco cantiere avviato da oltre quattro anni per costruirne le strutture.

La vasta plaga acquitrinosa destinata ad ospitare i padiglioni verrà bonificata con la deviazione di un fiume: un'opera del genere di quelle che suscitano, come si conviene all'occasione, meraviglia per le capacità dell'uomo. Le esposizioni universali sono il rito celebrativo ufficiale di questa capacità. Produzione e commercio se ne pretendono espressione.

Ma "universale" è un concetto più appropriato in ambito teologico che associato ad "Esposizione". Le insegne del positivismo trionfante innalzate sul labirinto delle merci riescono sempre meno a distogliere l'attenzione dalle ambiguità del mito che vi è nascosto, anche in seguito alle recenti atrocità, risultati di produzione e commercio di quanto l'uomo ha potuto concepire di più brutale: le armi.

Per i pagani è un miracolo ogni prodigio naturale. Il progresso riesce invece meraviglioso e genericamente rassicurante solo in seguito al fatto di essere stato previsto. Miracoloso, nelle nostre religioni rivelate, è precisamente questo avverarsi di una profezia: un formidabile strumento per corroborare la fede. Non importa infatti se poi si verificano anche avvenimenti di segno del tutto opposto.

Applicata in ambiti diversi da quelli originari, questa dialettica fra profezia e miracolo può generare comportamenti quanto mai perniciosi. Per decenni, la fede di massa nelle profezie di "magnifiche sorti e progressive" ha cercato, trovato e propagandato con ammirazione bigotta solo le conferme di cui aveva bisogno.Un esempio attualissimo di questo fenomeno è la censura militare: le migliaia di vittime dell' orrenda guerra sono un "dettaglio" non contemplato dalla profezia di una grande vittoria, chirurgica o di popolo, su qualcosa che, non per caso, viene da una parte e dall'altra rappresentato come il demonio.

Un "dettaglio" gigantesco e omicida, come l'immagine terrificante della montagna con la quale la visionaria religiosità medievale di Dante voleva mettere in guardia dalle avventure della ragione sul mare di una verità non rivelata, simboleggiate nel personaggio di Ulisse.

"Dalla man destra mi lasciai SibiliaÉ", racconta l'eroe greco, caro a noi moderni, da cinque secoli nel "folle volo" verso l'imprevedibile, per la suo appello contro la brutalità, che non possiamo non condividere. Non c'è nulla di più laico e meno bigotto di una scoperta. Colombo non previde l'America, la ipotizzò sulla base di un ragionamento, e si sbagliò tanto che la chiamò India.

"Sibilia" è più vicino al nome arabo della città, Ashbilyah, del nostro "Siviglia", che deriva dallo spagnolo. A parlare a Dante della capitale dell'Andalusia strappata da poco al dominio musulmano fu forse Brunetto Latini, che vi aveva soggiornato, fra altri intellettuali, alla corte illuminata di re Alfonso X il Saggio, il re cristiano che aveva sognato di realizzarvi in concreto la repubblica di Platone.

I bagliori che annunciarono il Rinascimento ai secoli bui dell'Occidente cristiano si possono far risalire alla sfolgorante stagione intellettuale animata nel medioevo dagli arabi, padroni di quasi tutto il mediterraneo. I riferimenti a loro sono vigorosi nella Commedia. Averroé, autore del "gran comento" di Aristotele, decisivo per il destino della cultura Occidentale, è posto da Dante, insieme al Saladino, fra gli "spiriti magni" non battezzati del limbo.

Oggi a Siviglia questo antico splendore si avverte ancora, nei monumenti arabi più celebri come l'Alcazar e la Giralda e in quelli costruiti dai cristiani, che continuarono, dopo la Reconquista, a risentire della cultura precedente, nell'arredamento, nel cibo, nelle emozioni. La splendida cattedrale gotica di Siviglia è sostenuta ancora dalle fondamenta della moschea che venne demolita per farle posto.

Lo scandaglio più classico per le acque profonde della nostra cultura, il teatro, è anche l'unica espressione culturale che partecipa a buon diritto della natura religiosa del rito come di quella laica e razionale dell'esperimento scientifico. Esso presenta infatti un mito del tutto particolare: l'"imprevedibile". Nel teatro le aspirazioni universalistiche dell'EXPO trovano quindi l' espressione forse più adeguata. Maurizio Scaparro, al quale ne è affidata la direzione, raccoglierà qui, in 176 giorni e in 21 strutture sceniche delle quali 17 di nuova costruzione, i fiori dello spettacolo occidentale, da Bergman a Brook, a Strehler, a Gassmann.

I due personaggi-chiave proposti dal regista italiano ai teatranti invitati sono Don Chisciotte e Don Giovanni. Nel primo, che non distingue fra credere e vivere, è stato autorevolmente ravvisato Sant'Ignazio da Loyola, uno dei fondatori del cristianesimo spagnolo. Il secondo ne è una smentita, tanto più inquietante quanto si avverte che il Burlador de Sevilla si considera del tutto innocente e oppone ai circostanti una sua propria e solidissima scala di valori. Affascinati da questa, soffermiamoci da ultimo su di lui.

"Le anime particolari, sedotte dal mondo ingannatore della Natura, in cui vivono, seguirono questa nella sua ribellione contro l'Anima e l'Intelletto, e si inclinarono ai piaceri sensuali del mangiare saporito, della bevanda gradevole, dei vestiti delicati, della visione della bellezza fisica e del piacere venereo, dimenticandosi dello splendore, della bellezza e perfezione spirituale, psichica e intellettuale, proprie dell'essenza", recita un testo della scuola di Abenmasarra, un mistico mussulmano che aveva costruito il suo eremo nella sierra andalusa. Come non ricordare a queste parole il "barbaro" appetito di Don Giovanni, il marzemino, i fagiani, il suo cuoco eccellente? E, sopratutto, la sua incostanza in amore, sua caratteristica tanto essenziale, quanto unanime è il proclama della sua dannazione?

Ancora: Il mio cuore può prendere qualunque forma: è un prato per gazzelle ed un convento per i monaci cristiani", dice il murciano Ibn 'Arabi. Nella sua lingua qalb significa cuore e qalaba cambiare. Con la inclinazione ai piaceri concreti, anche l' instabilità degli affetti, trova a sua difesa, a fianco di Don Giovanni, un altro tipico personaggio andaluso: Carmen. Esca di terribili alchimie di sangue e di morte -tipiche, anche e non a caso, della Sicilia, la regione italiana dove gli arabi hanno lasciato i segni più profondi- e avvio al naufragio delle anime che le si avvicinano sprovvedute.

L'incostanza è un motivo tipico del cuore arabo. Esso sfugge così alla rete di Pietro. Ma in sé è senza colpa, assolutamente senza colpa.


©Francesco Sforza