Finalmente a Vicenza

Sipario", n.496, 3 gen 90 

Ho fornito di fare questo benedetto theatro, nel quale ho fatto la penitentia de quanti peccati ho fatto e sono per fare", brontolava un padovano, noto esperto di classicità, incaricato verso la seconda metà del Cinquecento di fare a Venezia, per una recita dell'"Antigono" data dalla Compagnia degli Accesi, un "mezzo teatro di legname a uso di Colosseo". Sapendo che il teatro fu giudicato "magnifico", che era decorato con pitture di Federico Zuccari e che l'architetto si chiamava Andrea Palladio, si può essere inclini a un risentimento romantico nei confronti dei gesuiti che -pare- lo incendiarono. Ma se fosse rimasto in piedi?

45 anni

La fatale notte del 14 maggio 1944 i due teatri principali di Vicenza, il neoclassico Eretenio e il Verdi, un politeama realizzato nel 1923 dalla amministrazione socialista, che sorgevano vicino alla stazione ferroviaria, crollarono sotto un bombardamento. Smontato e nascosto in una villa del circondario si salvò l' Olimpico, ideato da Palladio ma realizzato postumo dal figlio Silla e finito dallo Scamozzi con le famose prospettive. Quando rividero il famoso teatro rimontato al suo posto, accademici olimpici e barbuti storici dell'architettura tirarono un sospiro di sollievo. Ma da allora tutti i tentativi di far rinascere un teatro vero a Vicenza si sono risolti in aborti.

Il caso non ha in sé nulla di eccezionale. Un numero considerevole di teatri distrutti non viene ricostruito dopo la guerra. "Il cinema è l'arma più forte". Negli anni del dopoguerra Orazio Costa Giovangigli e Luigi Piccinato, dall' Accademia Nazionale di Arte Drammatica di Roma, fecero presente "ai competenti ministeri" il problema, Sipario e altre riviste dedicarono ad esso alcune pagine; senza risultati. Non a caso l'episodio di ricostruzione più importante fu il Regio di Torino, non caduto in guerra ma andato in fiamme nel '36. In una Italia frastornata dal disastro bellico si preferivano opere con carattere di necessità: case, scuole, ospedali.

D'altra parte la riproducibilità tecnica -radio, cinema e più tardi TV- aveva sconvolto come una specie di terremoto le abitudini articolate e spesso paradossali del teatro "all'antica italiana". Per i superstiti di questa famiglia un tempo grande, ricca e blasonata, ridotti a pochi entusiasti facilmente malati di un complesso d'inferiorità nei confronti dei nuovi media, gli edifici teatrali interi ricevuti in eredità erano anche troppi. Così le luci si spegnevano, i sipari calavano per l'ultima volta e i comici lasciavano il posto ad attività più lucrative: cinema, uffici, supermercati. Cominciava la nottata della drammaturgìa, oggi nerissima.

Con la sua grandiosa frons scenae ornata dallo spettacolo classicista delle statue di stucco degli accademici trionfava a Vicenza l'Olimpico, aulico ed elitario, come le tragedie di esercizio retorico del Cinquecento per le quali era nato. Severo, con il teatro, come un maestro pedante con un allievo vivace: non sono consentiti l'allestimento dei normali spettacoli di giro né il rito sociale di origine ottocentesca e ancora gradito ai borghesi. I registi ci si sentono in gabbia e provano gesti dissacratori non sempre di buon gusto, all'esatto opposto degli eruditi, che ci si sentono a casa loro e fanno volentieri la loro parte. Oggi l'esistenza di questa prodigiosa reliquia del Cinquecento, generosa sorgente "naturale" di studi eruditi, è salvaguardata da un regolamento ricco di divieti assoluti di fare questo e quello. Ma un teatro vero è l'esatto opposto di un museo: in esso ci sono molte cose paradossali, ma certo nulla di sacro, né di assoluto.

L'onda d'oro

In Veneto quarant'anni fa c'erano pochi ricchi e tanti poveri. "Nel Rinascimento e nell'Ottocento si costruivano teatri -osserva Sabino Acquaviva, sociologo- nel dopoguerra chimere, come quella della città di Palladio e dell'Olimpico. Quando si arriva al nodo di questo cordone ombelicale che lei stessa si è costruita e che è stato l'aspetto immaginario della sua crescita economica del dopoguerra, le resistenze si fanno troppo forti, e ogni più piccolo dettaglio diventa soprasignificante. L'inesistenza di un teatro è il simbolo della incapacità di questa cultura di fare attivamente i conti con il proprio passato. Anche se, come Vicenza, si é adulti, ormai". Un benessere economico capitato "fra coppa e collo ... come una piacevole legnata che ci ha fatto perdere l'orientamento..." (Meneghello) oggi viene ostentato dai figli tanto più volentieri quanto ai padri appariva inconcepibile.

Le fanciulle che, a partire dagli anni '60, si iscrivono sempre più numerose alle scuole di danza sognano la famiglia o la professione: mogli, donne manager, architette. Teatranti vicentini si contano sulla punta delle dita di una mano. La città di cui l'Olimpico è simbolo resta parsimoniosa, in termini umani, con il teatro. "Una forma di endogamia: l'eros viene mantenuto all'interno del gruppo. All'esterno una disposizione discorsiva e cicalante, paga di non far nulla. Parise, Piovene, Meneghello sono andati via. Il caso di Neri Pozza è l'eccezione che conferma la regola: chi potrà raccogliere il suo lascito intellettuale? -si chiede Ferdinando Camon, saggista e romanziere- Nessuno lo sa. E i vicentini sono contenti di questo immobilismo. I giovani hanno i loro ritrovi, dove andare a reiterare le chiacchiere dei genitori. E tanto basta".

"Mancanza di coraggio?"

Chiacchiere, tante. "Basta -sbottò una volta Fernando Bandini, poeta- io del teatro non parlerò più finché muoio. Tanto si sa che andrà a finire male. E' una psicomachia, una battaglia fra entità celesti". Nel piccolo fiume che lambisce i piedi dell'Olimpico, il Bacchiglione, vanno a finire tre concorsi d'architettura, due dozzine di progetti, due dei quali arrivati a scala esecutiva, uno alle macchine pronte. Cadono architetti famosi e diversi. La vigorosa sintesi formale del veneto Carlo Scarpa, l'occhio urbanistico di Oscar Niemeyer, l'autore di Brasilia, lo squadrato rigore di Ignazio Gardella. Quarantacinque anni di tentativi infruttuosi hanno diffuso un certo scetticismo fra la gente ed esacerbato gli entusiasti. "Mancanza di coraggio?" è la distaccata e un pò triste domanda di Giorgio Sala, sindaco dal '63 al '75, deciso quant'altri mai a condurre a termine l'impresa e animatore nel 1968 del più interessante concorso di architettura teatrale italiano contemporaneo (tutti i progetti presentati furono definiti "eccellenti" da Giulio Carlo Argan).

Ma "un teatro è un edificio banale"(Luzzati). Diversi commissari di questo concorso sentono il bisogno di inserire nel proprio giudizio una breve dichiarazione di cosa vada inteso per "teatro". La sua banalità rende la sirena del teatro, nel mare dell'architettura, attraente e insidiosa. La costruzione del luogo deputato all'imprevedibile, ma per antonomasia comune, pubblico, di tutti i cittadini (banale, in senso etimologico), è anche l'occasione di verificare il vigore polemico di qualsiasi argomento civile. Da quando esistono, i progetti di teatri e i loro autori sono oggetto di discussioni, maldicenze, panegirici e motteggi, duelli dialettici, attacchi e difese e peggio, neanche fossero belle donne. A Bologna, alla fine del Settecento, Antonio Bibiena, architetto del Comunale, venne ridotto "in verissimo pericolo d'impazzire". I due autori dell'Opera di Vienna, nel secolo scorso, finirono addirittura col suicidarsi. A Vicenza soggetti privati e pubblici vedono nel teatro mancante l'occasione propizia: di realizzare i propri fini, siano essi la sede di un istituto assicurativo o la raccolta di consenso di una nuova amministrazione; oppure di pronunciarsi in critiche di ogni tipo sui progetti presentati.
 

Teatri "all'italiana", "all'europea" e "alla vicentina"

Edipo a Colono, Ifigenia in Tauride, Le Troiane. La frequenza delle determinazioni di luogo nei titoli delle tragedie testimonia il nesso originario della drammaturgìa con il démone del luogo. L'irrevocabilità, che colora di una forte tinta tragica le decisioni dei suoi artefici, gli architetti, rende difficoltoso il dialogo fra questi e gli attori, i comici abituati a viaggiare e "vittime del loro spirito di adattamento". Appena cerchi di impegnarli su questioni precise, questa gente si disperde", si lamenta non del tutto a torto Pietro Gambacciani, architetto della nuova sede dello Stabile di Genova. Non resta che seguirne le tracce.

Ecco dunque anche i progettisti mettersi in viaggio, a prendere le misure dei teatri moderni in Francia, Inghilterra e Germania. La necessità di realizzare un edificio capace di stabilire un rapporto vivo con la gente e il carattere del luogo è all'esatto opposto di quella di rifarsi a dei modelli (la tipologia teatrale tende naturalmente a standardizzarsi). Riflettendo su "come" bisogna costruire un teatro e trovandosi di fronte alla questione cruciale di "cosa" fare, o non fare, in esso, gli architetti ricorrono volentieri all'ideologia. Ma teorizzazioni e precetti, passando dalla fredda scorza esterna dell'edificio al frutto incandescente del palcoscenico, sfumano in critica: dei palchetti, prima "immorali", poi "classisti"; delle barcacce e del proscenio, spazi di quell'ambiguità caratteristica del luogo -vero bersaglio delle polemiche- della quale viene invocata la soppressione, spesso in nome del pericolo d'incendio (reale). Di fronte al palcoscenico, trono dell'ambiguità, l'ideologia rivela la sua vera funzione: prospettando solo problemi dei quali conosce le soluzioni affermare necessità e limiti della presenza dei suoi autori: gli architetti, appunto.

Da qualche anno anche in Italia i teatri -in quanto edifici- sono sempre più spesso alla ribalta. Fra i gruppi teatrali ce ne sono alcuni in cui predomina l'interesse privato, che anelano a una libertá da ogni limite, anche fisico, e altri che tendono ad istituzionalizzarsi, radicandosi in un luogo preciso. Nella famosa circolare annuale che adombra la legge sulla prosa che tutti invocano ma nessuno sa scrivere, per individuare i teatri in grado di offrire garanzie credibili circa l'uso del cosidetto "denaro pubblico" si sono affermati criteri di ordine architettonico, come la disponibilità di sale con un determinato numero di posti, di spazi di lavoro adeguati e muniti delle autorizzazioni di legge, la collocazione urbanistica. Regioni e provincie comissionano studi storici e e attualistici sui teatri esistenti; a Bologna, a Cattolica , a Forlì, a Genova e altrove sono stati fatti concorsi e aperti cantieri. Vicenza ricomincia da zero.

Arrivando col treno si attraversa dapprima in un magnifico parco ricco di alberi, dove sorgevano a ridosso del centro i teatri distrutti. Le compagnie vanno al Roma, un cinemateatro degli anni '50 con circa 1200 posti. Nomi come Melato, Morlacchi, Proclemer, Valeria Valeri, Bartoli, Ferrari, Gallavotti, Zernitz; Calenda, De Bosio, Missiroli, Sepe e altri, di primo piano che non citiamo per brevità. Però, anche se il pubblico affolla gli spettacoli la piazza di Vicenza continua, fra gli addetti ai lavori, ad essere considerata secondaria. Si rimane allora un pò sorpresi quando i responsabili della F.I.T.A. (Federazione Italiana Teatro Amatoriale) annunciano il primato nazionale delle filodrammatiche del Veneto (oltre 100 gruppi), e di quello regionale del vicentino (33 gruppi). Nella seconda sede teatrale, il piccolo cinema Astra, si programma teatro comico di tradizione, ma anche per ragazzi e sperimentale. Inconsuetamente, esso è affidato non a un'associazione, ma una famiglia di comici, i Carrara, il cui albero genealogico ha radici profonde nel secolo scorso. Ora -in seguito all'offerta di una sede fisica da parte della amministrazione- questi eredi diretti del mondo scomparso del teatro "all'antica italiana" hanno smesso di viaggiare. In quello stesso mondo, le filodrammatiche avevano la funzione di "palestre" delle giovani vocazioni, oggi svolta in maniera piuttosto ridicola dalle "cantine" romane e dai loro epigoni provinciali. Si avverte un contrasto di sapori tradizionali e innovativi, di marca tipicamente vicentina.

"Ricucire". Un'ipotesi

Oltre che dal punto di vista legislativo ricordato più sopra, le decisioni d'architettura sono essenziali, nei loro più piccoli dettagli, anche per la pratica di una disciplina artistica oggi in condizioni di darsi "solo per imposizione dall'alto" (Ronconi): la forma di un luogo vivo, nel quale si possano coagulare le forze fresche, è evidentemente molto diversa da quella di un teatro destinato alla semplice ospitalità di compagnie di giro, come è nella tradizione italiana più recente.

Il nuovo teatro è affidato a un architetto che oggi e non solo sulla scena italiana è considerato uno dei migliori: Gino Valle, di Udine. Vi si accederà da due piazze a livelli differenti, inserite in un vasto intervento subito fuori dei limiti orientali del centro. Secondo la tendenza che i critici più attenti definiscono "urbanistica della terza generazione" (interventi finalizzati non alla crescita ma alla riqualificazione dell'esistente) lo spettacolo è solo una delle diverse funzioni -commerciali, direzionali e residenziali- previste. Il loro equilibrio programmato può risolvere molti problemi, come quello dei parcheggi, posti dagli altri progetti, isolati in un contesto fortemente caratterizzato.

Un requisito architettonico della centralità artistica dell'attività teatrale, espressa all'interno dal termine polyvalence, era, nelle Maisons de la Culture, la presenza all'esterno di funzioni diverse, nell'ambito di quelle che allora erano considerate "artistiche" o genericamente culturali. Ma la "banalità", nel senso accennato qui sopra, caratteristica del luogo rende virtualmente proficua la presenza di molte altre funzioni. Non è chi non veda l'utilità dell'associazione della funzione teatrale a quella -ad esempio- alberghiera. Il carattere di "ricucitura urbanistica" dell'intervento, più volte dichiarato da Valle, trova nel teatro un terreno forse propizio. Per quanto riguarda l'organizzazione degli spazi interni, Valle ha preso a modello il teatro di Stoccarda. La tradizione tedesca vuole ogni teatro di una certa importanza capace di accogliere tutti i momenti della produzione, gli opus differenti dei quali si compone l'opera drammatica. Un primo confronto con le realtà locali ha portato a una riduzione della cubatura.

Saranno famosi

Un buon teatro è un posto in cui soggetti diversi sono liberi di recarsi, incontrarsi, conoscersi, concepire e sviluppare realtà sempre nuove, impreviste e imprevedibili. Avvicinandosi a quest'evento "ontologico"(Fersen) ogni singola entità culturale scopre le proprie regole "fisiologiche", a volte i propri paradossi, e ne rende le altre partecipi. Si avanza qui un'ipotesi all'opposto, sia teorico che pratico, della persistenza del nucleo artistico che caratterizza i teatri stabili. "Il concetto di stabilità artistica è quanto di più incongruo con la creatività si possa immaginare. Va benissimo invece se 'stabile' è un apparato burocratico e tecnico ridotto all'indispensabile" sostiene Alfonso Spadoni, già ideatore a Firenze della "Rassegna dei Teatri Stabili" e oggi direttore del teatro Della Pergola, uno dei modelli della struttura architettonica "all'italiana", in attività ininterrotta dalla sua fondazione, oltre trecento anni fa.

Lo spettacolo è soltanto un punto di arrivo delle prove e ogni replica è una sua prova ulteriore. Quelli che frequentano filodrammatiche o scuole di teatro e sognano di darsi all'Arte cercano come possono l'occasione di assistere al lavoro di preparazione, del quale i professionisti, da parte loro, sono piuttosto gelosi. Mutatis mutandis, cioé gli allievi in attori, neanche fra attività didattica e prove esiste soluzione di continuità. Una struttura dotata del giusto "tasso di ambiguità" può raccogliere attività diverse legate alla drammaturgìa e renderne possibile l'incontro: un luogo in grado di "ricucire" una vita teatrale, proprio come l'intervento urbanistico intende "ricucire" un pezzo di città cresciuto disordinatamente.


©Francesco Sforza