Un fuoco pien d'orror

Il Giornale dello Spettacolo, aprile 1996

"Non ne poteva più", commentava a qualche giorno dalla catastrofe uno dei pochi dirigenti del teatro non separati dal lavoro del palcoscenico, richiamando la semplicità originaria della facciata neoclassica di un teatro già paragonato alla "testa di Pericle" e all' "usbergo di Giulio Cesare". A due mesi di distanza è forse meno bruciante prendere atto del crudele accaduto e vedere in esso, in prospettiva, quasi una reazione stoica del delicato organismo ad una situazione resa non più sopportabile da due fenomeni in qualche modo strutturali e, non a caso, caratteristici del lutto.

Separazione. Proprio quel neoclassicismo è una prima espressione del lungo processo, essenziale nella vicenda del teatro cosidetto "all'italiana", di frammentazione dei vecchi organismi architettonici barocchi che ne isola e rende disponibili gli elementi per nuove, moderne ricomposizioni di figure e consuetudini: la separazione dotata di maggiore contenuto simbolico, quella della sala dal palco, iniziava con la famosa "scena per angolo" bibbienesca, per compiersi oltre un secolo dopo, con la separazione fisica fra i due ambienti (il cinema) preceduta e accompagnata da una lunga serie di altre fratture: l'edificio teatrale stesso diventa autonomo, staccandosi dalla reggia e dal palazzo; la decorazione diventa intercambiabile; l'architetto si distingue dallo scenografo (una volta erano la stessa persona) e quest'ultimo a sua volta in bozzettista e realizzatore; il direttore d'orchestra emerge nel perdersi di vista fra i cantanti e l'orchestra; entrati nei parterre, divenuti platee, i borghesi volgono, in modo un po' brusco, la schiena ai palchi. All'impresario si sostituisce, con la fine della vitalità economica dello spettacolo lirico sancita dal cinema, il direttore artistico.

Pietrificazione. Sempre meno gli elementi così isolati riescono a ricomporsi in qualcosa di vitale. Regolamenti per impedire l' abituale "personalizzazione" dei palchi ai proprietari vengono introdotti al Comunale di Bologna, mentre il suo architetto Antonio Bibbiena propone la costruzione in pietra, a fini di sicurezza. Qualcosa di più solido e più stabile, una sorta di "convitato di pietra" o di Amedeo ioneschiano, dal colorito marmoreo/cadaverico, già presente nei gradi precedenti dell'evoluzione -il neoclassicismo rimarrà sorpreso dalla scoperta romantica delle coloriture delle statue antiche- e che unisce sempre più strettamente celebrazione del passato, pretese di assolutismo ad sostanziale indifferenza al presente finirà per emergere nel Novecento. Mentre ricomposizioni e nuove figure professionali saranno ormai generate dalle evoluzioni della riproduzione tecnica (cinema, TV) i resti dei teatri cercano soltanto di non scomparire, pur continuando a decomporsi sull'incrocio dei divieti di istituzioni sempre meno motivate a dialogare fra loro: Vigili del Fuoco, Soprintendenza, Ente Lirico, Comune, SIAE, ecc. Gli esempi sono molti. Attorno agli anni '20, a partire dalla Scala di Milano, l'apertura dei cosidetti "golfi mistici" è propagandata come la "perfezione" -funerea, sullo sfondo del travolgente successo del cinema- raggiunta da organismi architettonici la cui capacità di accogliere (e non risolvere) conflitti era vista come un difetto. In seguito il "caro estinto" motiva una ricerca spasmodica di anniversari da celebrare, in cui il celebrante si affida all'indiscutibilità del celebrato e alla credulità del pubblico. Le pretese di stabilità, concretizzandosi, finiscono per rendersi definitivamente indisponibili al rinnovamento.

Nel "Saggio sopra gli errori popolari degli antichi" Giacomo Leopardi a un certo punto si mette a discettare con caustico razionalismo sul modo di morire e rinascere dalle ceneri, sugli anni che vive, secondo i "più dotti uomini dell'universo", il mitico uccello che del teatro veneziano era simbolo. La ricostruzione del La Fenice "Com'era, dov'era" rischia di essere, come altri teatri costruiti di recente, un "errore popolare" dei contemporanei. Stigma di quest'errore è, come per quelli degli antichi, il richiamo a fonti di autorità esterne ed indimostrate, se non per copia di ripetizioni: "Innumerabili scrittori" tutti più o meno concordi in un pregiudizio "indegno di un animale pensante". Non si può aderire all'efficace, ma opaco, "com'era, dov'era", subito echeggiato fra le rovine, senza perplessità sulla tombale indifferenza di questa ipotesi alla contemporaneità: in questo solo, forse, genuinamente contemporanea. La stretta di mano del "vecchio infatuato" conclude il gioco. Ma il dramma di Mozart offre agli applausi del pubblico solo il crudele coretto dei conformisti.


©Francesco Sforza