L'anima ardente. Metodo dei tre incendi

Giornale dello Spettacolo, 2 febbraio 1996

L'idea stessa di costruire il La Fenice prese vita da un incendio, quello del teatro S. Benedetto, nel 1779. Fu una idea al tempo stesso conservativa e innovativa, in quanto voleva riproporre il vecchio dispositivo dello svago aristocratico, il teatro, caricato però di valori moderni, ideologicamente fondati sul lavoro di un teorico dai connotati quasi leggendari, l'abate Lodoli. Il progetto originario si proponeva infatti una rigorosa semplicità, in rottura con la precedente mentalità barocca, della quale quel poco che è rimasto dall'incendio porta ancora chiaramente il segno.

Il secondo incendio avvenne nel 1836, a teatro chiuso. Il teatro venne ricostruito in stile settecentesco, ma con mentalità già romantica, in qualche modo nostalgica, senza modificare l'impianto neoclassico ma ricoprendolo con una decorazione ricca, la cui incoerenza con l'assetto originario venne poi criticata, anche aspramente. Quindi, come ogni teatro, anche il La Fenice presenta vistose e vitali contraddizioni, alcune delle quali non molto wwavvertibili a distanza di quasi due secoli. Ma bisogna anche dire che la ricostruzione fu l'occasione di correggere alcuni difetti del progetto originario che erano venuti in luce nei primi decenni d'uso della sala. Un grande direttore diceva che un teatro è come una pipa: migliora con l'uso, è il deposito delle esperienze creative che generazioni e generazioni di artisti e di tecnici vi hanno potuto effettuare.

In quell'epoca l'incendio di un teatro era un evento piuttosto comune e la sensazione di perdita irreparabile, che è impossibile non provare di fronte alle immagini a cui la televisione ci ha messo di fronte con la consueta crudezza appartiene anch'essa ad un'epoca e a un modo di sentire delimitabili nel tempo, con una forte componente di romanticismo. All'avvento del grande nostalgico del vero, il cinema, che relegò i teatri, fino ad allora unico luogo delegato dell'immaginario, in una specie di limbo, essi erano stati oggetto di restauri e modifiche spesso discutibili, ma che con il loro susseguirsi hanno sottolineato la fondamentale indifferenza, peraltro già evidente, dello spirito del teatro alla distinzione fra vero e falso. A parlarci del corpo, della scorza esterna dell'edificio rimarrà Senso di Visconti e l'enorme quantità di documenti fotografici, cinematografici e televisivi. Ma l'anima?

Il carattere di opera collettiva, unito alla disponibilità -ancor più, alla prontezza ad adeguarsi allo spirito del proprio tempo- è una delle facoltà più significative di un buon teatro, non solo dal punto di vista architettonico, ma da quello di qualsiasi lavoro che si svolga fra quelle mura: dove ognuno lavora "per" qualcun altro e nessuno -se non forse proprio i Vigili del Fuoco- può onestamente incarnare un principio d'autorità. In teatro, nel momento in cui si prova -si esercita cioè la delicatissima facoltà di mimesi nei confronti del mondo esterno- il lavoro di tutti è di importanza vitale, dal più umile servo di scena all'interprete più celebrato dalle cronache.

L'uccello mitico riprende vita dalle sue proprie ceneri. La storia del teatro permette forse di desumere rapidamente criteri semplici, come le teorie di Lodoli, che possano essere di guida all'agire concreto, e va riletta adesso con spirito critico, riconoscendo in essa genesi e valenze di ogni inevitabile mitizzazione. L'intenzione ricostruttiva -lo spirito del teatro è fortissimo e non si muoverà dalle attuali rovine in fondo alle calli strette che portano a Campo S. Fantin- può utilmente orientare verso una accurato ed accorato studio il compito di ridare un corpo allo spettro. Nessun uomo potrebbe sostenere da solo una simile responsabilità. La Fenice parlava migliaia di lingue, milioni di dialetti diversi e non esitava mai ad impararne di nuovi. Ma anche una ricostruzione filologica, che ne ricordi la forma ma non ne possieda il metodo, sarebbe in fondo un tradimento.

Il terzo incendio, l'ultimo, è anch'esso avvenuto a teatro chiuso, paradossalmente proprio durante lavori di adeguamento alla normativa antincendio. E qui c'è da fare una terza considerazione che interessa tutto il mondo dello spettacolo. I garanti effettivi ed elettivi della sicurezza, non solo del pubblico ma del teatro nel suo insieme, sono proprio quelli che nel teatro ci lavorano e che hanno sviluppato una altissima sensibilità preventiva, che chi non è abituato a vivere ogni giorno in un mondo di legno e tela non può avere. La tragedia del La Fenice è la triste conferma che i teatri attivi sono ormai luoghi sicuri. E' auspicabile che quanto è successo non aggravi, come è avvenuto in occasione di eventi simili, le condizioni di lavoro attraverso un irrigidimento nell'applicazione di una normativa che va invece anch'essa continuamente riveduta e aggiornata.

L'auspicio del teatro, arte di mimesi, è che la ricostruzione del La Fenice sia un modello per gli altri teatri come lo era per tutti il suo involucro oggi scomparso, nella tranquilla certezza che le forze intellettuali e tecniche per vincere rapidamente questa sfida oggi, a Venezia e nel mondo, ci s


©Francesco Sforza