I semplici lumi

PrimaFila, aprile 1996

"Com'era, dov'era". Su questa immediata esclamazione luttuosa a nessuno pare consentito nutrire dubbi. Diverse personalità, anche molto autorevoli e certo non tutte inclini all'anticonformismo, hanno sollevato dubbi sui rischi di imbalsamazione, ricordato le tiepide reazioni ad altre molto meno rimediabili tragedie dei nostri giorni e segnalato l'esigenza di pensarci su un po' meglio. Modernisti convinti come il direttore della Biennale-musica Mario Messinis hanno finito per adeguarsi allo slogan capace di raccogliere la solidarietà internazionale attorno al gigantesco cratere annerito. Cacciari, il sindaco-philosophe che ha fatto della tragedia yugoslava uno dei suoi impegni prioritari, occupato a tenere la sua rotta in questa improvvisa tempesta lagunare, non si sofferma sull'argomento.

Con gli avvisi di garanzia, preceduti da un prevedibile scaricabarile, iniziano a distinguersi da un lato la rilevanza giudiziaria di questo o quel dettaglio di un quadro deprimente di mancanza di controlli, di pressappochismo e di negligenza maturato a lungo e culminato nell'incendio. Dall'altro si precisa il problema della collocazione veneziana e mondiale dell'edificio, la sua grande valenza comunicativa e la prospettiva di utilizzarla.

Ma "com'era", in realtà, il La Fenice? L'impianto originario, oggetto poi di molte modifiche, nasce nel Settecento in un generalizzato quadro di decadenza. Pure se travolta dall'arrivo delle armate bonapartiste, l'ipotesi di una modernizzazione "dolce" della amministrazione della città, perseguita da Andrea Memmo, procuratore di S.Marco, anche con la costruzione del nuovo, grande teatro, fu un episodio di un dibattito a scala europea -la più vasta che allora potesse darsi- con ripercussioni che caratterizzarono l'architettura del XVIII e della prima metà del XIX secolo.

"Memmo era allievo e riconosciuto seguace di un frate, Carlo Lodoli che sosteneva, in polemica con le consuetudini storiciste, la deduzione razionale della forma dai materiali e dalle funzioni, con un corollario fondamentale: la semplicità. Volgarizzando, egli faceva derivare ad esempio la bellezza della gondola dalle caratteristiche dei legni con cui era costruita e dall'accorta composizione delle funzioni -ricorda Paolo Morachiello, docente di storia dell'architettura a Venezia- e si presenta oggi come antesignano del funzionalismo, che sarà poi un leit-motiv dell'architettura moderna. Il giovane Memmo era attirato da quel solitario libero pensatore, considerato dai più uno stravagante con la tonaca bisunta e gli occhi ardenti, programmaticamente "rustego" e di modi spicci, e che di suo non scriveva un rigo. Fu Memmo a mettere per iscritto i "Principi dell'architettura lodoliana" prima e i "Semplici lumi" poi, una rassegna di quanto era stato pubblicato in Europa sull'argomento dell'architettura teatrale al tempo del concorso del La Fenice. Alla colta eleganza di Memmo (e al suo peso politico) si appoggiò Giannantonio Selva, l'architetto vincitore del concorso, amico di Canova, anche lui "rustego" e di carattere difficile, che cercò di dare forma di progetto, a Venezia come in tutta la sua opera, agli scritti del Memmo, dando forma ad una espressione originale di neoclassicismo ma facendo le spese del distruttivo radicalismo del frate con una carriera accidentata, a tratti luminosa od oscura".

La fatalità tragica del teatro ha voluto che a rimanere in piedi dopo il primo e l'ultimo incendio fossero proprio le tracce più antiche di un dibattito di dimensione europea, riassunte nella facciata, che nei tanti restauri successivi rimase inalterata.


©Francesco Sforza