L'anima occulta del La Fenice

Mentre i periti finiscono il loro lavoro in mezzo alle rovine, ai detriti e ai vetri fusi, alla ricerca di "colpevoli" certo smisurati alla vittima, proviamo a prendere in mano qualche pezzo di carbone alla ricerca di qualcos' altro che, per capirci, chiameremo "l'anima del teatro". Gli avvisi di garanzia hanno separato da un lato la rilevanza giudiziaria di questo o quel dettaglio di un quadro di negligenza maturato a lungo e culminato nell'incendio, dall'altro il problema della collocazione veneziana e mondiale del teatro, la sua grande valenza comunicativa sullo sfondo dell'immagine della città lagunare e la prospettiva di utilizzarla.

"Venezia" evoca sulle prime un clamoroso coro di allegorie, un po' spettrali fra le rovine, ma che sulle bilance dell'attenzione internazionale hanno un peso rilevante.

Mito di libertà e di equilibrio, mito politico di buongoverno e giustizia, mito architettonico di armonia, utopia reale, mito letterario di morte.

Nel teatro La Fenice oggi scomparso si avvertiva ancora la semplice geometria originaria. Esso fu un episodio del dibattito a scala europea -la più vasta che allora potesse darsi- con ripercussioni che caratterizzarono l'architettura del XVIII e del XIX secolo, esercitando effetti addirittura autoillusivi nella Repubblica in decadenza. "Non c'è governo più traditore e più vigliacco", esclamò Napoleone interrompendo il sogno di magnifiche sorti e progressive della Serenissima e presentando il quadro completo dell'Europa Moderna, fatto di nazioni, classi sociali e gruppi settari, rigidamente separati e in lotta spietata fra loro.

Unica ritrovata intatta tra i carboni dell'incendio del 1836, venne incolpata una stufa austriaca. Si pare così la fase romantica, culminata nell'architettura del 1854: "Un settecento immaginario (...) il mito di un tempo felice, quando la città, allora Serenissima, era una capitale della cultura e dell'arte (...). Entrando nella fulgida sala teatrale, il pubblico poteva illudersi che quel passato senz' ombra, quel tempo in cui la città era stata sovrana, lieta, ammirata, fosse tornato a rivivere: era un meraviglioso spazio d'evasione, ideato per resistere all'afflizione dell'età presente" (Pavanello).

Continua ad echeggiare fra le macerie, come un grido luttuoso, l'ultima e più tenace delle allegorie: com'era, dov'era. Diverse personalità, anche molto autorevoli e certo non tutte inclini all'anticonformismo, hanno sollevato dubbi sui rischi di imbalsamazione, ricordato le tiepide reazioni ad altre meno rimediabili tragedie dei nostri giorni, rilevato l'inconsistenza del referente (ma com'era, in realtà, il La Fenice?) e segnalato l'esigenza di pensarci su un po' meglio. Ma anche modernisti convinti come il direttore della Biennale-Musica Mario Messinis hanno finito per adeguarsi allo slogan capace di raccogliere la solidarietà internazionale.

"Com'era, dov'era: oggi non si saprebbe fare di meglio". Pare un'imbeccata alla battuta di Toscanini all'inaugurazione della Scala ricostruita dopo la guerra: "Come prima, meglio di prima". Il nome del grande direttore è legato ad una importante modifica architettonica: il taglio delle ribalte, col quale l'impianto -difettoso e contraddittorio, ma fino ad allora in evoluzione- dei teatri all'italiana sarebbe stato finalmente "perfetto" Cioè concretamente adatto al repertorio, dall' operina settecentesca al drammone post-wagneriano, con implicita rinuncia ad ogni successiva evoluzione.

L'esatto restauro del complesso materiale storico che l'incendio ci lascia non è affatto scontato, come apparirebbe quello dell'apparato decorativo, che pure nel luogo dell' indistinzione fra vero e falso non ha mai avuto un'importanza decisiva. Altri carboni, altre ceneri esattamente identiche quelle che abbiamo preso in mano all'inizio di questa riflessione non sembrano affatto destinate a sparire. Altri muri, pure puntellatissimi, sono definitivamente crollati, rendendo finalmente giustizia a "colpevoli" sempre ricercati al di fuori di essi. Lo spettro allegorico, che già la notte successiva all'incendio suggeriva, attraverso la persona del vice-sindaco, il paragone con l'incendio della biblioteca di Sarajevo, sembra esercitarsi a svuotare gli argomenti di significato, come ossa dal midollo. Ma il caso ha voluto che a cadere, questa volta, fosse un teatro, e uno dei più famosi del mondo. E per gli uomini di teatro uno spettro è soltanto un pezzo di stoffa sporca agitato in cima ad un bastone.

"Al pubblico il meraviglioso -disse una volta uno di loro- noi ci occupiamo del comprensibile". Alle allegorie altrimenti ripetibili all'infinito è dato incontrarsi, in teatro, con la concreta pratica artigiana della loro produzione ed ancorarsi al materiale, prendendo forme più e meno efficaci, a seconda della fortuna e della capacità dei tecnici e degli artisti.

In questo punto l'occasione da perdere può essere l'attenzione internazionale, servita da tecniche di riproducibilità in veloce evoluzione. Su Internet l'incendio del vecchio teatro ha trovato subito attenzione. Per il vecchio e glorioso La Fenice ogni tentativo di emissione di segnali, ancorché possibile, poneva gravi difficoltà tecniche. Quello da costruire "com'era dov'era" potrebbe francamente ignorare sul piano tecnico la rete globale che si sta formando e non cercare il bandolo di un recupero non allegorico del cratere gigantesco e ormai freddo, nel quale il lascito mitico forse persiste.


©Francesco Sforza