Il teatro di S.Carlo

Francesco Sforza

Carlo III di Borbone, messo sulle staffe delle Due Sicilie dagli equilibrismi politico-dinastici settecenteschi, diede solo tre anni dopo al suo "ingegner Colonnello" Medrano l'ordine di costruire, il San Carlo, barocca appendice della reggia e vero centro della città politica, in cui il sovrano si mostrava magnifico ai suoi nobili nel magnifico palchettone. Viaggi e raffronti sono alla moda. L' acustica è cattiva, se paragonata a quella degli altri teatri d'Europa, tutti più piccoli. Ma "Il solo palcoscenico è più grande di tutta la platea dell'Opéra di Parigi", e il S. Carlo quasi sempre apre la serie dei monumenti descritti dai visitatori stranieri. Fino all'alba dell'Ottocento i nuovi teatri d'opera di una certa importanza aspireranno ad essere più grandi di lui. E poi più grandi ancora.

La vastità dello spazio permetteva l'utilizzo di fanti veri e addirittura di elefanti; sull'ascolto prevaleva lo spettacolo di tempeste e battaglie, di trionfi e danze: "Subito dopo il tremendo fracasso che fa l'uditorio durante l'opera incomincia il ballo: ecco che il silenzio si fa generale", racconta un inglese perplesso per la partecipazione "mimica" degli spettatori. Stagioni ritmate da onomastici e genetliaci della famiglia reale e opera seria metastasiana, alla maniera della corte di Vienna. Ma il Re si annoia terribilmente... Isolato da un'aristocrazia sempre più abbarbicata ai latifondi si scoprirà, politicamente, castrato come i suoi famosi cantanti, quando pretenderà di schierare contro l'Austria austriaci fatti prigionieri cinque anni prima per partecipare a remote successioni centroeuropee: e l' esercito tanto abile sul tavolato del S. Carlo si scioglierà come neve al sole dopo pochi chilometri di marcia...

Una nuova facciata verrà costruita nel 1810 da Antonio Niccolini, incaricato da Murat. Quattordici colonne ioniche si sovrappongono, con semplice e dinamico contrasto dimentico della sinuosa, fantastica organicità barocca, a cinque archi vigorosamente bugnati. Il gioco dei pieni e dei vuoti, di luci e ombre della facciata e le ampie fasce orizzontali dei palchetti segnala un originale neoclassicismo, oggi autorevolemente messo in relazione con l'opera di Chalgrin e di Ledoux, architetti illuministi francesi allora famosi. "Napoli è l'unica capitale d'Italia", dirà Stendhal nel 1817. Apportando una serie di migliorie all'impianto Niccolini ricostruì anche l'interno dopo l'incendio dell'1816, usando colori smorzati per mettere in risalto la grazia femminile.

Sorride Margherita dal bianco medaglione
nel dorato salone che alle quadriglie invita...

Il bel ridotto niccoliniano divenne -malizia d'un impresario- bisca dove i polloni dell'aristocrazia andavano a dissipare i cospicui redditi dei latifondi, poi tornò ad ospitare vari trattenimenti finché fu "bonariamente concesso" da Vittorio Emanuele II al Circolo dell'Unione, che vi mise fortissime radici, conservandone fino ad oggi, in modo piuttosto singolare e tutto napoletano, il carattere di luogo di svago aristocratico. Vi sostarono all'inizio di questo secolo tristi fantasie gozzaniane:

...oppure alla mia irride mancatissima vita.

Alla maniera dei clubs inglesi le donne sono ammesse in certi giorni della settimana e a certe ore del giorno. Nel 1937 bisognò costruire un altro ridotto per il pubblico. La stuttura scenica è invece rimasta quella di un tempo. La direzione del teatro ha resistito alla tentazione dei teatri d'opera delle "vere" capitali europee: le discutibili macchinerie idrauliche. Esistono ancora sotto il palco i tre piani praticabili per il movimento delle vecchie quinte dipinte e i grandi ambienti per la pittura, sopra la testa degli ignari spettatori dei trionfi un pò stupidi della scena costruita e, sopra a tutto, esistono ancora i pittori scenografi.


©Francesco Sforza