I macchinisti

Pubblicato col titolo "Dietro le luci della ribalta" in "Musica e Dossier", n. 38, marzo 1990

SKENE' era in origine la tenda dietro la quale si nascondevano gli attori. L'atto di nascondersi, in tutto (dietro la scena, dietro il sipario, dietro i muri stessi degli edifici) o in parte (con la maschera, con il costume, con il parapetto e la tenda del palchetto) si trasformò nel tempo. Oggi si potrebbe scrivere una storia del teatro esaminando ciò che, nei diversi momenti storici, esso teneva segreto.

A Venezia, se si ha fortuna, è possibile assistere, dal parapetto del ponte de la Menua, a uno spettacolo dato dal "La Fenice" del tutto gratuitamente: quello delle varie parti delle scenografie arrivate su grosse barche, appese per un momento come prosciutti a una specie di braccio meccanico che spunta dal vecchio edificio e poi da questo inghiottite. Per poco che s'ami o si conosca il teatro è difficile non provare un pò di curiosità: che parte avranno, nello spettacolo, questi grandi capitelli di plastica, questi leoni dorati? Che ci sarà in quelle casse? Chi é quel grosso uomo vestito di blù che si affaccia a quella porta aperta sul vuoto? Così il teatro gigioneggia spesso con i profani, spargendo su ogni suo dettaglio polvere di mistero.

La musica, alla quale sopratutto supponiamo interessato il nostro lettore, è legata da molti fili e da molti secoli alla stessa idea di armonia (o dis-armonia) che ha generato l'architettura. In base questa antica parentela, la scenografia, il suo doppio teatrale, può vantare, di fronte alle giovanilistiche trovate della regìa, un dispiegarsi secolare di forme codificate, di tecniche, di invenzioni, parallelo e intrecciato con l'evoluzione del linguaggio musicale. Perciò un regista rigoroso come Peter Stein afferma che nello spettacolo lirico l'opera dello scenografo è ben più importante e decisiva della sua. Ma questo discorso ci porterebbe molto lontano. Speriamo, con quanto abbiamo già detto, di aver sedotto il lettore a seguirci in un viaggio più breve. Fin d'ora, trattandosi di scenotecnica, se non vere e proprie meraviglie, gli promettiamo qualche sorpresa. E in effetti anche uno scenografo, a sua volta, è quasi nulla, se gli si toglie l'ambiente di tecnici che permette al suo lavoro di realizzarsi.

Il primo personaggio in cui ci si imbatte quando si bussa alla porta di questo mondo nascosto è proprio quello che abbiamo visto poco fa affacciarsi da quel varco nero a mezz'aria che immette negli angiporti del teatro veneziano. E' tutto vestito di scuro, come si conviene a chi non deve farsi vedere troppo. Il nome ricorda la sua origine seicentesca, quando l'architetto-scenografo veniva magnificato e anteposto al musicista, e si costruivano le complicate macchine dei cambi a vista, dei voli e delle apparizioni. Si tratta, appunto, del "macchinista".

Pochi sanno che i macchinisti italiani sono ancora ritenuti, unanimemente, i migliori del mondo. Si tratta forse dell'ultimo residuo del nostro primato teatrale dei secoli che videro la fortuna dei comici dell'Arte per tutta Europa, la crescita dello splendido giardino del teatro musicale, la diffusione, su scala mondiale, della tipologia architettonica del teatro -appunto- "all'italiana". Si potrà forse cogliere con la fantasia qualche bagliore riflesso del secolo d'oro, quando si consideri che dall'abilità di evidente origine teatrale dei suoi costruttori di scene, e non dalla prosopopea di regime che ne accompagnò la nascita, deriva molto della fama e del pregio di cui gode Cinecittà nel mondo della produzione cinematografica. Il vero teatro è in definitiva una manifestazione di generosità.

Come gli antichi comici dell'Arte, secondo la felice definizione di uno studioso, Ferdinando Taviani, questi artigiani sono "specializzati a non essere specializzati". Gli oggetti del loro lavoro sono le imprevedibili, caotiche intuizioni degli artisti. Per assistere senza vertigine la crescita e l'articolazione della creazione drammaturgica, fino alla statura dei più alti creatori, ci vuole molta esperienza e poca specializzazione, proprio come al teatrante e al rocciatore, nell'avvicinarsi alle cime più impervie, è molto più utile la saggezza dell'erudizione. In parole più umili, gli italiani sono i migliori per la loro ben nota capacità di arrangiarsi nelle più diverse situazioni. La semplicità della tecnica e l'efficacia dell'attrezzatura ne sono il riflesso pratico.

Un gesto solo: piantar chiodi. Oltre che nel senso traslato di lasciare debiti, è in senso letterale la pratica più caratteristica dei nostri macchinisti, in quantità che all'estero, in occasione delle tournées, destano lo stupore dei colleghi indigeni. Alla cintura, nient'altro che una borsa piena di chiodi di due o tre misure diverse e un martello. I chiodi sono quelli comuni di ferro dolce che si trovano dapertutto. La borsa ha regole costruttive piuttosto precise. Il martello è molto speciale. I macchinisti passano intere mezz'ore a mostrarsi l'un l'altro questo attrezzo esoterico, oggetto di bramosie e abbastanza spesso di furto. Non se ne fanno più come una volta. Il segreto della sua forgiatura, una sequenza di bagni in aqua e olio a partire dal buon ferro dei binari ferroviari, è ormai perduto (ma si dice che qualcuno ancora, a Firenze...). Lo stesso tipo di ferro esiste in tre misure, adatte ai diversi lavori (ecco l'unica "specializzazione") del palcoscenico. Sul legno del manico, sulla sua stagionatura e sul modo di inserirlo nel ferro in modo che formi con esso un corpo unico ho ascoltato lunghe disquisizioni. Come anche sul modo di usarlo: un macchinista esperto pianta un chiodo da cinque centimetri con tre colpi. I più vecchi ne posseggono diversi esemplari. Nelle famiglie artigiane che ancora esistono questo attrezzo si tramanda di padre in figlio. Accade che esso venga citato nel testamento. E regalare il proprio martello in vita a un macchinista più giovane è un segno memorabile di affetto e stima: "Questo martello, me lo ha regalato Tizio, quando lavorava nella compagnia del Tal dei Tali..."

E in effetti questo non è un mestiere che si possa imparare in una scuola. Gli stranieri rimangono perplessi quando sentono dire che il personale tecnico dei nostri teatri, pure bravissimo, non segue nessun corso di formazione. Recentemente qualche direttore di teatro stabile ne ha organizzati. Provate a raccontarlo a un professionista, e difficilmente riuscirà a trattenere un sorrisetto di sufficienza. I corsi possono servire a vedere se uno ha o non ha -come si dice- la stoffa. Ma un vero macchinista bisogna cercarlo altrove.

Questi artigiani hanno tre "luoghi deputati", uno dei quali "non è". Nel primo, il laboratorio privato di realizzazione delle scenografie, si imparano i segreti della trasformazione di un bozzetto, o di un modellino, in una scenografia reale. Qui si incontrano anche gli ultimi rappresentanti di un'altra specialità teatrale antica, la pittura da scenografia, sulla quale tornerermo altrove.

Il secondo luogo è il grande teatro lirico, dove si fa esperienza di ogni altra e possibile specialità che concorre alla costruzione delle opulente messe in scena operistiche: costruttori, elettricisti, fonici, sarte da costumi e da scenografia, gente di soffitta e di sottopalco, attrezzisti, addobatori, armieri, pittori, scultori, stuccatori, fabbri; e ognuno vieppiù specializzato secondo il propio carattere (spesso sottolineato da un nomignolo): c'è il macchinista che discute con gli scenografi esigenti i più astrusi problemi tecnici delle scenografie "difficili" (Carta-fina, o più semplicemente, il Carta); c'è quello senza paura, che si arrampica ad altezze che fanno venire le vertigini ai suoi compagni di lavoro solo a pensarle (il Matto); c'é quello che per aver usato qualche volta un certo arnese, ne ha ricevuto tacitamente il monopolio. Qui, il rischio è appunto l'eccessiva specializzazione: "Alla Scala ognuno sa fare bene una cosa, ma quella sola. Forse sa farne anche un'altra, ma non glielo chiedono perché c'è già qualcuno specializzato..." nota Pasquale Grossi, uno scenografo che segue con molta attenzione ogni fase tecnica della realizzazione dei suoi progetti.

Ma il terzo, e il più importante, luogo di formazione dei macchinisti è quello che non esiste: è nella pratica del viaggio, nelle difficoltà incontrate nei diversi e spesso malformi palcoscenici dello stivale, in cui ci si trova da soli e presi fra due fuochi: quando lo spettacolo, il cui lato imprevedibile e caotico è ormai riconosciuto e messo in ordine, ma che pur resta vivo, si scontra con imprevisti più o meno banali: qui manca il sipario, là hanno colato cemento sotto il palco e non si pò aprire la botola prevista, forse un pò avventatamente, dal regista, una quinta si è sfondata durante l'ultimo smontaggio e bisogna riaggiustarla in poche ore e con mezzi di fortuna. Questa è la vera scuola. Il buon capomacchinista di un grande teatro lirico chiede qualche anno di "compagnia", come si chiama in gergo questa esperienza di lavoro, per prendere in considerazione una domanda di ammissione fra la gente ai suoi ordini.

Considerando il complesso sistema circolatorio degli spettacoli nel nostro paese sarà facile vedere, nella sapienza artigianale dei teatranti, un vero e proprio linguaggio di una comunità viaggiante, e si comprenderanno le ragioni della caparbia resistenza che questa gente oppone ad ogni estemporanea innovazione tecnica, e che provoca spesso la facile indignazione degli architetti modernisti, inventori, in questo mondo intercomunicante, di nuove "parole" che soltanto loro capiscono. Essa non è altro che la difesa della capacità far fronte sempre e dovunque ai più diversi problemi. Lo stesso vale per i materiali: i preferiti sono ancora quelli sei-settecenteschi: il legno, la tela dipinta e il ferro battuto. Solo di fronte a un interesse attivo la sapienza ombrosa dei macchinisti manifesta i suoi trucchi. Trucchi di gente povera: i vecchi insegnano ancora ai giovani a raddrizzare i chiodi usati, perché si possano riutilizzare: un gesto che oggi sembra senza motivo a quelli a cui sfugge il suo significato allegorico. Ma il teatro cos'è, se non artigianato dell'allegoria? E la grande ricchezza materiale dei teatri di oggi, cosa significa? Forse loro, i macchinisti, lo sanno. Ma non lo dicono. Preferiscono, questi moderni Gargantua, raccontarti la tournée in Europa del nord enumerando in dialetto i piatti caratteristici delle varie città, senza dire nemmeno una parola dei teatri visitati: "A Monaco di Baviera gavemo magnà el porsèo da late...". Contentiamoci.