Grandi teatri italiani

di Vittorio Dell'Aiuto

Il titolo di un libro è una promessa, un impegno che l'autore prende col lettore riguardo al contenuto, e che non sempre è rispettato. Talvolta il titolo sembra banale, non basta a comprendere quanto si articola tra le pagine: certo "Grandi teatri italiani" tratta delle massime architetture teatrali che troviamo a Napoli, Bologna, Milano, Venezia, Trieste, Palermo, Firenze, Roma, Torino, Genova e Cagliari; ma anche e soprattutto di quello che è stato ed è tuttora l'humus sociale nel quale si pongono tali edifici.

Così nel nascere e nel divenire del teatro all'italiana, nel progressivo trasformarsi del suo rapporto col pubblico, nel suo ottocentesco voler essere "grande" in senso spiccatamente quantitativo, possiamo leggere la storia dell'Italia degli ultimi tre secoli, dove ogni evento diventa chiave di lettura per il successivo, senza soluzione di continuità. Ecco che il titolo ci appare meno banale. La scrittura è densa e propone riferimenti in molte direzioni; a guidare il lettore provvedono nuovamente i titoli, questa volta quelli dei singoli capitoli.

Ci sono libri dei quali difficilmente si guarda l'indice: in questo caso invece è una lettura che consigliamo, le intestazioni dei capitoli sono come gialli colpi di evidenziatore tracciati dall'autore sulle parole chiave.

E di parole chiave ce ne sono molte: si parla di genius loci e memoria locale, di ideologia e religione, di istituzioni ed arbitrio, di pubblico e moltitudine. E l'architettura? Compare quando all'effimero intreccio di legno e tela del teatro barocco subentra "l'arte delle trasformazioni del macrocosmo, della pietra, delle decisioni definitive e irrevocabili", spesso materializzazione dell'ideologia come nuova religione: non a caso il teatro come "tempio della vita civile" occupa sovente aree dove sorgevano edifici religiosi.

I nodi vengono al pettine nella terza parte del libro, quella sul nostro secolo ("Disiecta membra"), quando l'imposizione di un organismo statale ad un paese ancora contadino genera gli effetti più evidenti. In luogo del "cittadino" si presenta la "massa", l'insieme di persone banalizzate, private della loro identità. Evento cardine è la grande rappresentazione dell'Aida all'Arena di Verona, nel 1913. Mentre inizia la tradizione delle grandi manifestazioni all'aperto che si affermano nel ventennio, quasi contemporaneamente alla creazione degli Enti Lirici, esso prelude sinistramente - con l'intervento dell'esercito a disperdere la ressa, baionette innestate - al dramma collettivo della guerra del '15-'18: "grande" anch'essa.

Gli ultimi due capitoli inquadrano la situazione attuale e danno spunti per quello che potrà essere l'immediato futuro. Il primo riguarda il Carlo Felice di Genova, ed è un'analisi scevra delle polemiche che hanno accompagnato la lunga vicenda progettuale: in realtà con la freddezza di un bisturi giunge a scoprire - via l'ideologia, via l'illuminismo - l'ossatura che sostiene questa architettura e le fortune professionali del suo creatore. Il successivo capitolo sul nuovo teatro comunale di Cagliari - ancora in fase di cantiere - è scarno ma importante: si parla di un edificio che assimila in parte la lezione aaltiana, che rifugge l'ideologia del "grande teatro" e del monumento a valori esterni, in una parola si articola sull'assenza di centro.

Si ritorna nella conclusione al tema del pubblico, oggi massa per i media: ed "è probabilmente nella riunione, tutta ancora da consumare, dei pubblici dello spettacolo dal vivo e di quello dello spettacolo riprodotto che l'architettura può ancora incontrare il teatro in una occasione felice, aprendo nuove possibilità alla sua forza creativa".

" L'Architettura, cronache e storia", giugno '94