Un fortunato incontro fra architettura e teatro

di Daniela Di Renzo

Il fatto che non esistesse in Italia un libro sull'architettura del teatro all'italiana lasciava perplessi. Ma sbaglierebbe chi pensasse che "Grandi Teatri Italiani", di Francesco Sforza, un volume di grande formato e ricco di illustrazioni, stampato dall'Editalia, abbia l'unico merito di aver riempito tale lacuna, e farebbe bene a diffidare del suo falso aspetto di libro-strenna. Oltre a fornire una notevole quantità di notizie sulle sedi dei teatri italiani fregiati della qualifica amministrativa di Ente Lirico, espressione legislativa della loro "italianità", il libro persegue l'obiettivo di mettere in relazione l'evoluzione architettonica con la vita culturale e politica della penisola.

La sintesi è notevole, sia sul piano formale -un architetto che si esprime in modo comprensibile e piano- che su quello dei contenuti. Il libro è concepito come una sorta di viaggio per luoghi deputati, nel quale ad ogni teatro corrisponde un capitolo e la trattazione di problemi di carattere architettonico. Se la sua lettura è consigliabile a chiunque voglia formarsi come fruitore cosciente di eventi spettacolari, essa lo è sopratutto per gli architetti, che troveranno in esso i principali nodi di una progettazione o di un restauro descritti nei loro aspetti problematici. E' il caso esemplare della genesi della fossa d'orchestra, che si trova per la prima volta privata degli orpelli ideologici che volevano farne il compimento di una struttura "perfetta", proprio nel momento -i primi del Novecento- in cui la sua attualità sul piano spettacolare può considerarsi trapassata. Notevole è anche la somiglianza fra il repertorio la "tipologia" che pongono "problemi analoghi di verità esecutiva" al teatrante e all'architetto. In qualche modo, questo libro vorrebbe essere un monumento funebre della sala "all'italiana" che l'autore considera, insieme al repertorio, "un Amedeo ioneschiano", un organismo morto e pure in crescita, come sembra confermato da recenti giganteschi progetti italiani ed esteri.

Tale tesi, a tutta prima sorprendente, trova riscontro in una quantità di dati che l'autore offre in sequenza convincente di relazioni significative. La crescita numerica del pubblico, durata per tutto l'Ottocento, è ad esempio un fenomeno quasi banale. Ma sulle sue conseguenze a livello architettonico non era stata finora richiamata adeguatamente l'attenzione: si può così apprezzare il dilatarsi degli edifici, a partire dal S. Carlo di Napoli, voluto dal Carlo III di Borbone tale da poter essere paragonato al teatro imperiale di Vienna, fino ai politeami, edifici caratteristici della fine del secolo seguente, capaci di alcune migliaia di posti e all'esplosione spettacolare della prima Aida all'Arena di Verona, nel 1913, alla quale presenziarono 20.000 persone. Fu questo spettacolo a indurre Mussolini all'ipotesi di teatro "per 20.000". Oltre questa soglia il teatro del Novecento è tutto segnato dallo sviluppo del cinema e della radio, in breve dei mass media, nei confronti del quale i grandi teatri sono ormai fuori gioco. Sia il Regio di Torino, progettato da Carlo Mollino negli anni '60, che il recente Carlo Felice di Genova dovuto ad Aldo Rossi costituiscono punti di vista originali su di una situazione progettuale che sembra aver ceduto ai media la propria originaria centralità.

Nelle conclusioni l'autore rivendica all'architettura il ruolo di riunificazione del luogo spettacolare. Sembra aprirsi così una ipotesi "tutta ancora da consumare" di riunione "del pubblico dal vivo e di quello dello spettacolo riprodotto". L'autore ci ha confermato di pensare alle espressioni più avanzate dello spettacolo televisivo, segnatamente a "Il Rosso e il Nero" e "Milano, Italia", dove molto teatralmente è prevista la "prise de parole" da parte del pubblico presente in studio. Il libro si conclude così, con la proposta agli architetti di un ruolo di coordinamento che raccoglie e sintetizza una evoluzione storica durata oltre due secoli.

Bari, luglio '94