Storie di film Torna all'indice di ECCETERA

THE PLAYER Ho visto di recente una proiezione privata del film di Altman, 'The Player". E' una vera chicca, ma ho paura che chi non e' un addetto ai lavori si perda il 90% delle allusioni e dei riferimenti all'"inside Hollywood". Spesso e' cosi' cifrato che per goderselo lo spettatore medio dovrebbe ricevere alla cassa del cinema, assieme al biglietto, anche una Guida. Il vecchio maestro si e' divertito a mettere in fila con grande minuzia tutto quello che attualmente e' piu' "trendy". Le automobili (a L.A. tu SEI quello che guidi...), i posti dove BISOGNA mostrarsi, l'arte del name-dropping (qui c'e' un pezzo di bravura di Sidney Pollack, nella parte di un avvocato delle star), l'arredamento dell'ufficio di Mill (copiato pari pari da quello di Joe Roth, boss della Fox). Supertrendy e' che il protagonista, Griffin Mill (Tim Robbins), non beve cham- pagne o martini (inesorabilmente out!) ma solo acque minerali, scelte tra le e- tichette piu' sofisticate ed 'esotiche', San Pellegrino in testa. E' un produt- tore che non riconosce un buon film neanche se ci fa scontro frontale in galle- ria (glielo vediamo capitare con 'Ladri di biciclette'). C'e' una memorabile sequenza iniziale di una decina di minuti nella quale Mill sventra i "suoi" sceneggiatori in cerca di un'idea. La cosa piu' divertente e' che si tratta di veri bravissimi sceneggiatori che recitano dei momenti di abiezione che di cer- to hanno veramente vissuto... Vediamo cosi' Buck Henry, autentico autore del "Laureato", proporre laido un "Laureato 2"... E i colleghi che gli fanno coro sono Joan Tewkesbury (autrice di Nashville), Pat Resnick (Un matrimonio) e il regista Alan Rudolph (Welcome to L.A.). Per chi fa questo mestiere "The Player" e' un salutare bagno di autoironia. Dio sa quante volte e' capitato anche al sottoscritto di sostenere, come fa Griffin Mill, che una storia che funziona si deve poter raccontare in venticinque paro- le, o cercar di vendere un'idea esemplificando cinicamente, come succede nel film, che "e' una via di mezzo tra 'La Mia Africa' e 'Pretty Woman', perfetta per Goldie Hawn..."

CASABLANCA Qualcuno che conosce le mie debolezze m'ha fatto un regalo tra l'ironico e l'affettuoso : una cassetta di "Casablanca", ma nella versione originale che non avevo mai visto. Ripassandomi religiosamente un film che credevo di poter riscrivere a memoria, ho fatto una scoperta curiosa : nella versione italiana e' stato completamente eliminato un personaggio, il capitano Borelli. E' un ufficiale fascista dall'accento calabrese, servile e ridicolo, una semplice macchietta. Pero', considerato che il film e' stato editato in Italia a guerra finita, lo zelo patriottico dell'ignoto censore mi pare un po' imbecille, considerato che pure il personaggio interpretato dal grande Sidney Greenstreet, nonostante il fez e la fusciacca, nella versione inglese e' il "signor Ferrari". Comunque, questa volta avevo proprio sperato che Ilsa decidesse alla fine di non salirci, su quell'aereo. E invece. Here's looking at you, kid...

L'UOVO DEL SERPENTE "L'uovo del serpente", di Ingmar Bergman. Ho vissuto la genesi di questo film abbastanza da vicino ed e' una storia troppo esemplare per riuscire a non raccontarla. ( Lo so che mi sto bruciando montagne di materiale che ho da parte per un libro che finiro' per scrivere prima o poi, quando qualcuno si de- cidera' ad aiutarmi a vincere la pigrizia. Ma d'altra parte siete in poche de- cine a leggermi, e magari il libro lo comprereste lo stesso...:-) Comunque : la storia comincia a meta' degli anni '70. Il Fisco svedese, il piu' temibile del mondo, salta addosso a Ingmar Bergman reclamando irregolarita' e arretrati da mangiarselo vivo. Dino De Laurentiis, al culmine della sua ascesa hollywoodiana, fa scattare il suo geniaccio cinico e protervo e si precipita a Stoccolma. Sa che il Maestro e' nel panico e cerca solo una via di scampo. Sa anche che non puo' offrirgli soltanto del denaro ma deve trovare anche un Pro- getto allettante. Ha un colpo d'intuito : si ricorda l'unico film "leggero" di Bergman, il delizioso "Sorrisi d'una notte d'estate" e spara la sua proposta : un remake de "La Vedova Allegra", budget grandioso e illimitato. Chi potrebbe resistere a misurarsi con Lubitsch ? Bergman accetta entusiasta, firma un'opzione a doppio chiavistello e si prepara a lasciare per sempre quel- la Patria troppo avida e ingrata che pretende addirittura di fargli pagare le tasse fino all'ultima corona. Dal canto suo Dino torna a Hollywood e si presen- ta ad offrire la parte del Principe Danilo a Marlon Brando. Viene prontamente mandato immaginate dove. Ma lui tira fuori il contratto con la firma di Ber- gman. E allora Brando si precipita ad aggiungervi la sua. Dino, inesausto, non ha esitazioni nella ricerca della protagonista : Barbra Streisand. La ragazzona vede le due firme precedenti e strappa il contratto dalle mani di Dino per fir- mare prima che lui ci ripensi e le faccia perdere il film della sua vita. Cosi' Dino finisce il suo giro dal presidente di una Major al quale strappa un deal stramiliardario. A questo punto come nel gioco dell'anello il contratto completo viene a cono- scenza di Bergman il quale all'idea di essere coinvolto in un progetto cosi' hollywoodianamente commerciale da' fuori da matto. Per uscirne si fa costringe- re a firmare un ulteriore contratto, per due film anziche' uno, e a compenso molto piu' stracciato, dato che per Dino ogni cosa si deve comunque concludere con un affare. Il film in questione e' appunto 'L'uovo del serpente', che Dino produce a Hollywood ma naturalmente con i soldi altrui (dei tedeschi nella fat- tispecie). Bergman si circonda di tutta la "sua" gente, da Sven Nykvist (che poi in America si trovera' cosi' bene da restarci) a Liv Ullman. Dino pero' gli inzeppa il cast di attori americani e tedeschi, lo accerchia di esecutivi e traffichini suoi. Il risultato vi prego di guardarvelo : è un film che ha l'impronta bergmaniana, ma che trasuda incertezza, disagio, scarsa convinzione, angoscia di finire la giornata a vedere i "rushes" del girato nella sala di proiezione con i commenti stentorei di Dino nel suo arrogante anglonapoletano. In ogni caso, appena battuto l'ultimo ciak il Maestro se n'e' tornato a precipizio in Svezia, dove ha espiato tutti i suoi peccati e da dove ha giurato di non uscire piu', almeno come regista, vivendo il resto dei suoi giorni felice e contento.

DOPPIAGGIO DE IL BUONO, IL BRUTTO, IL CATTIVO Almeno un film italiano in USA e' stato doppiato - anche se gli a- mericani non l'hanno mai saputo. Correva un anno che non mi va di ricordare tanto e' corso lontano, e io ero a NY con Leone per preparare "C'era una volta il West". In uno stabilimentino a due passi da Times Square, la Titra, doppia- vano "Il Buono, il Brutto e il Cattivo" : e siccome era ormai un film importan- te doveva ufficialmente figurare come se fosse stata davvero girata tutta presa diretta in inglese, dal trucidoromanesco di Mario Brega al rauconapoletano di Aldo Giuffre' che faceva il capitano nordista. Andammo a vedere qualche "anel- lo" e scoprii con orrore (Leone ne masticava poco d'inglese) che per beccare i "sinc" (cioe' le labiali piu' vistose, le emme, le bi eccetera, lo dico in sol- doni per i non addetti) il direttore di doppiaggio modificava i dialoghi a ca- pocchia, e di brutto. A semplificare le cose arrivo' pure Clint Eastwood il quale ormai, dopo il ter- zo film con Leone, stava con lui in un reciproco cordiale rapporto tipo "senza di me non saresti nessuno, brutto stronzo". Clint con una faccia da western sbatte' il suo "shooting script" sul leggio e disse con la voce gelida e sus- surrante che conoscete tutti : "Io ripeto esattamente quello che ho detto sul set." Sapendo benissimo di rovinarci in quanto era tradizione leoniana sconvol- gere completamente i dialoghi durante il montaggio. Cosi', mentre Leone se ne andava a Los Angeles col mio copione, io rimasi per quasi due mesi a gelarmi le palle nell'inverno newyorchese e a combattere su o- gni maledetta labiale di un film di tre ore, con della gente che (lo dico per chi ne sa) era abituata a doppiare un attore alla volta, su anelli da dieci me- tri scarsi, e che cascava svenuta solo alla menzione della parola "straordina- ri". Comunque alla fine, come in qualche modo magico e stupendo succede sempre nel cinema, ce la facemmo, e pure bene. Io imparai a conoscere ogni "deli" di Manhattan quasi meglio di Woody Allen (che del resto la sera incontravo sempre da PJ Clarke con delle sventole che me le sognavo poi la notte), divenni tifoso dei Green Bay Packers che poi effettivamente vinsero il Superbowl, e per tutto il sangue buttato non ebbi mai neanche una riga nei titoli di testa o di coda del film. Ma ero molto giovane e ci ritornerei di corsa, alle stesse condizio- ni, se soltanto potessi.

IL PONTE DE IL BUONO, IL BRUTTO, IL CATTIVO Leone lo fece costruire veramente, e tutto in vera pietra e vero legno, era transitabile e lungo una quarantina di metri se non ricordo male. Quando fu il momento di girare l'esplosione cominciarono i guai. Il miglior "artificiere" del cinema allora era Baciucchi, a "living legend" : ma non aveva mai avuto a che fare con un botto di quelle dimensioni. Mise una trentina di cariche di tritolo, ma ogni volta l'esplosione delle prime mandava a puttane il resto dei contatti elettrici, cosi' il ponte non saltava tutto in una volta come voleva Sergio. Allora ci si rivolse all'esercito spagnolo (gli esterni erano nella solita Al- meria), e arrivo' un colonnello con una squadra di specialisti. Il ponte fu im- bottito di esplosivi, una dozzina di macchine da presa furono piazzate per in- quadrare da tutti gli angoli, e gli aiutoregisti cominciarono a fare il conto alla rovescia vociando nei walkie-talkie. A meno dieci... il ponte salto' in aria sorprendendo tutti. Il colonnello dalla sua postazione aveva scambiato chissa' quale parolaccia per il segnale convenu- to e aveva premuto il pulsante. Dodici macchine da presa messe freneticamente in moto riuscirono a riprendere solo la ricaduta dei rottami, mentre il colon- nello schizzava fuori entusiasta dal suo riparo gridando "Maravilloso! Estupen- do !" e si beccava una raffica di vaffa da incenerire un generale. Chiarito l'equivoco e ferito nell'orgoglio, il colonnello fece poi arrivare nella stessa giornata un intero reggimento del genio. Il ponte fu completamente ricostruito in una notte, e la mattina seguente fu fatto saltare in aria di nuovo, questa volta con tutte le macchine da presa in funzione. Pero' il primo botto era il migliore, tant'e' vero che tutte le inquadrature della ricaduta macerie montate nel film sono prese dai "tagli" del primo errore.

SBATTI IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA Mi viene in mente (la memoria vacilla :-)...) che alla conferenza stampa il grande Aggeo Savioli dell'Unita' s'incazzo' come una bestia dicendo : "nessun giornalista userebbe mai una espressione come questa!". E Lietta Tornabuoni as- sentiva solennemente. Avessi poi avuto mille lire di diritti per ogni volta che un giornale ha usato questa frase, adesso sarei su un'isola di proprietà in Polinesia, invece che a perdere tempo sulla tastiera di un computer.

QUALCUNO VOLO' SUL NIDO DEL CUCULO "One Flew over the Cuckoo's Nest" come forse saprete era un romanzo, poi adat- tato per la scena e rappresentato a Broadway da Kirk Douglas, dal quale ho sa- puto il resto della storia. Douglas compro' i diritti cinematografici, ma per diversi anni cerco' invano di montare un film che le Majors trovavano troppo "duro" per il grande pubblico. Kirk si scoraggio' e praticamente offri' in re- galo l'opzione al figlio Michael, che stava avendo un buon successo come attore in un serial tv ma aveva ambizioni di produttore. Michael era molto amico di Nicholson che s'innamoro' subito e inevitabilmente della parte e della storia. Assieme decisero di puntare su un giovane regista dell'est europeo che in USA aveva fatto solo un piccolo delizioso film chiamato "Taking Off", e che si chia- mava Milos Forman. La splendida sceneggiatura la scrisse Bo Goldman, di cui parlavo a proposito di "Profumo di donna". Magiche alchimie del cinema : il re- sto e' storia. Will Sampson, il gigantesco pellerossa finto-muto che nell'indimenticabile fi- nale teneramente uccide lo spento Nicholson, era una delle persone piu' straor- dinarie che abbia mai conosciuto. Fu a Malta, sul set de "L'orca assassina" che avevo scritto con Vincenzoni, e dove avevano costruito un finto Polo Nord. Sam- pson era di una tribu' dello stato di Washington, e viveva facendo splendide sculture in legno e girando a cavallo per i boschi. Non era certo un attore, e per rintracciarlo ci vollero gli elicotteri della guardia forestale a dargli la caccia per giorni. Poi quando fu il momento di farlo venire in Europa si sco- pri' che non solo non aveva passaporto, ma neppure la piu' vaga idea di dove e quando fosse nato, ne' gliene poteva fregare di meno. Era realmente immenso e taciturno : ma sapeva ascoltare e capire con grande profondita', e quando par- lava aveva sempre realmente qualcosa da dire. Era un uomo incredibilmente sere- no e in pace col mondo e con la vita. Mi affascino' tanto che scrissi una sto- ria per lui e su di lui : si chiamava "Nino and the Chief", era ambientata ne- gli anni 20, e raccontava dell'amicizia tra un piccolo italiano, che allora do- veva essere Giannini, e questo pellerossa nato per essere un capo e costretto a fare l'attrazione turistica. Come tante storie del cinema, anche questa e' stata per anni a un pelo dal pri- mo ciak, ed e' ancora in "turnaround" nel portafoglio dell'ennesima Major che l'ha ereditata nell'ennesimo merging di multinazionali. L'ultimo che se n'e' interessato e' stato Danny DeVito, che sarebbe perfetto per il piccolo italia- no. Ma ormai Will Sampson non c'e' elicottero che lo possa piu' rintracciare su questa terra. E uno come lui chi lo ritrova piu' ?

C'ERA UNA VOLTA IN AMERICA In un certo senso sono stato lo spermatozoo cui e' toccato di fecondare l'ovulo che ha generato questo bel pupo :-). Fui io alla fine degli anni '60 a segnalare a Leone "A mano armata", un piccolo romanzo uscito negli economici di Longanesi. C'era dentro una gran bella storia di amicizia (che e' quella che ancora oggi costituisce la prima meta' del film), e a Sergio piacque subito. Per "C'era una volta in America" ho fatto, in quella notte dei tempi, le prime ricerche di materiale nei favolosi archivi del NY Times; ho girato con gente della mafia e con un indimenticabile capitano della buoncostume una New York e un New Jersey che non si trovano certo sulle guide turistiche, visitando bi- sche, bordelli e autentiche fumerie d'oppio; e ho anche avuto il privilegio di conoscere scrittori come Sciascia, Mailer e Westlake, che in un modo o nell'al- tro hanno dato un contributo alla storia. Poi, mentre gli anni passavano e io mi rendevo conto che i progetti leoniani a- vevano ormai preso maestose cadenze pluridecennali (il film e' dell'81, mi pa- re, 10 anni tondi dopo "Giu' la testa"), dissi a Sergio che non potevo votargli il resto della mia esistenza - a meno di avere una fetta consistente della tor- ta. E' appena il caso di dire che non ne ebbi neanche una briciola : altrimenti il mio nome lo trovereste nell'elenco significativamente lunghetto degli sce- neggiatori che si sono avvicendati; e sopratutto in questo momento mi starei collegando da Papeete, anziche' da Fregene, comune di Fiumicino :-)

PER QUALCHE DOLLARO IN PIU' (IL DEGUEJO) Leone si sedeva in moviola con Morricone, che si annotava diligente su un suo quaderno scolastico ogni fotogramma da commentare con la musica. Davanti alla sequenza nella quale l'Indio (Volonte') saliva sul pulpito d'una chiesa sconsa- crata ad arringare la sua banda, Sergio borbotto' che li' sotto ci voleva un pezzo "tipo musica religiosa", pero' in qualche modo mescolato con il motivo del Degueyo. Ennio prese nota, e dopo qualche giorno si presento' con il tema musicale che, almeno per gli amatori del genere, e' ormai nella leggenda. Ve lo ricorderete, se non altro quando parte a tutto Dolby prima dello sparo nel duello finale: comincia con le prime note della Toccata e Fuga di Giovanni Sebastiano e poi continua con una sgaratissima tromba da Degueyo. Come da commissione.

VIVA VILLA ! Ma lo sapevate che "Viva Villa!" con Wallace Beery nacque praticamente come un film "di recupero" ? Nei primi anni '30 la MGM aveva scritturato S.M.Eisenstein per realizzare un lungometraggio sulla rivoluzione messicana. Il grande regista sovietico ebbe mano libera, un grosso budget e la collaborazione incondizionata del governo messicano, giro' per mesi e si ripresento' con "Lampi sul Messico". Ai tycoons hollywoodiani gli venne un mezzo colpo : si', era un grande affresco popolare, uno splendido docu-drama, ma praticamente senza "plot", senza "roman- ce" e senza "stars". Insomma dollari buttati, dal gretto punto di vista del botteghino. Pero' conteneva bellissime scene di massa, battaglie, epiche cavalcate, rivolte di peones. A qualcuno venne in mente che si potevano riutilizzare in un altro film. E infatti molte scene girate da Eisenstein costituiscono ancora oggi l'ossatura spettacolare di "Viva Villa!". Che rimane comunque un film molto bello, certo per merito della grande interpretazione di Wallace Beery, servito pero' da una eccezionale sceneggiatura scritta da Ben Hecht. Ho avuto la fortuna di averne una copia tra le mani, e di averla studiata a fondo per un certo progetto leoniano di remake poi tramontato. E' forse il testo per il cinema professionalmente piu' vicino alla perfezione che abbia mai letto, e non so cosa darei per essere capace di scriverne uno cosi'. Ci sono quattro o cin- que sequenze alle quali non riesco a ripensare senza un brivido. Chi se lo ricorda il processo iniziale, con gli impiccati messi da Villa al po- sto dei giudici ? E quella geniale invenzione-escamotage del personaggio del giornalista-testimone storico, poi tante volte riciclata, fra gli ultimi da O- liver Stone in "Salvador" ? E il finale, quando "il generale" ormai vecchio e imborghesito, viene sparato a tradimento e muore tra le braccia dell'amico americano. "Che scriverai questa volta di me, Johnny ?" "Oggi e' stato assassinato Pancho Villa, quest'uomo che tanto bene e tanto male ha fatto al Messico..." "Male ?" s'addolorava Wallace Beery sgranando gli occhi nella morte con un can- dore che non si puo' dimenticare. "Che male ho fatto, Johnny ?"

ONCE UPON A TIME IN THE WEST Rivedendo C'era una volta il West mi sono tornati in mente una quantita' di "dietro le quinte" della lavorazione. Ve ne racconto uno che e' esemplare, un vero succo concentrato di cinismo cinematografaro. Dei tre attori che interpretavano i killers della stazione, nella sequenza ini- ziale, uno (quello che si fa scrocchiare le nocche) penso' bene, per problemi suoi, di suicidarsi durante la lavorazione. Si butto' una sera, ancora nel co- stume di scena (il famoso "spolverino"), da una finestra di un hotel d'Alme- ria. Claudio Mancini, il direttore di produzione, accorso tra i primi a soccorrere il poveretto agonizzante, mi raccontava che si senti' tirare per la giacca, mentre una voce gli sussurrava imperiosa : "A Cla', il costume... Salva il co- stume!" Era Leone, che si preoccupava anzitutto di recuperare, magari all'obitorio come poi avvenne, gli abiti dell'attore che avrebbe dovuto fare ancora un giorno di riprese. Il giorno dopo infatti fu utilizzata una controfigura, ovviamente di spalle o nei campi lunghi, per sostituire il morto. Pero' poi mi ricordo che ancora mesi dopo, in moviola, quando Sergio cercava di montare la sequenza della stazione gli mancava sempre una inquadratura con un primo piano del suicida. "'Sto stronzo..." ringhiava regolarmente Leone. "Non se poteva ammazza' ventiquattr'ore dopo ?" Non e' che fosse particolarmente arido o spietato. Era semplicemente un regi- sta. Quelli bravi che conosco sono tutti cosi' : il film prima di tutto.

BONNIE AND CLYDE ALL'ITALIANA Negli ultimi tempi in cui in Italia si giravano piu' di duecento film l'anno, e i "listini" si facevano con i nomi degli attori di richiamo, i produttori usa- vano i contratti che avevano con gli attori come se fossero figurine. Per darti un esempio una volta uno mi telefono' e mi disse : "Ho la Muti e Villaggio, mi scrivi una storia ?" Io dissi subito che anche se Villaggio mi divertiva molto, l'idea di vederlo mettere le mani addosso alla Muti, sia pure in una finzione scenica, mi dava il voltastomaco. Lui disse chissenefrega, questi due contratti c'ho. E io cedendo come un drogato alla sola vista dell'anticipo scrissi con Vincenzoni una storia nella quale Ornella senza occhiali era praticamente cieca come Marylin in un vecchio film e non vedendolo poteva amare Paolo. Ma al pubblico credo che venne lo stesso il voltastomaco, perche' il film, fu- nestato anche dall'orrido titolo di "Bonnie e Clyde all'italiana", ebbe scar- sissimo successo.

FILM POVERI L'unico western "abruzzese" di cui ho notizie certe e' "Il grande si- lenzio" di Sergio Corbucci, film singolare se non altro perche' era girato qua- si interamente in paesaggi innevati. Fu girato nel Parco Nazionale, dalle parti di Pescasseroli. Ma certamente in decine di altri film di quel periodo un oc- chio appena addestrato puo' riconoscere i cavalli maremmani travestiti da mu- stang galoppare su e giu' per le colline brulle e sassose della Marsica. Non so se qualcuno abbia mai fatto un censimento dei western-spaghetti, ma di sicuro per una buona decina d'anni ne devono essere stati girati almeno un mi- gliaio. Solo un venti per cento di questi avevano un budget sufficiente a gira- re gli esterni in Spagna, dove tra gli altipiani di Castiglia e l'Almeria pul- lulavano i villaggi western stabilmente costruiti. L'altro ottanta per cento si arrangiava alla casereccia. Anche a Roma c'erano "villaggi western" fissi, dove bastava cambiare due inse- gne e mezza facciata per passare da Tombstone a El Paso : me ne ricordo a Cine- citta', a Dinocitta', alla Elios sulla Tiburtina, dove ora Lombardo gira le te- lenovelas 'in elettronica'. Quanto agli esterni, molti avevano dei budget cosi' irrisori che perfino l'A- bruzzo diventava una "location" irraggiungibile quanto l'Arizona. Nacque cosi' un West a un'ora di macchina da Roma, sufficiente a evitare costosi "pernotta- menti" della troupe. Manziana per i boschi, i Pratoni del Vivaro per le vallate solitarie, le dune di Capocotta per i deserti, le discariche nell'Aniene spac- ciate per i gorghi argillosi del Pecos. Al culmine del successo di questo "genere" cinematografico, la richiesta di "specialisti" sul mercato di Cinecitta' era tale che vedevi i piu' sgangherati generici improvvisarsi da un giorno all'altro "cavallari" o "maestri d'armi" (che poi sarebbe il tizio che inventa e dirige le coreografie delle scazzottate e in genere di tutte le acrobazie degli stuntmen). Una volta uno di questi personaggi mi racconto' la sua storia, che attraversava almeno vent'anni di "generi" del cinema italiano. Aveva cominciato con la serie dei mitologici, ma s'era appena abituato al gonnellino e alla lotta grecoromana che per colpa di Leone aveva dovuto imparare a cascare dai tetti, folgorato da una Colt. Era appena riuscito a montare a cavallo decentemente che i western e- rano stati sostituiti dagli 007, e poi dai kung-fu, e poi dai mafiosi. Ogni volta una specializzazione diversa, nuovi rischi, nuove fratture composte. Alla fine era arrivato il genere "erotico-porcellone". "Dotto'" mi disse il ti- zio "L'altro giorno m'hanno offerto un ruolo de zio che guarda la nipote ignuda dal buco della serratura e se masturba." E concludeva, con una nobilta' e un piglio che manco Vittorio Gassman : " Allora ho detto no, basta : lascio il ci- nema !" Naturalmente ne ho fatto subito un soggetto, di questa storia che trovo straor- dinaria. Si chiama "Una vita per il cinema" : ma e' rimasto nel cassetto, per- che' ci vorrebbero troppi "set", costerebbe una fortuna. E poi, tra le mille superstizioni di questo mestiere, ce n'e' una che dice che non si fanno film sul cinema, portano sfiga. "E Truffaut con La Nuit Americaine?" ho chiesto una volta. "Difatti e' morto giovane," mi e' stato risposto.

MIO NOME E' NESSUNO (IL) "Il mio nome e' Nessuno" nacque da un'idea (del cognato di Leone, pensa te) alla quale in una prima fase collaborai anch'io. Si trattava, com'e' evidente dal titolo che non e' mai cambiato, di un adattamento western dell'Odissea, dove Ulisse era un prigioniero confederato scappato da un campo unionista, che tornava dopo infinite peripezie per trovarsi la fattoria invasa da "carpetbag- gers" yankees che gl'insidiavano Penelope. Sterminio come da Omero e fine. Poi la cosa divento' un'operazione sostanzialmente produttiva-commerciale per- che' Sergio volle Terence Hill, il cui successo con i film di Barboni-Clucher in qualche modo voleva patronizzare e risucchiare nel proprio 'filone'. Il soggetto cambio' adattandosi al personaggio, io andai a fare altro sentendomi inadeguato al genere Trinita', del quale del resto lo stesso Leone diceva sem- pre:"non lo capisco, nun me fa ride." Anche per questa ragione Sergio non penso' mai di dirigere quel film. Scelse come regista un suo ex-aiuto che aveva gia' girato dei buoni western, Tonino Valerii, e lo caldeggio' molto generosamente con Henry Fonda che esitava ad accettare un italiano "sconosciuto", e con Terence Hill che si sentiva un po' snobbato dal maestro. La lavorazione fu difficilissima, perche' si tratta dell'unico western in qualche modo "leoniano" i cui esterni siano stati girati all'80% *veramente* negli Stati Uniti, tra il New Mexico e New Orleans. Problemi nuovi ogni giorno, at- tori irrequieti, costi alle stelle, unions all'arrembaggio. Valerii e' un introverso ma e' tostissimo, e si ritrovo' a battersi solo con- tro tutti, finche' accadde la cosa piu' funesta che possa verificarsi durante la lavorazione d'un film, quando assieme a ogni sole che tramonta se ne vanno de- cine se non centinaia di milioni : ci fu uno showdown terribile, da "o lui o io", tra regista e direttore di produzione, che era Piero Lazzari, un altro di prima scelta. Sergio se n'era stato dietro le quinte mostrando sempre estremo rispetto per il regista, ma aveva visto i "rushes" giornalieri si capisce, e aveva capito che nonostante tutte le lacrime e il sangue il film stava venendo benissimo. Cosi' non ebbe esitazioni a intervenire da produttore : liquido' Lazzari e lo sosti- tui' col fido e inossidabile Claudio Mancini. Poi, giustamente, per rassicurare regista, attori e troupe, un bel giorno si presento' sul set. C'erano un paio di fotografi mandati dall'ufficio stampa, gli chiesero di sedersi dietro la Mitchell, da regista. "Se Tonino permette," disse Leone. E Tonino non solo si dichiaro' onorato, ma propose a Sergio di dirigere lui la prossima piccola scena che era in programma quella giornata. Cosi' Leone mise l'occhio al buco, ordino' ciak, azione, e la scena fu immor- talata in molte foto, poi divenute celebri perche' fecero il giro un po' di tutti i giornali del mondo, com'e' dovere e vanto di un bravo ufficio stampa. Lo devo dire che inevitabilmente, da quel momento, tutti quanti, nell'ambiente e fuori, dissero : "si', in realta' e' stato Leone il vero regista di quel film, e lo ha salvato dal disastro d'un regista incapace" ? Ora, io sono sicuro che Sergio non aveva astutamente previsto questo effetto. Ma ci fu, e in seguito lui mai, neanche una volta, intervenne per dire espli- citamente che non era vero, anche se il povero Tonino ne resto' letteralmente schiantato, come professionista e sopratutto come essere umano. Ma cosi' era fatto Leone, capace di incredibili prove di generosita' e di in- generosita' quasi nello stesso respiro. Tutti quelli che hanno lavorato per lui, amandolo fino alla devozione perche' era difficile fare altrimenti, si sono prima o poi trovate sulla pelle di queste cicatrici : perfino Clint Eastwood, e Morricone, e Delli Colli. E cosi' oggi, siccome dopo il passaggio di ieri sera un amico al telefono mi ha ritirato fuori quel vecchio "ma tanto si sapeva", ho sentito il dovere di rubare mezz'ora alla cosa che sto scrivendo per ristabilire una piccola verita'. Anche se magari non gliene frega niente a nessuno di una verita' da cinema, finzione su finzione. Ma capita che persino gli sceneggiatori, quando non l'affittano, si ritrovino l'ingombro di una coscienza.