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PIETRO GERMI
Nella brochure ufficiale dl festival di Cannes non trovo menzione di Pietro Ger-
mi, che pure si aggiudico' due Palmares d'Oro prestigiosissimi : uno per il mi-
glior film con "Signore e Signori", e l'altro con "Sedotta e abbandonata"(per il
miglior protagonista maschile : ma era Saro Urzi', un non professionista 'in-
ventato' da Germi.)
Anche su Tele+1,che sta presentando un ciclo "storico" di vincitori del Festi-
val, ieri s'e' visto il modesto "Per grazia ricevuta" di Manfredi (premio
opera prima...), ma di Germi nessuna traccia, neppure nella memoria di Irene Bi-
gnardi che ha curato l'articolo di presentazine.
Questo processo di rimozione perfino nel ricordo di uno dei piu' grandi registi
italiani e' tutt'altro che inconscio. Germi era un uomo di una integrita' perfino
esagerata : un moralista deamicisiano che rifiutava i compromessi, i giochi di
potere, le complicita' e le coperture ideologiche, e diceva sempre in faccia a
crtici e colleghi le verita' piu' sgradevoli. Siccome era indiscutibilmente bravo,
dovevano rispettare se non altro il suo lavoro e il suo successo.
Ma adesso che si e' tolto dai piedi, lo hanno semplicemente cancellato dalla sto-
ria del cinema italiano.
PETER BOGDANOVICH
Sfogliando i nuovi programmi di Tele+1 trovo una rara chicca che mi affretto a
segnalarvi : va in onda domani notte, giovedi' 2, alle 0,15, ed e' un piccolo
film del '68, "Targets" (Bersagli), il primo film diretto da Peter Bogdanovi-
ch.
Lo vidi assieme a Leone mentre finivamo la sceneggiatura di "Giu' la testa". E-
ra, questo, un film che Sergio aveva deciso di produrre soltanto, e quell'esor-
diente americano pareva avere personalita' e "mano" giusta per dirigerlo.
Bogdanovich venne a Roma e cominciammo a fare delle riunioni abbastanza esila-
ranti. Leone gli raccontava la sceneggiatura scena per scena : anzi, gli detta-
va ogni movimento di macchina, finendo invariabilmente col descrivere con le
mani a taglio sugli occhi la piu' classica delle sue inquadrature. "ZOOM!",
gridava cercando di entusiasmare l'interlocutore.
"I never use the zoom" ribatteva gelido Peter. "I HATE zooms". Bogdanovich ave-
va grossi problemi di denaro e il contratto con Leone sarebbe stata la salvez-
za, ma aveva anche delle idee molto precise e ostinate sul modo di girare un
film e non mollava d'un centimetro. Fini' che dopo qualche settimana Leone lo
caccio', sentenziando : "E' uno stronzo."
"Giu' la testa" lo diresse poi Giancarlo Santi, l'aiuto di Leone. Ma fu regista
per un giorno solo. Sergio aveva spiegato a Rod Steiger che lui sarebbe stato
dietro Santi ogni secondo e quindi era come se il film lo dirigesse lui in per-
sona. Steiger annui' e disse che l'indomani avrebbe mandato sul set, al suo po-
sto, suo cugino. E che Leone non si preoccupasse perche' sarebbe stato come se
il film lo interpretasse lui. Fu cosi' che Sergio Leone si decise a dirigere
"Giu' la testa", e non credo che se ne sia pentito, alla fine.
Quanto allo "stronzo", tornato negli Stati Uniti giro' uno dopo l'altro tre
splendidi film : "Paper Moon", "Last Picture Show" e "What's up, Doc ?". Poi
s'innamoro' di una stupenda Cybill Shepherd e, con lei e per lei, infilo' una
serie di fiaschi. Molti allora dissero che dietro ai suoi primi successi c'era
la mano della ex moglie, Polly Platt - bruttina, sedere basso, ma uno dei mi-
gliori 'art director' del cinema americano. Potrebbe anche esserci qualcosa di
vero.
BILLY WILDER
Billy Wilder (non faccio name dropping, il venerato grandissimo maestro mi ono-
ra effettivamente e da quasi vent'anni della sua corrosiva benevolenza : ogni
qualche mese gli telefono la mia affettuosa devozione e lui regolarmente la
prima cosa che dice e' "no, my friend, non sono ancora morto") - Wilder dicevo
ha girato in Italia nei primi anni 70 un film intitolato "Avanti!" (qui chiama-
to mi pare "Che e' successo fra mio padre e tua madre" o qualcosa del genere).
Non e' certo tra i suoi migliori, pero' pullula di caratteristi italiani, spe-
cie napoletani, da Gianfranco Barra a Franco Angrisano. Wilder era entusiasta
di quegli attori, diceva che sono i migliori del mondo e che magari averli a
Hollywood. Parola del Signore, come direbbe Giobbe.
ELIO PETRI
E' da ieri, da quando ho aperto la pagina che gli ha dedicato Repubblica (non
so gli altri giornali, ditemi per favore cos'hanno scritto), che penso che lo
devo fare. Ho traccheggiato una giornata, dicendomi che le commemorazioni met-
tono tristezza, che chi legge si tocca, e che dopotutto mi pagano anche perche'
lavori, ogni tanto, invece di perdere tempo in giro per i bbs. Ma il motivo
vero e' che scoprire che sono passati gia' dieci anni dalla morte di Petri m'ha
lasciato quasi stordito. Dio santo, pare ieri.
Di Elio, se vi va di arrivare in fondo, vi regalo un ricordo molto privato, del
suo ultimo film che quasi nessuno conosce, perche' non e' mai stato girato ed
e' rimasto incompiuto, sulla carta della mia olivetti d'allora. Venne da me con
una sceneggiatura che si chiamava "Chi illuminera' la grande notte ?". Era un
copione stranito, espressionista, di un pessimismo plumbeo e disperato. Ma ave-
va come partenza una bellissima idea : un uomo che con due occhiali neri e un
bastone bianco si metteva quasi per gioco a fingersi cieco, e casualmente in
quella veste si trovava, unico possibile testimone, sul luogo di un delitto. E
da quel momento era costretto a continuare la sua finzione, per non essere uc-
ciso a sua volta.
Lo dissi subito : la sceneggiatura era tremenda, ma la partenza era degna di
Hitchcock. Petri disse che proprio per questo mi aveva cercato, per una certa
mia professionalita' particolarmente "americana". Lo disse con l'ironia di sem-
pre : ma era molto sincero nella voglia di tornare a mostrare a tutti, dopo gli
ultimi brutti film, che era sempre il grande regista di "A ciascuno il suo",
del Cittadino, della Classe Operaia. Io ce la misi tutta, m'inventai un intrigo
internazionale pieno di colpi di scena, di ciechi veri e finti a dozzine, c'era
perfino una radio privata fatta tutta da ciechi per i ciechi.
Scrivere per Elio era un'esperienza emozionante. Possedeva una estrema onesta'
intellettuale : non ti passava il minimo trucco del mestiere, ma sapeva anche
cogliere ogni sfumatura di una pagina scritta. Aveva grande rispetto del lavoro
altrui : mi ricordo che faceva dei microscopici segni sul copione, a lato dei
punti che voleva discutere, e poi riportava i richiami nei fogli che ricopriva
di una sua straordinaria perfetta e minutissima calligrafia oserei dire in cor-
po sette. E poi per non imbarazzarmi con la sua presenza mentre li leggevo, ve-
niva sotto casa mia e li lasciava nella cassetta della posta, aspettando al bar
dell'angolo che io studiassi con calma i suoi appunti. Anche questo era Petri.
L'aggettivo che probabilmente lo definisce meglio, anche se e' un bel po' fuori
moda, e' "rigoroso". Commemorandolo quasi tutti hanno giustamente ricordato
quanto lo abbia segnato il suo distacco dal comunismo. Da giornalista dell'"U-
nita'" prima, e da cineasta politicizzato poi, Petri era stato un comunista del
tipo per me insopportabile, uno stalinista, una guardia rossa. Ma era davvero
rigore morale, lo stesso che poi l'aveva portato a ripensare tutto e a staccar-
si dal Sogno : un distacco lacerante e sofferto come non ho mai trovato in nes-
sun altro "ex".
Nessuno invece che io abbia letto o sentito ha ricordato l'altro evento che ha
influito in modo certo determinante anche sul suo lavoro. A cinquant'anni Elio
s'era innamorato d'una donna piu' giovane di lui di quasi trent'anni. Anche vo-
lendo, non era uomo da sotterfugi e doppie vite, e una moglie di grande carat-
tere, ferita nell'orgoglio, l'aveva letteralmente chiuso fuori dalla porta del
suo bell'attico sul Lungotevere. Lui soffriva incredibilmente questa situazio-
ne, era come se fosse deluso di se'. "Sai," mi disse una volta "un vero uomo
e' quello che e' capace di essere felice scopando sempre con la stessa donna
per tutta la vita."
Il suo male comincio' ad aggravarsi e il progetto di film ando' in stallo. Elio
dopo un lungo silenzio un giorno di quell'estate di dieci anni fa mi telefono'
dandomi un appuntamento a Piazza del Popolo. Quello era un distacco, e in
qualche modo lo capii subito, vedendolo cosi' terreo e smagrito. Ma era con sua
moglie, e dal modo con cui mi spiava sul volto i segni della piacevole sorpresa
che stavo provando capii che era proprio quello lo scopo di quell'incontro :
mostrarmi che era tutto a posto : anche se Giuliana e Paola e lui stesso conti-
nuavano a soffrire quell'amore, tutto era finalmente "rigoroso" come doveva es-
sere.
Infatti era tranquillo, quasi rasserenato, lui che aveva orrore della sola idea
della morte. Mi strinse un braccio e disse con affetto, senza piu' nessuna
traccia della vecchia ironia : "Stai bene, sembri un marinaio...". E dietro le
spalle di sua moglie che si avviava verso Rosati mi fece un grande sorriso da
bambino accolto nel lettone grande, perdonato e sicuro, che e' l'ultima cosa
che mi va di ricordare di lui.
FEDERICO FELLINI
(Agosto 1993)
Ieri sera ho incontrato Leo Pescarolo, il produttore che avrebbe dovuto inizia-
re il 15 settembre la pre-produzione del prossimo progetto di Fellini. L'ho
trovato molto preoccupato, e non solo per i problemi finanziari provocati dal
rinvio sine die del film : il maestro sta veramente male, non da' segni di mi-
glioramento.
"Povero Federico" m'ha detto, "Sono sicuro che preferirebbe morire piuttosto
che rimanere un invalido, lui cosi' vivo, irrequieto, curioso. E poi" ha ag-
giunto, "pensa te, passare il resto della vita in una poltrona a rotelle, con
Giulietta che non ti molla un minuto..."
STENO
Curiosando in libreria m'e' capitato tra le mani un volumetto edito da Sellerio
: "Sotto le stelle del '44". L'autore e' Steno, e cioe' Stefano Vanzina, e
cioe' ancora un regista con il quale e per il quale ho scritto quattro film -
il che significa molti mesi trascorsi assieme, qualche baruffa creativa, tante
cose imparate, un'amicizia troppo presto interrotta, nell'88, quando se n'e'
andato.
Si tratta di un piccolo diario, ritrovato fra le sue carte, come si suole fa-
stidiosamente dire, dai familiari. Intercalato da ritagli di titoli di giornale
(storici o semplicemente singolari) e da suoi articoletti scritti per fogli u-
moristici, "Sotto le stelle del '44" fa la cronaca di tre mesi, dall'agosto al-
l'ottobre di quell'anno.
In una Roma da poco "liberata", che ha per confini il Caffe' Greco, l'Aragno,
Via Veneto e Nino a via Borgognona, in un suo minuzioso annotare quotidiano,
Steno fa senza saperlo un ritratto affascinante del brodo primordiale dal quale
di li' a poco uscira' un grande cinema italiano. Ed e' un'emozione da personag-
gio di "Ritorno al Futuro" sfogliare questo diario sapendo gia' chi poi e' di-
ventato Dino...sauro e chi e' rimasto rospo.
Mi pare una lettura di grande interesse anche, e forse soprattutto, per chi non
e' addetto ai lavori. Steno e' un cronista di tagliente intelligenza - e mi
sembra di risentire la sua cupa, ironica tonalita' baritonale (che stupiva sem-
pre uscendo da quel corpo d'uccellino) in certi giudizi, idee, lampi d'immagi-
nazione :
"E' una di quelle persone che dicono "io", "la mia idea", varie volte in mez-
z'ora, e che ti danno un dolore quando ti accorgi che su una cosa la pensano
come te."
"Caravaggio in pittura e' come Wallace Beery fra gli attori : un formidabile
gigione, ma che t'incatena e ti fa applaudire...Raffaello continua a mostrarsi
per quello che e' : come una di quelle persone tanto intelligenti che non dico-
no mai nulla d'intelligente."
"Ricordarmi come argomento descrittivo del momento : Registi Disoccupati. (Caf-
fe' in cucina, martedi' mi finiscono i soldi, vendita di scarpe per avere sca-
tolette, intanto sei seduto su una poltrona che e' servita ne La Cena delle
Beffe)".
Tullio Kezich, uno dei pochi critici che stimo, oltre a curare il volumetto vi
ha allegato un nutrito "Alfabetiere del Diario Futile", che e' un gustoso bae-
deker di persone, giornali e fatterelli indispensabile per orientarsi, a mezzo
secolo di distanza, in quel momento di storia spicciola. Momento che e' remoto,
eppure ha curiose assonanze con quello che viviamo : la caduta di un regime ma
con i furbi inamovibili che gia' sgomitano per rientrare, la vaga preoccupazio-
ne per l'oggi e il non saper bene cosa fare per il domani.
Beh, spero di avervi messo voglia. A me l'unica cosa che non e' piaciuta molto
e' il titolo. Anche a Kezich, credo, dal momento che ci tiene a precisare che
l'hanno scelto i figli. No comment, va' : Steno le battute troppo facili me
l'ha sempre bocciate...
VITTORIO DE SICA
Beh, De Sica notoriamente era capace di far recitare anche un lavabo di marmo,
e dalla Loren ha cavato prove d'attrice anche di molto superiori, come nella
"Ciociara" o nell'"Oro di Napoli".
Quanto ai "Girasoli", l'ho visto quand'e' uscito, ed era il '69, un bel quarto
di secolo fa. Considero De Sica in assoluto il Migliore del nostro cinema, ma
ricordo di aver trovato quel particolare film piuttosto imbalsamato e di manie-
ra, molto "confezionato" per il mercato americano dove all'epoca sia Loren che
Mastroianni erano "hot stuff".
Ricordo anche che qui il film ando' malaccio come critica e botteghino, e solo
un po' meno peggio negli Stati Uniti. Eravamo tutti un po' troppo insessantot-
tati ? Puo' essere. Pero' tieni conto anche che in quegli anni il buon film me-
dio italiano si chiamava "Il sorpasso", o "Un cittadino al disopra di ogni so-
spetto", e perfino "C'era una volta il West". Lo dicevo proprio l'altro giorno
: ne avevamo almeno una dozzina per stagione, e inevitabilmente il palato si
faceva un po' piu' fino.
Capisco senza alcuna ironia che in tempi grami da Mediterraneo anche "I Giraso-
li" (ben fatto, ben recitato) possa apparire (e magari sia, al confronto) un
film eccezionale. Ma come tutti gli ultimi di De Sica appartiene a un periodo
"in calando". Del resto e' successo a tutti gli altri grandi, da Fellini a Vi-
sconti. E, ancora piu' clamorosamente, a Rossellini, del quale Ennio Flaiano u-
sava dire : "E mica possiamo far scoppiare un'altra guerra mondiale solo per
fargli fare un altro bel film..."
SERGIO LEONE
"Per un pugno di dollari", che pure avrei potuto scrivere,
e' l'unico western di Leone che mi manca. Ma gli altri li ho fatti,
o dovrei dire sofferti, tutti. A "Per qualche dollaro in piu'" e a "Il Buono,
il Brutto, il Cattivo" ho lavorato come 'negro' personale di Leone. Ero
giovanissimo e questo era un prezzo che si usava pagare.
Inventavo scene, riscrivevo di sana pianta dialoghi che poi Sergio spacciava
per farina del suo sacco per non offendere lo sceneggiatore "ufficiale", che e-
ra Vincenzoni. (Luciano a quei tempi neanche sapeva che esistevo : ma dopo sia-
mo diventati amici fraterni al punto di scrivere in coppia piu' di venti film).
Poi finalmente ho raggiunto l'onore della firma nei titoli di testa con la sce-
neggiatura di "C'era una volta il West" e il soggetto e la sceneggiatura di
"Giu' la testa".
Da Sergio Leone ho imparato quasi tutto quello che so di cinema, nel bene e nel
male. Da lui ho avuto grandi soddisfazioni sul piano professionale e grandi de-
lusioni su quello dei rapporti umani, che per me contano piu' di ogni altra co-
sa. Abbiamo passato quasi vent'anni, io ad andarmene sbattendo la porta e giu-
rando "mai piu'", e lui a trovare il modo di riportarmi indietro ogni volta
che gli servivo.
Negli ultimi tempi mi aveva cercato di nuovo : sapevo che non stava bene, ma
l'avevo trovato molto migliorato come persona, aveva perso quel cinismo spieta-
to che temo sia un segno caratteristico di tutti i grandi registi. Ma io stavo
in guardia, diffidente, aspettando di capire che cosa gli serviva da me questa
volta. E solo un momento troppo tardi ho capito che la morte mi aveva portato
via un amico ritrovato.
BERNARDO BERTOLUCCI
Nella sua prima versione, la sceneggiatura di "Ultimo Tango a Parigi" era di
Kim Arcalli, uno splendido essere umano (che ci ha lasciati troppo presto come
succede ai migliori, vedi Troisi) e un bravissimo montatore che sapeva anche
scrivere molto bene (o viceversa, come preferite).
L'idea di base (due sconosciuti si disputano un appartamento vuoto da affitta-
re, e finiscono a letto piu' o meno innamorandosi) era ripresa pari pari, non
so quanto involontariamente, da una vecchia commedia del teatro "borghese",
classico repertorio compagnia Pagnani-Cervi : "Due dozzine di rose scarlatte",
di Aldo de Benedetti.
Su quella base Arcalli e Bertolucci avevano elaborato una storia nello stile un
po' algido ed elegante del "Conformista", meditando perfino di riutilizzare co-
me protagonista lo stesso Trintignant. Ma proprio quel film, che aveva avuto un
ottimo successo di critica negli Stati Uniti, consenti' al giovane Bernardo di
ottenere da una Major addirittura l'insperabile : Marlon Brando.
Il Mito arrivo' sul set e comincio' immediatamente a scassare le palle sui dia-
loghi secondo tradizione : "E perche' devo dire cosi' ?" "Ma questa battuta non
mi viene naturale..." eccetera. Bertolucci non e' tipo da cacciare la pistola (come
fece Gillo Pontecorvo per domare Brando ai tempi di Queimada) ed ebbe la geniale
intuizione di dire : "Marlon, la storia e' semplice, scordati il copione, di' quello
che vuoi e come ti viene...."
Sui risultati di questo colpo di genio Norman Mailer scrisse poi un piccolo
saggio il cui succo era piu' o meno : "Se io mi mettessi a verbalizzare la mia
libido pubblicamente e a ruota libera mi schiafferebbero in galera per osceni-
ta', e invece se lo fa Marlon Brando diventa uno spettacolo che vale il prezzo
d'un biglietto di cinema."
E infatti, se ci pensate, "Ultimo Tango" altro non e' che una lunga liberatoria
seduta psicanalitica filmata dalla candid camera di Bertolucci, e della quale
il culetto di Maria Schneider, che allora sfiorava il sovrannaturale, e' fonda-
mentale e indimenticabile coprotagonista.
STORIA DI UNA BUFALA
Eh, "I Paladini"... Ecco una storia esemplare di come un buon copione puo' di-
ventare un brutto film.
Il produttore era Nicola Carraro. Bel ragazzo, simpatico, affatto stupido, un
Rizzoli per parte di madre, con in tasca una mappata di miliardi (salvati in
tempo dal disastro piduista del "Corriere della Sera" che invece di li' a poco
avrebbe coinvolto fino alla galera suo cugino Angelone) e con una gran voglia
di investire quei soldi nel cinema, in qualcosa di buon livello internaziona-
le.
In cerca di idee, Carraro venne da Vincenzoni e da me, perche' eravamo la cop-
pia di sceneggiatori piu' "internazionale" disponibile su piazza, pendolando da
anni, ormai, tra Beverly Hills e via Giacinta Pezzana. Non c'era neanche biso-
gno di essere il Gatto e la Volpe per sapere che a un produttore, specie se no-
vellino, bisognava dare il paletto di un successo gia' sperimentato cui appen-
dere le proprie speranze. E siccome in quella stagione uno dei maggiori succes-
si era stato il bell'"Excalibur" di John Boorman, ci venne in mente che nella
nostra letteratura esisteva un capolavoro capace di andare in quel posto perfi-
no a tutto il ciclo di Artu' e della sua tavola rotonda : ed era l'"Orlando Fu-
rioso".
Quando lo rilessi, per la prima volta dopo gli anni di scuola, ora con l'occhio
cinico dello sceneggiatore, fu una rivelazione entusiasmante. Non me lo ricor-
davo che scoppiettasse di tante invenzioni, tante idee, e quanto "moderne"! Se
messer Ludovico fosse resuscitato a Hollywood avrebbe guadagnato piu' di Joe E-
sterhaz...
Con Luciano ci dicemmo che dovevamo scrivere come se a dirigere il film dovesse
poi essere Sergio Leone. E ci venne fuori con rara facilita' un copione bellis-
simo : lo dico spudoratamente perche' e' vero, ma sopratutto perche' per l'ot-
tanta per cento almeno era carne e sangue, dolore e gioia, avventura, ironia e
magia di un terzo invisibile bravissimo sceneggiatore chiamato Ariosto.
Fin quasi dall'inizio, Carraro scelse come regista Giacomo Battiato. Un gattone
gentile, molto acculturato, con alle spalle della pubblicita' elegante e assai
ben fotografata, qualche regia d'opera, e di cinema nessuna esperienza, se non
volete considerare tale il fatto di essersi messo da poco con l'ex moglie di
Giancarlo Giannini.
Con noi Battiato si comportava come Fede con Berlusconi. Traboccava di devozio-
ne e rispetto, qualsiasi stronzata gli facessimo leggere la trovava sublime, ci
diceva mostrando il braccio : "Guardate ragazzi, m'e' venuta la pelle d'oca!
Grazie, grazie, siete bravissimi !" Insomma, fini' per ammansire anche questi
due caproni diffidenti che credevano d'essere rotti ad ogni insidia.
Oddio, talvolta capitava gli si spiegasse una scena e lui dicesse : "Oh, si'...
Qui li vedo su una spiaggia, e' notte, parlando cucinano un pesce e i riflessi
del fuoco danzano sull'argento delle scaglie e su quello delle armature..." Con
Vincenzoni ci si guardava un po' preoccupati e si diceva gentilmente che a par-
te che le armature piu' che simili alla segnaletica ANAS le immaginavamo "vere"
e segnate di colpi, di polvere, di sangue - comunque piu' che un barbecue a
Santa Monica c'interessava raccontare bene sentimenti ed emozioni... "Certo,
certo," si ripigliava lui rassicurandoci.
Alla fine Carol Levi, grande agente, convinse la Warner a entrare nell'affare
come partner di Carraro con cinque milioni di dollari. Poiche' sia il produtto-
re che il regista erano per loro degli sconosciuti esordienti era evidente che
l'unica "star" del pacchetto, una volta tanto, era la sceneggiatura. Era la
prima volta che una Major rischiava tanti soldi su uno script venuto dall'Ita-
lia. Carraro e Battiato ringraziarono commossi gli sceneggiatori e partirono
per LA a "chiudere il deal".
Le prime notizie allarmanti che ci giunsero riguardavano il cast. Orlando, An-
gelica, Ruggero erano diventati tutti belloni da telenovela : Rick Edwards !?
Tanya Roberts !? Addirittura RON MOSS, che anche se non era ancora Ridge aveva
gia' quella faccia da Beautiful ?!?!?
Al telefono tuttavia regista e produttore ci consolavano dicendo che gli ameri-
cani erano entusiasti del copione. Anche se chiedevano qualche piccola modifica
al plot... "Tipo ?" rantolammo presaghi del peggio. Tipo che non se ne parlava
neanche che Rinaldo morisse, era troppo simpatico. E poi Angelica e Orlando si
dovevano mettere insieme e vivere felici e contenti forever after. Per gli ame-
ricani era proprio escluso che lei la desse a tutti tranne che al protagonista,
e che la storia finisse con l'eroe reso folle dal dolore.
Cercammo disperatamente di convincerli che erano proprio quegli elementi a fare
la differenza tra un swordandsorcery mieloso e uno dei capolavori della lette-
ratura mondiale. Che sarebbe stato come fare un adattamento dell'Amleto con lui
che si fidanza con Ofelia, scopre che papa' e' morto di colica e zio e' inno-
cente e tutti vanno a fare un picnic. Ci rifiutammo di cambiare una sola virgo-
la in quel senso demenziale, e implorammo Battiato di spiegare, di battersi, di
difendere il copione e il film che avevamo tanto amato. "Certo, certo," mormo-
ro'. E fu l'ultima volta che si fece sentire.
Quando mesi dopo ci organizzarono una proiezione del film girato si guardo' be-
ne dal farsi vedere. La versione americana dei Paladini si chiamava "Hearts and
Armour"(!) ed era il teatrino insulso che per fortuna pochissimi hanno pagato
un biglietto per vedere. Pieno di armature scintillanti, di fiamme danzanti su
pesci e altre bellurie da spot del mulino bianco. E naturalmente c'era il lie-
tissimo fine richiesto, altro che furia d'Orlando.
Il fatto che un regista fosse stato disponibile a qualsiasi compromesso pur di
girare il suo primo film "per gli americani" lo avremmo anche compreso e perdo-
nato. Quello che ci feri' a morte fu l'improvvisa certezza che il giovanotto ci
aveva preso per il culo fin dal primo momento, blandendoci quando detenevamo
"il potere" rappresentato dalla bella storia - ma convinto dentro di se' che
quello che gli dicevamo, di personaggi, di sentimenti, d'ironia, di emozioni,
fossero tutte stronzate insignificanti, mentre quello che contava e che aveva
in testa fin dall'inizio era girare quel suo bel carosellone di un nulla ben
fotografato, quel campionario di bidoni di latta lucidata al Sidol con sopra
tante belle faccine da cazzo.
Volarono raccomandate, e gli rifacemmo stampare i titoli di testa togliendo i
nostri nomi da adattamento e sceneggiatura. L'ANSA diffuse un nostro comunicato
sulla vicenda ma non avemmo piu' di poche righe in corpo sei su tre o quattro
giornali, e dieci minuti d'intervista in una trasmissione radio del mattino. E
questo e' piu' o meno lo standard di quanto contano gli sceneggiatori una volta
che il film e' finito.
Io dico sempre che siamo una specie di spermatozoi del cinema. Quando si arriva
al battesimo del pupo, chi ci pensa piu' a quella scopatina di nove mesi fa ?
UN CERTO TIPO DI REGISTA
Il film (Cassandra Crossing) e' effettivamente una mezza bufala di sontuosa
confezione, ma da un punto di vista industriale e' anche un rispettabile esempio
di quello che il cinema italiano riusciva a combinare (il cast tecnico, da Guarnieri in giu', e'
quasi tutto nostro) quando i nostri produttori si chiamavano Ponti, De Lauren-
tiis (Dino pero'), Cristaldi, Grimaldi e si facevano rispettare dalle Major
producendo sciocchezzuole come "Il Dottor Zivago" di David Lean.
La differenza fondamentale tra quei vecchi pirati fantasiosi e i pavidi giova-
nottini che ci sono rimasti oggi, preoccupati solo di pitoccare i "diritti di
antenna", sta sopratutto nella sfrontata capacita' che i primi avevano di "pen-
sare in grande". Oggi il cinema italiano sembra diventato quella pubblicita'
del "gusto stretto": tutte storielle minimaliste di fatterellucci e sentimenti-
ni che per mandare la gente a spendere il diecimila chiusi in un buco scomodo
senza aria condizionata e rischiando di farsi fregare l'autoradio ci vorrebbe
la cartolina-precetto.
Per "Cassandra" poi un discorso a parte meriterebbe il regista, che era un gre-
cone estroverso e baffuto di nome George Pan Cosmatos, il cui nome sta iscritto
a caratteri d'oro nella mia personale Hall of Fame dei Magnifici Cialtroni del-
la Regia (dove "cialtrone" ha un valore picaresco e ammirato, intendiamoci).
E' una categoria speciale, di registi con pochissimo vero talento filmico, ma
di sicuro carisma, gran domatori di troupes, accaparratori di buoni script, af-
fascinatori di attori, rassicuratori di produttori : doti queste che sommate
assieme danno almeno il 90% dei motivi per i quali serve un regista per realiz-
zare un film. E infatti spesso il MCdR riesce a centrare un grosso successo,
sul quale campa poi di rendita per almeno una decina di successivi flop.
Capostipite indiscusso di questo genus e' per me Terence Young, ma potrei cita-
re anche Robert Hossein e John Frankenheimer. In dimensioni meno planetarie si
potrebbero iscrivere anche un paio di registi nostri di cui non faccio il nome
: uno perche' non c'e' piu' e gli ho voluto un gran bene nonostante tutto (ma
no, non e' Leone :-) ; l'altro perche' e' troppo simpatico : come segnale di
appartenenza al club dei MCdR aveva tra l'altro il vezzo di pretendere che la
produzione gli procurasse ogni mattina sul set una gardenia fresca da mettere
all'occhiello, o non batteva il ciak. Questo naturalmente girando un film nel
Sahara :-)
Poi ci sarebbe anche Roman Polanski, cooptato d'autorita' nel club quando chie-
se ed ottenne proprio da Carlo Ponti una Rolls con due autisti, uno addetto so-
lo ad aprirgli lo sportello scappellandosi. Ma e' un fuoriquota perche', se e
quando gli gira, e' pure uno dei migliori registi al mondo :-)
I VANZINA
Assieme a Vincenzoni ho scritto una mezza dozzina di film per quel piccolo
grande uomo e regista che e' stato il loro padre. E ricordo che un giorno Lu-
ciano con la sua tipica brutale franchezza gli disse : "Sai Steno, finalmente
ho capito perche' fin dagli inizi della tua carriera hai deciso di usare uno
pseudonimo. Gia' te lo sentivi che i tuoi figli avrebbero fatto anche loro del
cinema e t'avrebbero sputtanato il cognome."