L’umanità dell’internet
(le vie della rete sono infinite)

omini

di Giancarlo Livraghi
gian@gandalf.it



Capitolo 4
La Torre di Babele
e il “globalese”


Per vivere attivamente in rete non occorre “sapere le lingue” – o almeno così sembra. Anche cinque o dieci anni fa, quando il sistema delle reti era molto più piccolo, c’erano siti e spazi di dialogo in italiano; oggi il numero è così grande che è facile perdersi anche se si esplora solo ciò che si scrive e si dice nella nostra lingua.

Oggi c’è più di un milione di host internet italiani. Pochi rispetto a 100 milioni nel mondo; ma il doppio di quanti erano due anni fa, dieci volte di più che nel 1995. (Vedi la sezione dati). Insomma è possibile fare una quantità crescente di cose in rete senza capire alcun’altra lingua. Ma la cosa non è così semplice.

Se usiamo la rete solo come uno strumento in più per ripercorrere la cultura che già conosciamo, per restare nel solco delle nostre abitudini, perdiamo una grossa occasione per aprire gli occhi sul mondo. Se andiamo per liste e per chat vediamo che spesso sono molto ripetitive; le conversazioni sono le stesse che potremmo sentire in qualsiasi bar.

Non dico che questo sia sbagliato. La rete serve anche per leggere le stesse notizie che troviamo sui giornali e per fare le stesse chiacchiere che facciamo all’osteria. Ma sarebbe un peccato se ci riducessimo a fare solo quello.

Ci sono in giro statistiche, spesso poco credibili, su un po’ di tutto... ma nessuna misura in modo abbastanza preciso quante siano le persone in Italia che sanno l’inglese. Sembra che meno del 30 per cento della popolazione lo capisca “poco”, meno del 10 per cento pensi di saperlo “abbastanza bene”. Credo che avere dati precisi sia quasi impossibile, perché non è facile definire che cosa significa “sapere” una lingua: vuol dire solo cavarsela a chiedere un indirizzo o ordinare un panino, o riuscire a dialogare in modo significativo con le persone di mezzo mondo?

Comunque, temo che gli italiani siano molto indietro. Sappiamo che questo è un problema serio per il futuro umano, sociale, culturale ed economico del nostro paese. Spero che si consolidi davvero l’insegnamento della “lingua globale” in tutte le scuole, “di ogni ordine e grado”. E se imparassimo anche qualche altra lingua... tanto meglio.

Cinquant’anni fa in Italia non era “lingua comune” neppure l’italiano. Oggi siamo arrivati a capirci dal Brennero a Lampedusa, ma non basta. Non si tratta soltanto dell’Unione Europea. Uno dei fatti più importanti della nostra epoca è che possiamo viaggiare in ogni angolo del mondo e possiamo comunicare con gran parte del pianeta (anche se per ora lo strumento di scambio più efficace, cioè l’internet, raggiunge meno del due per cento dell’umanità).

La cultura e l’informazione, che ci piaccia o no, sono “globalizzate”. Se non approfittiamo della possibilità, che la rete ci offre, di andare oltre la superficie restiamo prigionieri di ciò che ci somministrano i grandi mezzi di informazione; che è quasi sempre banale e ripetitivo, spesso visto da prospettive ristrette, ingombro di molti più errori di traduzione e di interpretazione di quanto possiamo immaginare se non andiamo a controllare.

Oggi abbiamo a disposizione uno strumento che non c’era mai stato nella storia dell’umanità. La possibilità, per ognuno di noi, di costruirsi un sistema personale di informazione; e di dialogare con persone che non avrebbe avuto modo di conoscere in altro modo. Sarebbe un vero peccato se non approfittassimo di questa occasione per guardare oltre la punta del naso e rimanessimo chiusi in qualche cantina male illuminata sotto la Torre di Babele.

La lingua è importante (se non si riesce a scambiare qualche parola è difficile capirsi). Ma secondo me il vero problema è un altro: è una questione di atteggiamento. Siamo sicuri, in ogni dialogo e incontro umano, di saper ascoltare? Di aver davvero la voglia di capire?

Continuiamo a ripeterci che la diversità è importante, nella cultura umana come in biologia; ma troppo spesso cerchiamo rifugio nella comoda, confortante ma cieca ripetizione di ciò che ci è abituale.

Se dovessimo darci un “compito” nell’uso della rete, proporrei che fosse questo: almeno qualche volta “uscire dal seminato”. Cercare di imparare qualcosa di diverso, scoprire qualcosa che non sapevamo, conoscere idee e modi di pensare che non ci erano abituali. Insomma far crescere la nostra curiosità. Quando alcuni di noi fanno queste cose, e poi se le raccontano a vicenda... diventano tutti più ricchi di idee, meno banali e più umani.


Parlare “globalese”

Fino a non molti anni fa, era possibile “cavarsela” nei più disparati angoli del mondo se si sapeva qualche parola di latino; perché lo capivano i sacerdoti cattolici (che si trovano un po’ dovunque) e anche altre persone che avevano fatto studi classici. Ancora oggi, credo che qualche parola di latino possa essere capita dove meno ce lo aspetteremmo. Le due lingue che divennero internazionali duemila anni fa (latino e greco) lasciano ancora tracce importanti nelle lingue di oggi – perfino in giapponese. Sono le radici latine e greche che rendono più facilmente comprensibili, a di là delle barriere linguistiche, molti termini scientifici (e non poche parole “di uso comune”). Ma il latino che ha scavalcato i millenni non era certo quello di Cicerone o di Tacito: era un “latinetto” semplificato, usato dai monaci e dai pochi “letterati” in tutto il medioevo – e poi, fino ai nostri giorni, da una non piccolissima “aristocrazia” culturale, non solo europea.

Ora, che ci piaccia o no, c’è una nuova lingua internazionale. Che non è l’inglese degli inglesi, non è la lingua dei professori di Oxford. È un nuovo patois globale che mescola l’americano con l’australiano o con la lingua comune degli indiani (è facile dimenticare che molte più persone parlano inglese in India che in Gran Bretagna). Purtroppo l’Italia è uno degli ultimi paesi al mondo a capire che l’inglese non è una “lingua straniera” ma un codice internazionale; che non è importante se lo si parla con un accento perfetto o una sintassi impeccabile, ma è necessario conoscerlo. Ciò che conta è capirsi con una centralinista ungherese, un professore cinese, una programmatrice a Bangalore o un portiere d’albergo a Kuala Lumpur.

Non si tratta, naturalmente, di “tecnichese” o di “internettese”. Ci sono linguaggi e gerghi della rete che sono interessanti (e anche divertenti) ma non sono l’origine né la sostanza del “globalese”. Ciò che conta è la base di una lingua comune che permetta alle persone di comunicare. Non si tratta neppure di fabbricare artificialmente un “nuovo esperanto”, ma di assecondare lo sviluppo naturale di un linguaggio comprensibile e condiviso.

E non è solo una questione di lingua... è anche un fatto di cultura, stile, comportamento. Non solo ogni paese, ma ogni comunità professionale, culturale o comunque umana ha un suo diverso modo di comunicare. Credo che sia quasi impossibile catalogare in modo sistematico le diversità e i modi per superarle. Ma in pratica non è difficile, se si impara ad ascoltare: non cercare mai di imporre le nostre abitudini e maniere, ma imparare quelle degli altri. Non solo è utile, per ogni dialogo umano, commerciale o non; ma è anche molto interessante e (se fatto con lo spirito giusto) piacevole e divertente. La diversità, insegnano i biologi, è una risorsa; più ci abituiamo a capirla, più ci arricchiremo di idee, di conoscenze, di umanità – e (perché no?) anche di occasioni di lavoro e di guadagno. Insomma parlare e praticare il globalese (lingua, usi e costumi) è un modo per “unire l’utile al dilettevole”.




Nelle traduzioni o trasferimenti di concetti
fra l’inglese e l’italiano, come in tutte le lingue,
possono esserci difficoltà o incomprensioni.
Alcuni esempi si trovano in un testo su questo sito
Ambiguità di alcune parole inglesi.




indice
Indice dei capitoli online


gente
Ritorno alla pagina
di presentazione del libro



Homepage Gandalf
home