Notizie dal Congo
che non riguardano solo l’Africa

Giancarlo Livraghi – luglio 2013

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(migliore come testo stampabile)


Sappiamo tutti che il Congo è in Africa. Ma è difficile, senza guardare una carta geografica, ricordare dov’è. Anche perché ci sono due paesi chiamati Congo – e il più grande (di cui qui si tratta) dal 1971 al 1997 si chiamava Zaire.

Un fatto nuovo, iniziato nel marzo 2013, può aprire scenari senza precedenti in tutte le “aree di crisi”, in tutto il mondo, dove ci sono estesi conflitti armati. Ma è ignorato dal sistema di cosiddetta informazione in Italia – e scarsamente rilevato anche su scala internazionale.

È comprensibile che in questo periodo l’attenzione si concentri su ciò che sta accadendo in Egitto e in Turchia (molto più vagamente sulla tragica situazione in Siria). Ma non è ammissibile che si trascurino altre situazioni, in giro per il mondo, mentre si sproloquia esageratamente su vicende italiane. Con un’inondazione di congetture, pettegolezzi, polemiche e divagazioni che si potrebbero facilmente riassumere in modo molto più semplice e breve.

Un altro conflitto africano, nel Mali, era salito all’onore delle cronache nel gennaio 2013 a causa di un intervento francese. Che ha avuto un successo veloce – ma ovviamente senza la possibilità di “risanare” tutto il territorio.

È molto improbabile che la vicenda sia conclusa, ma non ne abbiamo più notizie. Non abbiamo informazioni precise e aggiornate neppure su quali immensi tesori d’arte, di storia e di cultura (in particolare a Timbuctu) siano stati barbaramente distrutti da fanatici “jihadisti” prima di rifugiarsi in aree più remote – e quali invece sia stato possibile salvare.

È così anche per molte altre situazioni di crisi, conflitti, soprusi, abusi e violenze in ogni parte del mondo. Occasionalmente sfiorate da vagabonde luci della ribalta, per poi ricadere nel dimenticatoio.

Sono tante le situazioni disastrose in cui la comunità internazionale sta cercando di intervenire. La novità e l’importanza del cambiamento nel Congo stanno nel fatto che, per la prima volta nella storia, una intervention brigade comandata dalle Nazioni Unite potrà impegnarsi direttamente nel conflitto. Può sembrare una sottigliezza formale, ma è un cambiamento sostanziale. L’operazione è appena agli inizi, ci vorranno mesi prima che si sviluppi.

Non si tratta di un intervento da parte di potenze “esterne”. La brigata è tutta africana. Costituita da tremila soldati di Sudafrica, Tanzania e Malawi, bene armata con elicotteri, veicoli blindati, artiglieria e mezzi di ricognizione, al comando di un generale tanzaniano alle dirette dipendenze dell’ONU.

Prima di riassumere la complessa situazione in cui si andrà a inserire questo intervento, vediamo come si colloca il quadro in una carta geografica.

Africa
 
In rosso il “grande Congo” (capitale Kinshasa). In grigio, a ovest, il “piccolo Congo”
(capitale Brazzaville) che non è coinvolto in questa vicenda. In giallo il Mali.
In blu i tre paesi che contribuiscono alla nuova intervention force.
In verde, a nord-est, due sospettati (ma lo negano) di sostenere gli “insorti”.
 

Il Congo (quello “grande”) ha circa settantacinque milioni di abitanti. Quarto, per popolazione, in Africa (dopo la Nigeria, l’Etiopia e l’Egitto). È il più esteso per territorio, se si escludono le vaste aree deserte del Sahara in Algeria.

La storia dei conflitti in Congo (come in molti altri paesi africani) è lunga, feroce e complessa. Si stima che negli ultimi dieci anni abbiano provocato la morte di cinque milioni di persone. Oltre a due milioni e mezzo di “rifugiati”, costretti a fuggire dalle loro dimore abituali. Con massacri, stupri, saccheggi, soprusi, vendette e ogni sorta di atroci violenze in cui spesso si sono esercitate con uguale brutalità le varie parti in contrasto fra loro.

Dal 1999 è presente in Congo una numerosa “missione di pace” dell’ONU (ventimila “caschi blu”) ma è costretta dai limiti del suo ruolo ad assistere impotente alle devastanti aggressività della guerriglia.

In questo periodo il conflitto è prevalentemente nel nord-est del Congo, con il sospetto (nonostante le negazioni “ufficiali”) che i “ribelli” siano armati, riforniti e aiutati da due paesi adiacenti, il Ruanda e l’Uganda.

Finora è arrivato solo un terzo delle nuove forze previste. Ci vorranno ancora due o tre mesi prima che possano entrare in in azione. E parecchio altro tempo per tradurre in pratica l’impegnativo concetto di «svolgere azioni offensive precisamente mirate, in modo robusto, altamente mobile e versatile».

Comunque vada a finire, sarà un campo di sperimentazione per imparare ad agire più efficacemente in altre situazioni. In Africa e nel resto del mondo.




Post scriptum
Particolarità del Congo


Spero che la mia breve sintesi sia sufficiente per definire l’importanza del nuovo esperimento che sta cominciando in Congo. Tuttavia mi sembra utile aggiungere alcune altre osservazioni.

La rilevanza del nuovo metodo di intervento è ovviamente indipendente dal luogo in cui sarà sperimentato. Ma c’è un intrinseco valore nel fatto che si tratta del Congo. Oltre alle dimensioni, ha altre caratteristiche per cui deve essere considerato un paese “importante”. In Africa e su scala mondiale.

Noto a tutto il mondo come Congo Belga dal 1885 al 1960 (in particolare dal 1908, quando da colonia privata della casa reale divenne “annesso” al Belgio come nazione). Ottenuta l’indipendenza, soffrì come tutti i paesi ex coloniali di confitti interni, che oggi risultano (o almeno sembrano) superati – in una “pacifica convivenza” di etnie diverse, di cui la maggior parte del mondo non conosce neppure il nome. Kongo, Yombe, Teke, Kougni, Mboshi, Nglala, Sundi e altri. La lingua “ufficiale” è, ancora oggi, il francese.

Per quanto discutibili possano essere i suoi governi, e nonostante i dubbi sulla verificabilità delle votazioni, dal 2005 è una democrazia.

I gravi conflitti in corso sono dovuti principalmente agli “sconfinamenti”, in varie fasi da vent’anni, da paesi vicini. In particolare nella regione del Kivu, nella parte orientale del Congo. Per le sue dimensioni e per i molti coinvolgimenti di eserciti (e “guerriglieri”) di paesi limitrofi, quella tragica belligeranza ha il pesante soprannome di “guerra mondiale africana”.

Soprattutto, il Congo ha una straordinaria importanza come ecosistema. Il suo territorio comprende la quasi totalità delle “foreste pluviali” in Africa ed è considerato il più ricco del mondo per biodiversità. Benché purtroppo non ci sia questo fra i motivi della nuova strategia di intervento dell’ONU, il suo sviluppo merita di essere seguito da chi ha a cuore la salute ambientale non solo dell’Africa, ma di tutto il pianeta.

Un intervento flessibile, selettivo e “precisamente mirato” dovrebbe essere il più adatto a risolvere i problemi con una drastica riduzione dei “danni collaterali”. Non solo di vittime umane, ma anche di distruzioni ambientali. È un motivo in più per seguire con attenzione l’esperimento che sta per cominciare con la nuova iniziativa ONU nel Congo.


... e intanto nel Mali ...


Due giorni dopo aver constatato che mancavano notizie aggiornate sul conflitto nel Mali, mi sono arrivate nel numero dell’Economist datato 6 luglio 2013. E, benché la vicenda non sia conclusa, sono incoraggianti.

Molti critici prevedevano che la forza di intervento inviata dalla Francia (quattromila uomini in soccorso alle confuse, disordinate e soccombenti truppe governative) si sarebbe impantanata nell’incontrollabile vastità del territorio. Invece, in sei mesi, la situazione è radicalmente cambiata.

Già in gennaio, in poche settimane, furono riconquistate le città più importanti che erano state occupate dai ribelli. Compresa Timbuctu.

Si aprì un dialogo con i nomadi Tuareg, ben felici di abbandonare una sgradevole alleanza con i jihadisti e cercare un’intesa per una ragionevole autonomia nel Mali. Cessarono subito gli scontri fra i Tuareg e le forze pro-governative – e poi le trattative si conclusero con un accodo di pace alla fine di giugno.

I ribelli sono dispersi, nella maggior parte del Mali le ostilità sono finite, ma (come era prevedibile) rimangono gruppi armati, in prevalenza terroristi islamici, annidati nelle zone desertiche al confine con l’Algeria e nel Sahel – la fascia intermedia fra il Sahara e le savane, che attraversa una larga parte del Mali e del Niger.

Sahel
Il Sahel si estende a sud del Sahara dall’Atlantico al Mar Rosso,
cioè da Mauritania e Senegal a ovest a Sudan ed Eritrea a est.
 

Il problema dei “confini inesistenti nel deserto” (o “semideserto”) riguarda, in un modo o nell’altro, tutti i paesi il cui territorio comprende parti del Sahara (o del Sahel). In particolare nella complicata geografia politica dell’Africa occidentale, come vediamo in questa mappa pubblicata nell’articolo dell’Economist.

ovest

La “permeabilità dei confini” è un problema che non riguarda solo i territori desertici. C’è in tutta l’Africa – e anche nel resto del mondo.

La collaborazione internazionale è spesso contorta, confusa, ipocrita e inefficiente. Ma è indispensabile.

Resta da capire quanto siano distrutti – e quanto invece recuperabili – i tesori culturali di Timbuctu. Giustamente definiti dall’Unesco “patrimonio dell’umanità”. Le notizie sono ancora, necessariamente, imprecise. Ci vorrà tempo per “censire” ciò che è rimasto e ricostruire ciò che è recuperabile.

Ma pare che, per fortuna, i maniaci piromani siano stati prevenuti. Non solo dal veloce successo dell’attacco francese, ma soprattutto dai residenti maliani che hanno sottratto tesori alla follia distruttiva che si era scatenata prima, quando i “ribelli” avevano un indisturbato controllo del territorio.

A questi (noti o ignoti) eroi va la gratitudine non solo di tutta l’Africa, ma anche di chi in ogni parte del mondo crede nell’importanza di conservare e studiare ogni variante nell’affascinante complessità dell’evoluzione umana.

La demenziale assurdità di queste distruzioni sta nel fatto che non si tratta di “Fahrenheit 451”. Il più che millenario patrimonio di Timbuctu non è opera di invasori stranieri, né di “infedeli” o eretici. È in larga parte di cultura musulmana. E non è questo l’unico esempio, in giro per il mondo, di fanatici islamici che distruggono i pilastri della fede di cui si fingono difensori.

Intanto, per ritornare all’organizzazione delle missioni militari, si nota una interessante “convergenza” fra le situazioni nel Mali e nel Congo.

Nel Mali la “forza di intervento” francese, svolto con successo il suo compito immediato (che aveva il pieno consenso dell’ONU), sta (come era previsto) “passando le consegne” a una “forza di pace” multinazionale alle dirette dipendenze delle Nazioni Unite.

Rimangono, in una parte del territorio, zone ristrette ma pericolose di attività ostile. Per presunti motivi politici o ideologici, ma anche per vari generi di criminalità più o meno organizzata. Ed è prevedibile che altre ne possano nascere, anche per “sconfinamento” da diversi paesi.

Saranno tanto meno pericolose quanto più le “forze dell’ordine” saranno in grado di trovarle e stroncarle prima che riescano a consolidarsi.

Perciò si scopre che è necessario dotare il nuovo assetto di risorse adatte a «svolgere azioni offensive precisamente mirate, in modo robusto, altamente mobile e versatile». La procedura è diversa, ma in pratica il metodo è lo stesso.

Così nel Congo e nel Mali. E nel resto del mondo?



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