Offline Riflessioni a modem spento

Business-to-business
il gigante invisibile

Novembre 1998

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  Giancarlo Livraghi

gian@gandalf.it
 
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  Da molto tempo ero convinto (come quasi tutti) che la più forte area di sviluppo del "commercio elettronico" sarebbe stata il business-to-business. Ma mi sto chiedendo: dov’è? Si, ce n’è qualche esempio... ma sono pochi, e si continuano a citare gli stessi... insomma sembra che non si sta sviluppando.

Forse la risposta è semplice: c’è ma non si vede. Perché ci aspettiamo di vederlo dove non compare. Perché tendiamo a dimenticare un fatto abbastanza ovvio: per molti rapporti fra imprese è inutile avere un sito web o mettere un catalogo o una vetrina online.

Vorrei aprire una parentesi lessicale: ho l’impressione che il termine e-commerce sia mal capito e mal tradotto. Mi sembra che per "commerce" gli americani intendano qualsiasi specie di transazione, anche quando invece di vendite si tratta di acquisti, o invece di distribuzione si tratta di gestione della logistica. Forse ci capiremmo meglio se (senza "copiare" l’IBM, che ne ha fatto un marchio) parlassimo di e-business. E ci convincessimo una volta per tutte che "aprire un sito" è solo uno di tanti modi per fare business in rete – e in molti casi non è la cosa più importante.

In una recente intervista, Vint Cerf (uno dei "padri" storici dell’internet) ha detto: Credo che l’onda di marea nel commercio elettronico sarà nelle transazioni di larga scala fra le grandi imprese. Credo che questi sviluppi... avranno un grande impatto sull’economia mondiale. Quando giganti come General Motors o Mistubishi cominciano a connettere in rete i loro fornitori e rivenditori, aspettatevi un vero decollo del business elettronico.

Già conosciamo casi significativi. Come quello della General Electric, che con una gestione online delle offerte dei suoi molti fornitori ha migliorato l’efficienza e risparmiato milioni di dollari. O come quello della Boeing, che ha informatizzato l’intero ciclo produttivo di un nuovo aeroplano ma si è trovata in difficoltà quando ha perso ordini, perché non rispettava i tempi di consegna... il motivo era che non aveva gestito bene i rapporti con i fornitori e non aveva ottenuto sufficiente fiducia perché facessero gli investimenti necessari. La morale è chiara...

Ma non è detto che si tratti solo di grandi imprese. Immaginiamo uno scenario (molto più concreto di quanto si possa pensare). Un’impresa fa impianti industriali o macchine utensili per produrre, supponiamo, cioccolatini. Non è una "piccola impresa", ma molto meno grande della maggior parte delle industrie cui vende le sue macchine. Eppure... se (come è interesse suo e dei suoi clienti) offre un servizio integrato online di manutenzione e aggiornamento degli impianti... un po’ per volta può diventare la centrale globale di riferimento per quel settore. Dove sia, non ha importanza. Se la contabilità globale di alcune linee aeree europee è a Bangalore, perché la gestione dei sistemi di produzione di alcune fra le più grandi imprese del mondo non può essere coordinata in qualche piccolo centro della Lombardia, del Veneto o dell’Abruzzo?

E chi ha detto che dev’essere una singola impresa? Ci sono, in Italia, comunità fortissime che controllano mercati globali. Sono italiane le migliori montature per occhiali del mondo. Sono italiane le piastrelle dei nuovo alberghi in Cina. Eccetera, eccetera. Comunità altrettanto forti, nei loro settori, quanto è Silicon Valley nell’informatica. Perché mai queste imprese, o consorzi di imprese, dovrebbero mettere online pagine web rivolte a un presunto pubblico di "navigatori", o spendere soldi in banner?

Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Ma la sostanza è semplice. Se si impostassero le strategie di comunicazione in rete in base alle esigenze delle imprese, anziché secondo modelli banali, standardizzati e imitativi (e perciò quasi certamente sbagliati e inutili) credo che scopriremmo un grande, fertile e ricco mercato per l’e-business. Specialmente in Italia.

 

   

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