O villano furor bottegaio

di Edmondo De Amicis

1896



Premessa

Questa pagina di Edmondo De Amicis era uscita nel 1896 nel libro La carrozza di tutti. Se fui io a ritrovare e tradurre il testo, da molti citato ma da quasi nessuno letto, scritto da Samuel Johnson nel 1759, la scoperta di questo si deve a Gianluigi Falabrino, che lo ripubblicò in un libriccino nel 1988 (ma sfortunaramente non me ne accorsi prima del 2001).

Edmondo De Amicis è un autore ingiustamente dimenticato e ingiustamente confinato nella percezione di un mondo “deamicisiano”, cioè edulcorato e manieristico, che non è nel suo spirito e nel suo stile. Come risulta anche dall’acuta vivacità di queste sue osservazioni.

Johnson parlava di annunci sui giornali e De Amicis di pubblicità sui tram. Johnson ragionava più sui contenuti, De Amicis più sull’invadenza. Ma c’è un filo comune nei loro pensieri, a distanza di 237 anni – e in tutti e due i testi ci sono cose che suonano curiosamente attuali.

Da quando i “carrozzoni” tranviari di Torino cominciarono a essere coperti di pubblicità è passato più di un secolo. Ci sono stati di mezzo molti e profondi cambiamenti. Ma siamo qui a vedere la pubblicità seguire in buona parte gli stessi modelli e a chiederci di nuovo dove vada una civiltà «oppressa di faccende, affollata di capricci, smaniosa di strepito, affamata di piaceri, tormentata d’impazienze, portata via dalla furia di divorare il tempo e di tracannare la vita». Un’efficace descrizione del mondo di oggi, che è interessante ritrovare in un testo di cent’anni fa.

In poche righe De Amicis interpreta (o precorre?) un percorso che abbiamo visto anche in tempi più recenti. Uno sdegnoso fastidio verso l’invadenza della pubblicità, poi temperato da una progressiva accettazione fino ad arrivare (ai giorni nostri) a una specie di ossequio servile quanto falso, ipocrita quanto strumentale. Sarebbe meglio, secondo me, se si tornasse a una critica più severa e meno tollerante. Che la pubblicità (come ogni forma di comunicazione) si sentisse un po’ meno ammirata e riverita, un po’ più criticata e verificata, un po’ più responsabile nello svolgere correttamente ed efficacemente il suo ruolo.

Contro ogni opinione dei faciloni, degli opportunisti e dei disonesti – correttezza ed efficacia non solo non si contrappongono ma fortemente coincidono. Così come il buon gusto (anche se non sempre è facile definirlo) e il rispetto per gli interlocutori non diminuiscono, ma aumentano, il valore della comunicazione. Cosa che molte esperienze e verifiche dimostrano, nonostante vistose apparenze in senso contrario.

Credo che ci faccia bene rileggere anche De Amicis, con gli occhi di oggi. E chiederci come fare efficace promozione e comunicazione commerciale senza mai scivolare in qualcosa che possa essere definito “villano furor bottegaio”.

Giancarlo Livraghi – maggio 2001






Fu in quel torno che ebbi turbati i miei lieti studi da una contrarietà, di breve durata, ma forte. Cominciava allora e s’andava estendendo rapidamente l’uso degli annunzi esteriori sui carrozzoni. Dentro, questi n’erano già invasi da un pezzo: iscrizioni e figure dipinte sui vetri, cartellini appesi, avvisi d’ogni forma e colore appiccicati al cielo e alle pareti, che vi facevan l’effetto d’un vocio discordante d’importuni, i quali v’affollassero di offerte e d’inviti, volendo lì per lì, a ogni costo, calzarvi e vestirvi, insaponarvi e profumarvi, farvi cambiar di casa, pigliar l’abbonamento a un giornale e intraprendere una cura idroterapica. S’aggiungevano a questi, in quei giorni, gli annunzi delle lunghe assi piantate dalle due parti del tetto, tinte di tutti i colori più chiassosi, con iscrizioni bianche e nere in caratteri cubitali, vere insegne di alberghi e magazzini, leggibili a cento passi lontano, moleste agli occhi come grida sgangherate agli orecchi, stonanti nel colorito generale della strada come stecche acute in un coro di voci sommesse.

Curioso che si fosse discusso nel Consiglio comunale se questa offesa al buon gusto si dovesse permettere nei tranvai, dopo che s’era permessa, e ben più grave e barbarica, sui teloni dei teatri? Per alcuni giorni ne fui veramente furioso.

A salire su un carrozzone mi pareva d’entrare in un bazar dove dovessi contrattare anche il biglietto, e da cui non potessi uscire che con una bracciata di pacchi. O povera poesia! Ammirare il profilo poetico d’una bella signora spiccante sopra un vetro che annuncia delle pillole rilassative, veder due giovani innamorati che prendono degli atteggiamenti idillici sotto l’insegna della razzia per topi, fantasticare sopra una signorina gentile che volge gli occhi in alto come se fissasse una larva amorosa d’immaginazione e accorgersi che legge l’annuncio ciondolante di un nuovo concime misto!

O villano furor bottegaio che sfrutta, invade, ricopre, traveste, bolla, mercanteggia ogni cosa! Quando vedremo gli annunzi delle acque minerali e dei liquori ricostituenti sulla fronte delle statue e sui drappi delle bandiere? Ma l’uomo civile è così duttile che finisce col piegarsi a tutto. L’insolenza crescente dello sconcio, come spesso accade, attenuò il senso sgradevole prodotto dalla sua prima apparizione discreta.

Prima mi rassegnai; poi ci divenni indifferente, poi, a poco a poco, quasi mi rallegrarono tutte quelle insegne scarlatte, gialle, celesti, volanti da ogni parte come stendardi spiegati al vento; e mi piacquero quelle pareti mobili che ricordan le camere in cui i pazzi attaccano ai muri tutto quanto di colorito e di stampato casca nelle loro mani; e quei volanti gabbioni umani che di dentro e di fuori, con parole, con colori e con disegni, vi offrono da bere, da mangiare e da leggere, vi danno dei consigli igienici, e v’invitano a consulti medici gratuiti, e vi chiamano alle corse, alle regate, alle gare ciclistiche, al gioco del pallone e all’Esposizione dei quadri, mi allettarono come una viva e strana immagine dello spirito leggiero e irrequieto d’una grande città della fine del secolo, oppressa di faccende, affollata di capricci, smaniosa di strepito, affamata di piaceri, tormentata d’impazienze, portata via dalla furia di divorare il tempo e tracannare la vita.




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