Verso la fine della mia carriera ho insegnato in una scuola di cinema. La prima cosa che dicevo ai miei allievi era che ci sono giovani che vogliono diventare registi e giovani che vogliono fare dei film. I primi non vedono l’ora di gridare Motore! e Azione!, e spesso, scarsi di idee non pensano che a portarsi a letto le attricette. I secondi sono quelli che hanno delle cose da dire e sanno che il cinema è il mezzo più efficace. Sono stato fortunato, dei primi ne ho incontrati pochi, ma due non li posso dimenticare. Il primo, oltre che essere produttore e regista faceva anche il protagonista. Tra tante attrici brave scelse quella che aveva le tette più belle, prima di ogni scena mi leggeva le pagine due o tre volte e mi guardava a lungo aspettando che dicessi io come impostare la scena. I suoi primi piani, li avrebbe girati dieci volte, se finiva la pellicola non glielo dicevamo, la macchina continuava a girare a vuoto. In proiezione non se n’è mai accorto. Ma questo è gossip, meglio sorvolare. Il secondo era argentino e usava principalmente una parola, la sua parola magica: “Fogonasso”. Col mio operatore ci guardavamo senza capire che cosa volesse dire né lui ce lo sapeva spiegare. Chiedemmo in giro, ma nessuno lo sapeva. Dopo un paio di settimane capimmo che Fogonasso era una zoomata, avremmo dovuto usare sempre lo zoom per farlo contento e così facemmo. Ma il film non uscì mai.
Ho avuto sempre un ottimo rapporto con i miei collaboratori e con tutta la troupe. All’ inizio sono stato un po’ guardingo. Non conoscevo nessuno, non sapevo come comportarmi, ma poco a poco ho capito che era importante fare il mio lavoro senza interferire troppo nel lavoro degli altri. Questo vale per tutti i lavori ma il cinema è un lavoro collettivo, ognuno è parte di un ingranaggio e bisogna che tutto funzioni per rispettare il piano di lavorazione. Se un truccatore ci mette troppo ad attaccare una barba o il gruppo elettrogeno stenta a partire o l’arredamento non è pronto o manca un oggetto di scena, i ritardi si sommano e alla fine della giornata non si finisce il programma. Ogni caporeparto è responsabile del suo gruppo e deve controllare che non manchi nulla di ciò che è scritto sull’ordine del giorno. Ma il controllo di tutto è competenza dei segretari di produzione. Alle volte i registi mandavano all’aria tutta la preparazione cambiando idea su un arredamento o l’impostazione della luce o il modo di girare una scena, bisognava scervellarsi per rimediare, sempre in accordo con gli altri reparti.
I miei più stretti collaboratori erano i miei assistenti, i macchinisti e gli elettricisti che sono delle persone straordinarie, sempre pronti a fare, a rifare e a cambiare. Ho avuto per anni gli stessi collaboratori, ci si intendeva a gesti o a sguardi. Facevo il mimo, con tre movimenti delle mani trasmettevo quale proiettore volevo, a quale intensità e dove lo doveva puntare. Mi sono reso conto che il silenzio è fondamentale sul set, i registi potevano provare le scene con gli attori mentre intorno a loro in tutto silenzio gli elettricisti sistemavano le luci. Una volta sola, al primo film, Salce ci fece smettere di lavorare, mentre provava aveva bisogno che nessuno si muovesse per parlare con gli attori. Andammo tutti al bar. Lizzani invece si lamentava perché tra una scena e l’altra non riusciva neanche a prendere un caffè, appena finita di provare una scena gli davo il pronti per girarla. Dovetti inventare di avere ancora delle cose da sistemare. I truccatori sono il reparto che mi piaceva di meno, sempre imposti dagli attori o dalle attrici, si sentivano protetti e intoccabili e come tali si comportavano.
Nel cinema il lavoro passa di padre in figlio. Nei cinquant’anni di lavoro ho avuto talvolta il padre, poi il figlio e qualche volta il nipote.