Sono tanti i registi con i quali ho lavorato, per esempio Lizzani che ne “La vita agra” tratto da un libro di Bianciardi, con Tognazzi protagonista, tratteggia la vita quasi rabbiosa di un anarchico aspirante dinamitardo intenzionato a distruggere il “Pirellone”.
“L’oro di Roma” racconta la beffa del comando tedesco alla comunità israelitica di Roma che è costretta a raccogliere cinquanta chili d’oro per salvare gli ebrei, che vengono ugualmente deportati nei lager. Anche se erano passati vent’anni mi sentivo molto coinvolto. Diverse persone che parteciparono al film ci fecero vedere il numero tatuato sull’avambraccio.
In “Bordella” Pupi Avati inventa un lussuoso postribolo frequentato da donne vogliose che hanno a disposizione aitanti giovani seminudi disposti a soddisfarle. Tra loro Christian De Sica in veste di sculettante ballerino e cantante. Aveva partecipato alla sceneggiatura anche Maurizio Costanzo. Tra le figurazioni un giovanissimo Michele Mirabella.
Manfredi che esordisce nella regia con “L’avventura di un soldato” e racconta una storia di sesso tra un soldatino timido e una bella vedova in gramaglie nello scompartimento di un treno, fatta di sguardi fuggevoli. Mentre lo scompartimento si riempie e si svuota i due aspettano di rimanere soli, non si guardano ma c’è nell’aria la voglia di sesso e appena possibile l’atto si compie senza una parola. Ma scesi dal treno il soldatino segue la vedova, ma passa un treno, quando il treno è passato la vedova non c’è più.
I fratelli Taviani che ne “I fuorilegge del matrimonio” con Tognazzi, raccontano i cinque casi in cui un matrimonio può essere sciolto secondo la legge Fortuna, cosiddetta “piccolo divorzio”. Particolarmente bello l’episodio che sembra un balletto in cui i prelati discutono sull’opportunità di sciogliere un vincolo matrimoniale e quello della moglie infedele sorpresa con l’amante e chiusa, completamente nuda, sul terrazzo di casa dove è costretta a rimanere tutta una notte al freddo e il giorno dopo sotto un sole cocente. Invoca aiuto ma tutti sanno della tresca e non osano intervenire.
“L’etrusco uccide ancora” di Armando Crispino, era un giallo ambientato nelle necropoli etrusche in cui un misterioso e crudele assassino uccide a bastonate le sue giovani vittime nel buio delle antiche tombe.
“Operazione S. Pietro” di Fulci con Buzzanca ed il mitico Eduard G. Robinson, era la storia di un gruppo di mariuoli che incautamente rubano in Vaticano la Pietà di Michelangelo. Fu in questo film che conobbi un gruppo di acrobati francesi che non avevano limiti, non c’era acrobazia con le macchine, le moto e un aereo che non affrontassero con incredibile audacia, unita però a tanta tecnica e tanta esperienza. Facevano tante prove cronometrando i tempi, dopodichè partivano sicuri di ottenere il risultato richiesto dal regista.
Non posso non ricordare un altro film di Lucio Fulci, “Beatrice Cenci” nato come film minore, ma che mi diede tanta soddisfazione per l’ottimo risultato fotografico. Ebbi un ottimo collaboratore per la scenografia con il quale discutemmo i colori delle pareti, il tipo di intonaci, gli arredi. Alla fine fummo molto soddisfatti, piacque molto anche a Fulci. L’attrice era una giovane americana, il padre era George Wilson, stupendo attore francese che avevo avuto nel ruolo del professore nel “Federale” di Salce.
“Summit” di Giorgio Bontempi racconta la nascita di un amore e il viaggio avventuroso di un giornalista impersonato da Volontè, da Parigi a Varsavia, per partecipare a un Summit dei paesi oltrecortina. Era il primo film di Giorgio Bontempi che era stato per sette anni corrispondente da Parigi di “Paese Sera”, perciò la storia, in parte autobiografica, iniziava a Parigi. Bontempi, appena arrivai a Parigi mi volle far conoscere i posti più interessanti dal punto di vista mondano, mi portò a mangiare alla “Cupole” dove fanno un’ indimenticabile mousse al cioccolato, mi portò al “Deux Magots” frequentato dai più famosi artisti e la sera da “Regine” nel salotto più esclusivo di Parigi frequentato dai personaggi più in vista della politica e del giornalismo. Conosceva tutti a Parigi e si muoveva come un pesce nell’acqua. Cominciammo il film girando alcune scene a St. Germain e al Trocadero. Il giornalista interpretato da Volontè aveva una compagna interpretata dalla deliziosa Mireille Darc. La prima sera la Darc ci invitò a casa sua, viveva in un appartamento da favola con un terrazzo che dava sulla Torre Eiffel, straordinario. Normalmente i turisti vedono la Tour da lontano o da sotto o salgono sulla cima da dove si gode una vista unica, da quell’altezza le persone sembrano formichine. Invece questa era una visuale inconsueta, appena al di là del fiume, sembrava di poterla toccare.
Il film era praticamente una road movie, un viaggio che portava i due attori dalla Francia alla Polonia, con numerose tappe. Eravamo organizzati per viaggiare e girare con facilità e in massima economia. Era un film che, come al solito, doveva costare pochissimo. Avevamo due furgoni con tutto il materiale, guidati dai macchinisti e dagli elettricisti, una macchina grossa e una spider rossa di scena per i due attori. Viaggiavamo in carovana. Il direttore di produzione partiva il giorno prima per espletare le pratiche di frontiera e di dogana, in modo che ai vari confini saremmo passati senza intoppi. La prima tappa fu il Lussemburgo, cittadina con più banche che negozi, dove girammo una scena nella piazza principale. E qui ci accorgemmo che tra Volontè e la Darc era già iniziata una storia, erano inseparabili, si facevano gli occhi dolci. Con la seconda tappa, dopo aver attraversato una bella zona collinosa, quella dei famosi vini del Reno, entrammo in Germania, ad Hannover. Da lì, con una breve tappa arrivammo a Helmstedt, confine tra le due Germanie. Fu un po’ laborioso il passaggio per arrivare nella Germania est, bisognava oltrepassare fasce di terreno pieno di reticolati, torrette con i Vopos, i terribile poliziotti dell’est armatissimi, dall’aspetto quasi feroce. Passato quell’ostacolo la via per Berlino era aperta. Ma a quel tempo Berlino ovest era un’isola nel territorio di Berlino est, per cui ci fu un altro confine da superare. Ci arrivammo in una bella serata di fine aprile. Berlino ovest, tutta ricostruita era praticamente circondata dalla Germania orientale, comunque nella città tutto sembrava normale, era stata ricostruita anche se non molto bene, ma comunque piena di vita, di negozi, e locali come il resto della Germania.
Dovendo rimanere a Berlino qualche giorno ci eravamo appoggiati a una produzione locale che ci sistemò in un ottimo albergo nei pressi del famoso zoo. Il giorno seguente dovevamo girare una scena nella piazza principale nei pressi della chiesa mai ricostruita a ricordo dei bombardamenti americani. Mentre stavamo girando questa scena tra Volontè e la Darc, in mezzo a un capannello di curiosi, Volontè lasciò il suo posto per saltare addosso a un signore urlando e cercando di picchiarlo, ma questo si difese, ma prima che noi riuscissimo a dividerli gli aveva strappato i bottoni del cappotto. Bontempi gli chiese il perché di questa aggressione, “Mentre stavo recitando si è messo a sorridere” rispose Volontè, “non posso continuare a recitare con uno che sta sorridendo”. L’addetto della produzione tedesca sistemò la cosa col signore che se ne andò alquanto incavolato, certamente pensando non a torto che gli attori italiani sono un po’ matti.
Finita la scena andammo con un permesso speciale a visitare Berlino est. Si doveva passare il famoso chekpoint Charlie dove c’era la polizia americana, poi la barriera con i Vopos. Era un po’ laborioso ma ne valse la pena. Appena passati dall’altra parte ci rendemmo conto che mentre Berlino Ovest era stata ricostruita tutta in cemento, acciaio e vetro, Berlino est era stata ricostruita come era prima della guerra, tutta a mattoni rossi, esattamente com’era. Ci sembrò semideserta, pochissime automobili. Ci spiegarono che la gente dell’est aveva preso le rigide abitudini del comunismo, tutti a letto dopo la cena, al massimo andavano a vedere Brecht a teatro, mentre all’ovest cercavano di vivere come gli americani, cene, locali notturni, cinema, teatri e spettacoli.
Tornati all’albergo, sempre dopo le interminabili visite di controllo, ci riunimmo per organizzare la giornata del primo maggio. Sapevamo che sarebbero venuti da Berlino est migliaia di giovani a fare una dimostrazione antiamericana. Bontempi voleva approfittare di questa rara occasione per girare delle scene inconsuete con Volontè. Infatti il giorno dopo andammo in centro con la cinepresa a mano per incontrare questo corteo. Arrivarono veramente migliaia di giovani con le bandiere rosse con falce e martello, cantando gli inni filosovietici, Bontempi aveva istruito Volontè a mettersi in mezzo a loro come facesse parte del corteo. Io girai diecine di inquadrature dalle migliori angolazioni, furono molto utili per il montaggio.
Finite le riprese, col mio operatore andammo a vedere il cumulo di terra sotto al quale c’era stato il bunker di Hitler. Dopodichè a Berlino avevamo finito e ci aspettava Varsavia. Quest’ultima tappa era molto lunga, preferimmo fare sosta a Poznan per visitare questa bella città dall’aspetto medievale, curiosa perché le case erano tutte dipinte a colori pastello, molto gradevoli e la gente era amichevole e gentile.
L’arrivo a Varsavia fu una delusione, ricostruita male, palazzi di tipo staliniano, squadrati, senza grazia né eleganza. L’albergo era discreto anche se pieno di italiani commercianti di bestiame e di prostitute. Ci aspettava l’ultimo sforzo, la scena dell’arrivo dei delegati per il Summit. L’edificio in cui si doveva svolgere il summit era un cubo di cemento che sembrava più un carcere che un palazzo dei congressi. La nostra produzione aveva chiesto alla produzione polacca un certo numero di comparse vestite da poliziotti. Ne arrivò una quarantina e per la prima scena li disponemmo secondo le esigenze dell’inquadratura. Per non farli muovere il mio operatore andò a segnare col gesso le posizioni di ognuno e siccome era un burlone segnò con una croce anche le loro scarpe. Qualcuno cercava di sottrarsi ma lui, da vero romanaccio diceva “statte bbono, nun te move”. Quando se ne accorse il direttore di produzione prese da una parte l’operatore e gli disse “Sei matto, Silvio, questi sono poliziotti veri.”  L’operatore dovette prendere uno straccio e pulire le scarpe a tutti. Noi dovemmo fare finta di niente. Ma finita la scena sbottammo a ridere. Alla fine girammo alcune inquadrature nella sala dei congressi e con ciò il viaggio era finito.
Ma non era finito il film. Il finale doveva essere un’ultima scena da girare a Cannes sulla Croisette, intorno al tavolino di un caffè, in vista del mare. Ma appena tornati a Roma, chi in aereo, chi in macchina e chi coi furgoni, ripartimmo per Nizza ma a Parigi scoppiò il ‘68. Bontempi, da buon giornalista, pensò di cambiare il finale e scrisse una scena da girare a Parigi in mezzo agli incendi appiccati dagli studenti in rivolta e alla reazione della polizia. Si sarebbe trattato di partire da Nizza in macchina la sera stessa per Parigi, per girare queste scene il giorno seguente. Bontempi si attaccò al telefono e cercò di organizzare il tutto con i suoi amici giornalisti francesi. Ma trovò tante difficoltà, ci fu chi lo sconsigliò di andarci, ma lui fu irremovibile, e decise di partire con Volontè. Io mi rifiutai e feci bene perché tornarono dopo qualche giorno senza essere riusciti a girare un metro. Non trovarono né macchina da presa, ne operatori né i permessi dal comitato studentesco. Il montaggio fu ultimato con alcune scene di repertorio. Comunque il film andò in concorso a Venezia ma non ebbe il successo sperato. Forse col finale originale in cui si chiudeva anche la storia d’amore, avrebbe avuto un successo maggiore.
“Contratto carnale”, sempre di Bontempi racconta la truffa che un gruppo di affaristi italiani tenta alle spese di un paese dell’Africa occidentale. Per questo film, finite le riprese ad Accra dovevamo girare alcune scene in un villaggio lungo un fiume, in mezzo alla foresta equatoriale. La troupe sarebbe arrivata con camion e pullman per le tortuose strade della foresta, usate abitualmente per trasportare a valle gli enormi tronchi. La produzione africana propose a Bontempi e a me di andarci con un elicottero militare. Partimmo, era spettacolare, quasi mozzafiato la foresta vista dall’alto, con gli alberi giganteschi che l’elicottero sfiorava, sennonché a un certo punto ci rendemmo conto che i piloti avevano perso l’orientamento, cominciarono a girare a vuoto tentando di orientarsi con la bussola. Nel folto della foresta era impossibile atterrare, il carburante doveva bastare anche per il ritorno, i piloti erano visibilmente in ansia e noi peggio di loro. Tentarono di atterrare in una piccola radura con alcune capanne con l’intenzione di chiedere un’indicazione agli indigeni. Neanche avevamo poggiato le ruote a terra, che arrivarono dalla foresta centinaia di bambini, per cui era impossibile scendere e i piloti decisero di ripartire. Dopo molti giri al pilota venne l’idea di cercare il fiume e seguirlo. Finalmente trovarono il fiume e seguendo il suo corso arrivammo al villaggio col minimo del carburante necessario per tornare. Fu molto emozionante.
Questo villaggio non era altro che un insediamento che gli inglesi avevano creato forse cent’anni prima in mezzo alla foresta, con una enorme segheria in cui si lavoravano i tronchi per farne tavole, compensati, parquet, panforti, e con le scorie facevano i truciolati. Non si buttava niente e i manufatti erano più facili da trasportare. Gli inglesi furono gentilissimi e offrirono vitto e alloggio nei loro chalet a tutta la troupe. Fu gradevole assaporare in mezzo alla foresta equatoriale, anche se per un solo giorno, il “breakfast”, il “pudding” e il tè delle cinque con la torta. Girata la scena ritornammo prudentemente tutti col pullman. Durante questo film feci amicizia con la costumista ghanese, una ragazza molto simpatica che ad Accra aveva una sartoria. La invitai a venire a Roma dove non era mai stata, infatti venne e fu mia ospite e volle vedere anzitutto S. Pietro, poi tutte le basiliche, le piazze, le fontane, ovviamente il Colosseo e i fori. Era il ‘74 e si circolava ancora discretamente.
In “Sbatti il mostro in prima pagina” di Belloccio, Volontà era il direttore di un giornale che pubblica una falsa notizia a danno di un innocente. Questo film inizialmente doveva essere diretto dallo sceneggiatore che abbandonò il film per incompatibilità con Volontè.
“Il gatto a nove code” di Dario Argento, giallo in una clinica, era pieno di effetti che creavano una forte suspense. Nella parte del cieco, Karl Malden, premio Oscar per “Fronte del porto.”
“Vedo nudo” di Dino Risi aveva vari episodi con un Manfredi ossessionato dal sesso che scambia il proprio sedere, attraverso due specchi, per il sedere della dirimpettaia e riesce ad avere un orgasmo solo sdraiato in mezzo ai binari al passaggio di un treno. Era molto piacevole lavorare con Risi, bella persona oltre che straordinario regista.
“Zanna bianca” di Fulci con Franco Nero e Virna Lisi, era la storia di un eroico pastore tedesco. La produzione aveva fatto venire dalla Norvegia sette cani pastori tedeschi con gli allenatori, era stata costruita una casetta con recinto in un paese dell’Austria dove giravamo, per accudire e allenare questi fenomenali cani. Dopo alcuni giorni ci rendemmo conto che questi fenomeni non sapevano fare nulla, gli allenatori facevano di tutto per fargli fare almeno qualcosa, ma niente, erano di coccio, forse non gli piaceva l’Austria. In extremis fu fatto venire da Roma il cane Sacha, illustre sconosciuto, con un ragazzo. Fece subito quello che gli diceva il ragazzo, fece tutte le scene di recitazione, mentre i cani norvegesi furono usati solo per dei passaggi nella neve in campo lungo.
“Il caso Pisciotta” di Prandino Visconti era sui retroscena di una storia in un carcere siciliano, che finisce con un caffè avvelenato…
“Bello come un arcangelo” di Giannetti, con Buzzanca, la Borboni e il simpatico Orazio Orlando, era la torbida storia calabrese di un tentato matricidio. Questo lo girammo nella bellisima Tropea, è stata quasi una vacanza!... Verso sera ci riunivamo sul terrazzino della Borboni, ai bordi della piscina, a sentire i divertenti racconti della sua vita dedicata al cinema e al teatro.
In “Fiorina la vacca” di Vittorio De Sisti, racconti dell’anno mille, esordì Ornella Muti, giovanissima.
“La città sconvolta, caccia ai rapitori” di Fernando Di Leo, con James Mason, raccontava il sequestro di un bambino povero che viene scambiato per un bambino ricco… Il giovane padre riesce a sgominare la banda e a trovare il figlio, ma arriva troppo tardi...
“Holocaust 2000” di Alberto de Martino con Kirk Douglas, fantascienza, fu girato in Tunisia e a Londra. In Tunisia traversammo il deserto in elicottero e mi resi conto che la Tunisia è tutta un enorme uliveto. Girammo alcune scene in un immenso deserto di sale. In Inghilterra, durate un trasferimento ebbi l’occasione di visitare Stone Henge, questo incredibile ma suggestivo insieme di enormi massi di cui ancora non si è capita bene l’origine né la funzione. Nel Devon girammo su una penisola che con l’alta marea diventa un’isola. Gli inglesi sono degli organizzatori straordinari. Quando arrivavo la mattina sul set, dovunque fosse, avevano già sistemato tutto, i camion erano nel posto migliore, c’era un tendone che serviva la mattina per il trucco e alla pausa come mensa. Ci seguiva dovunque un automezzo cucina in grado di preparare i pasti per tutta la troupe. Ci davano veramente cinque pasti, colazione la mattina, una merenda a mezza mattina, il pranzo, poi il tè delle cinque con ogni tipo di torte, poi la cena. Un giorno mi invitarono a cucinare gli spaghetti. Siamo ingrassati tutti di qualche chilo. Stranamente all’ora di pausa mi resi conto che eravamo noi italiani a mangiare, quasi tutti gli inglesi sparivano e ricomparivano a fine pausa per mangiare un panino o un tramezzino. Mi informai e seppi che andavano al pub a fare il pieno di birra e mi ricordarono quei soldati inglesi che, tanti anni prima mi ero divertito a veder bere birra al caffè Pedrocchi di Padova. Insomma, in guerra o in pace, alla loro birra gli inglesi non rinunciano mai. Però dopo la pausa, quando mi serviva qualcosa, la dovevo chiedere due e anche tre volte…
“Ombre roventi” di Mario Caiano, raccontava misteri tra le Piramidi. Eravamo al Cairo. Come protagonista era stata scelta una bella ragazza, una Miss non so che cosa. Il primo giorno di lavorazione, convocata al trucco non si presentò, mandando a dire che sarebbe stata disponibile il giorno dopo. Il direttore di produzione telefonò all’agente a Roma di mandare un’altra attrice che arrivò dopo poche ore. La mattina seguente mandò nella stanza della miss un enorme cesto di rose, che al Cairo costano pochissimo, con una busta in cui c’era il biglietto per il viaggio di ritorno a Roma. Non la vide più nessuno.
Avevo conosciuto Brass nel 58, era l’aiuto di un regista brasiliano in un film che girammo a Venezia con Martine Carol, attrice francese allora sulla cresta dell’onda e Claudia Cardinale. Il film si chiamava “Nozze veneziane”. Brass era un ottimo aiuto regista utile in questo film perché veneziano. Conobbi anche la moglie, simpatica ereditiera della famiglia Cipriani. Andammo d’accordo, anzi c’era tra noi una certa simpatia. Dopo questo film ci perdemmo di vista, ma seguii per anni il suo percorso di regista piuttosto interessante. Tanti anni dopo, nell’85 c’incontrammo nell’ufficio della produzione di Giovanni Bertolucci col quale avevo appena finito un film. Gli dissi che avrei lavorato volentieri con lui, stava preparando “Miranda” dalla “Locandiera” di Goldoni. Fu d’accordo e cominciammo la preparazione facendo dei sopralluoghi nel Veneto. Ma all’inizio delle riprese mi diede molto fastidio il modo inurbano che usava nei confronti dei suoi collaboratori e soprattutto degli assistenti. Erano improperi e parolacce dalla mattina alla sera. Trattava male pure gli attori, faceva stare sempre nuda Serena Grandi anche quando non era necessario. Era irriconoscibile dal ragazzo educato e carino che avevo conosciuto anni prima. Io personalmente non mi potevo lamentare, anzi era contento della fotografia anche se qualche volta cercava di mettere bocca nella sistemazione delle luci. Finchè un giorno decise di far illuminare un ambiente secondo un suo criterio. Ma quando andammo a girare in questo ambiente mi resi conto che era impossibile. Le luci erano poche e mal disposte. Dovetti ricominciare da capo perdendo delle ore preziose. Il direttore di produzione era un amico e capì che avevo salvato la situazione. Comunque ero molto seccato. Alla fine di questa scena Brass si volle mettere alla macchina da presa per inquadrare il dettaglio del sesso della Grandi mentre orinava. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, mi fece proprio schifo e decisi di lasciare il film. Mancavano un paio di settimane, mi sostituì un collega che aveva lavorato spesso con Brass e che firmò il film. Tornato a Roma andai da Bertolucci e gli chiesi di togliere il mio nome, era dispiaciuto, insistette che lasciassi la mia firma, ma accettò facendomi firmare una dichiarazione.
Nel ‘65 girammo “Una bella grinta”, sceneggiatura di Armando Crispino e Lucio Battistrada prodotto dall’amico Giuliani e diretto dal regista Montaldo. Eravamo venuti a Roma insieme al gruppo di genovesi dopo “Achtung Banditi”. Tutti più o meno avevamo trovata una collocazione e un lavoro meno il Montaldo che, dopo aver fatto il ruolo del commissario della squadra dei partigiani, aveva deciso di fare l’attore. Ma venire a Roma da Genova con un passato di impiegato e di filodrammatico e pensare di fare l’attore è una pia illusione. L’aiutai a fare qualche particina, lo presentai a un po’ di gente, ma non bastava per sopravvivere, l’aiutai in tutti i modi. Abbiamo abitato insieme per anni e, quando poteva, partecipava alle spese. Andavamo spesso a Villa Borghese a rimorchiare delle ragazze che ci portavamo a casa. Una volta organizzò un’orgia per accontentare un gruppo di compagni che aveva conosciuto in Emilia. Lavorò in produzione con Giuliani, poi fece l’aiuto regista con Lizzani e Pontecorvo, alla fine si aggregò a degli sceneggiatori per tentare la via della regia. Finalmente, dopo dieci anni riuscì a combinare un film e a fare la regia di “Tiro al piccione”. Dice un mio amico sceneggiatore che quando c’è una buona sceneggiatura tutti sono capaci di fare la regia. E questo lui l’aveva capito. Fu attaccato dalla critica per questo film perché era la storia di un giovane fascista presentato come vittima. Qualche anno dopo Giuliani mise in piedi “Una bella grinta” da girare a Bologna dove Giuliani si appoggiava a un consorzio di distribuzione composto da proprietari di cinema. Come al solito doveva essere un progetto a bassissimo costo, accettammo i settimanali dimezzati. Gi attori erano Renato Salvatori e Norma Benguell, nota attrice brasiliana. Gli orari di lavorazione erano sempre più pesanti, finchè una sera Montaldo esagerò e ci fece stare sul set a girare sempre la stessa inquadratura, battendo il ciak una ventina di volte. Era sabato sera, eravamo stremati, senza mangiare e con la prospettiva di non essere neanche pagati. Decisi di intervenire e dissi a Montaldo che a mezzanotte avremmo smesso di girare. Non mi prese sul serio, intenzionato a continuare finchè avesse ritenuta buona l’ennesima ripresa. Sicchè a mezzanotte feci spegnere il gruppo elettrogeno e ce ne andammo tutti. La domenica mattina Giuliani venne da me e mi disse che Montaldo gli aveva chiesto di mandarmi via. Ero furente, per anni l’evevo aiutato in tutti i modi a sopravvivere. Il lunedì mattina mi presentai sul set come al solito, da lui neanche una parola, mi aspettavo le sue scuse per aver solo pensato di mandarmi via. Finimmo il film come se nulla fosse successo. Anni dopo tentò ancora di non farmi fare un suo film, ma avevo un contratto di ferro e dovette accettarmi. Era il film in cui mandò a fuoco i teatri della De Paolis cercando di addossarmene la colpa! No comment.
E “1800 giorni fa” di Gabriella Gabrielli, era la storia di un campo di concentramento in Calabria in cui la polizia italiana riesce a salvare tutti gli internati impedendo con un sotterfugio ai tedeschi di entrare nel campo. Era il primo film della Gabrielli, lo girammo in massima parte a Sulmona in una caserma dismessa. Per finire le riprese mancava una scena importante, il passaggio di un treno dell’epoca con i carri bestiame nei quali si supponeva ci fossero gli internati e una fermata di questo treno in una stazione. Fummo convocati in un paesino di montagna in Abruzzo e fummo fortunati perché cominciò a nevicare e vedemmo la possibilità di girare delle scene particolarmente d’effetto con la neve vera. Ma diventò una tormenta, faceva un freddo cane, nevicava tantissimo e in più c’era un forte vento. A un certo momento, finita una scena, nevicava talmente forte che tutti corsero a ripararsi in un casale di contadini dove c’era un camino acceso. Rimanemmo soli io e la regista, ci riparammo nel cassone di un camion. Era una situazione paradossale, non sapevamo che fare, la bufera aumentava, non avremmo nanche saputo come arrivare a quel casale, la visibilità era zero. Eravamo stanchi e intirizziti. Finalmente la bufera cominciò a calare e potemmo riprendere la lavorazione e finire il programma. Girammo anche il treno che arrivava alla stazione, con tutta quella neve potemmo girare delle inquadrature particolarmente suggestive.
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